Bruno Tardivelli racconta…3ª parte



LA "TRAPOLA" ( estratto da "La mia Gioventù 1940- 1949)

Quando a Fiume con l'8 Settembre del 1943 incominciarono a comandare i tedeschi, io per i primi tempi, pur essendo disoccupato, riuscii ad eludere la loro Leva. Non mi avevano mobilitato perché col "Gruppo Filodrammatico Fiumano" e con il complesso dei "Gatti Selvatici" partecipavo a recite e riviste d'Arte Varia per il Pubblico e i Militari. A tutti i componenti di tali Gruppi, "el Tipo" (un trapoler che ghe ne saveva una più dei altri) ci aveva procurato dal Comando Tedesco l'"Ausweis" con l'esonero dalla Leva, eravamo "Mobilitati Civili." Le autorità tedesche avevano emanato una disposizione tassativa:
"A FIUME LA VITA E'NORMALE !"
I tempi però erano cupi, le prospettive tragiche, piovevano le bombe!
Cosa ci potevamo fare ?
Cantare:
"E fin che la va cussì,
non la va mica male.
Cantaremo Demoghela
fin che l'ultimo sarà !"

"el Tipo", dopo il "ribalton" dell' 8 Settembre 1943, convinto che la guerra era perduta, chissà attraverso quali misteriose conoscenze, col miraggio di continuare a galleggiare in quel marasma, aveva aderito alla Lotta Partigiana Jugoslava; i suoi Compagni lo avevano convinto che Fiume avrebbe goduto di un'ampia autonomia per la sua connotazione italiana, come ai tempi della "Beata Defonta", in seno alla Jugoslavia…….

Così era solennemente garantito nella Costituzione della Federativa Repubblica Popolare Jugoslava, già proclamata in tempo di guerra. "Mejo che soto el Franz staremo, che girila come ti vol, el jera el Kaiser ! Alora comandava i Signori ! Adeso invece, camandarà el popolo !" Finita la guerra, secondo lui, saremmo diventati tutti felici e fratelli nella patria socialista. Ma perché Socialista se quelli erano Comunisti ? (mi chiedevo) Boah !

Io, giovanotto di primo pelo ma già memore della recente fregatura del Duce, ero roso da un ulteriore ed amletico dubbio; eh, anche Caino e Abele erano fratelli, ma a "Lui" certe favole sorpassate non interessavano. "I tempi xe cambiadi !" profetava "el Tipo" con aria ispirata e sorniona che non ammetteva esitazioni e io tutto zitto lo stavo a sentire. Gli altri amici facevano altrettanto, nessuno osava contraddirlo; con l'aria di burrasca che spirava a Fiume, era meglio nicchiare. Forse lui la sapeva veramente più lunga degli altri ! L'utopia del "Sol dell'Avvenire" l'ammaliava. Con chi avesse a che fare era un mistero su cui era più salubre non indagare, meno si sapeva, meglio era. Il futuro sarebbe stato luminoso per noi fiumani e radioso per lui ! Era ambizioso, doveva emergere, farsi apprezzare dai futuri nuovi padroni yugoslaVI; intanto per eccellere cercava nuovi seguaci.

Io fui tra i suoi prescelti, così m'impose alcuni incarichi rischiosi; avrei dovuto gettare nottetempo dei manifestini, scrivere sui muri col minio. Se mi avessero preso mi avrebbero accoppato di botte. Io ero reticente, non ero disposto ad osare per una causa che non mi convinceva; assentivo ed eseguivo a modo mio, così non fui all'altezza dei compiti affidatimi e delle sue attese. Tremante di paura infilai il pacco dei foglietti in un tombino e mi liberai di pittura e pennello lanciandoli oltre il ponte della ferrovia, in via Carducci.

Egli sapeva che ero in confidenza con certi muli miei vicini di casa, che per rimanere a Fiume, togliersi la fame e vestirsi in modo decente in quel rigido inverno, si erano arruolati nella Milizia Ferroviaria. Allora non era possibile sfuggire alla Leva; quei ragazzi, come tanti altri, furono costretti ad una scelta obbligata per sopravvivere, per non avere come superiori degli ufficiali tedeschi o essere spediti in Germania. Intuivano che fuggendo "in Bosco" con i comunisti jugoslavi non avrebbero risolto i loro problemi, e non si sbagliavano.

Egli mi tormentava chiedendomi di fare l'informatore; voleva notizie dettagliate su quell'unità: quanti erano, cosa facevano, come la pensavano, erano "malleabili", quali armi avevano. La nostra piccola barca stava affondando e gli ideali con i quali ci avevano ubriacati erano tutti andati a farsi friggere. La sbornia era passata, restavano la nausea e il vomito, bisognava solo sopravvivere. Mi sentivo tra l'incudine e il martello, detestavo danneggiare i muli, mi ripugnava fare delle domande che potevano compromettere loro e me, temevo d'indisporre quel personaggio che mi metteva soggezione, avrei potuto avere bisogno di lui un giorno non lontano, così menavo il can per l'aia e quando lo dovevo informare mi lambiccavo il cervello per raccontargli delle baggianate credibili ma insignificanti.

Mi rendevo conto che stavo scherzando col fuoco, talvolta ero assalito da indefinite angosce che la notte non mi facevano dormire. Possibile che tra tutti i ferrovieri, che la sapevano più lunga di un pivello come me, non ci fosse già qualche collaborazionista più navigato e toccasse proprio a me, che avevo già tanti guai per conto mio, fornirgli le notizie scottanti che cercava ?

Mi convinsi che io ero uno dei diversi elementi a cui era affidato tale compito e i dati che avrei fornito sarebbero stati poi confrontati con quelli degli altri, per accertarsi della loro attendibilità e valutare quanto io potevo garantire una collaborazione affidabile su cui si sarebbe potuto contare in caso di incarichi più impegnativi.

Poco per volta m'accorsi che ero ritenuto poco adatto per le loro imprese, timoroso o incerto per compiti rischiosi che richiedevano audacia e assenza di scrupoli, così, dopo un po', il mio persecutore mi lasciò in pace. Poi coronai un mio sogno: andai a lavorare, ebbi un incarico di maestro provvisorio e m'illusi di essere "finalmente a posto", fuori da ogni "trapola" di quell'ambiente teatrale che ormai avevo in uggia.

Bruno Tardivelli. ( 27.02.2007 )


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Maestro in Citavecia parte 1ª


Nel Settembre del 1944 mi giunse finalmente l'atteso annuncio che avrei ottenuto l'incarico annuale d'Insegnante Provvisorio presso la Scuola di Drenova Siccome la scuola di quel borgo era diventata una caserma, fui assegnato in centro, nei pressi della Cittavecchia, alla scuola "Daniele Manin" di Via Roma. Meglio di così non mi poteva andare! Altri miei compagni di classe avevano avuto l'incarico a Jusici a Sapiane e Giordani ma non ce li mandarono, i Partigiani facevano la pelle ai maestri che insegnavamo l'italiano ai Cragnolini. Ero proprio contento del mio lavoro, forse le cose nella nostra famiglia avrebbero potuto riprendere ad andare per un altro verso.

Andasse alla malora l'incerta attività della Filodrammatica, il "Varietà" dei Gatti Selvatici che mi faceva guadagnare qualche soldino, e quel "mato" che li dentro si dava un sacco di arie e mi voleva immischiare in trame politiche che non mi garbavano. Io non dovevo rischiare, il mio papà non c'era più e avevo una famiglia da mantenere !

Il Direttore Didattico della mia scuola era uno che quando avevo frequentato le elementari era giovane maestro, mi conosceva; mi pare si chiamasse Brass. Ci convocò e per l'assegnazione delle classi e quando venne il mio turno, mi squadrò, mi fece un bel sorriso e mi comunicò che considerata la mia presenza, aveva deciso di affidarmi addirittura una quinta classe, che però aveva qualche problemino. Ad ogni modo potevo ricorrere alla sua esperienza, sul suo aiuto e la sua comprensione. Mi disse ancora di non preoccuparmi troppo del programma, L'importante era che mi interessassi del leggere, dello scrivere e del far di conto ma soprattutto della disciplina essenziale presupposto per un buon lavoro e la quiete scolastica. Cosa volesse dire lo capii più tardi.

Io non sapevo da dove incominciare, mi sentivo come un pesce fuor d'acqua con quello che avevo appreso alle Magistrali Avevo la testa piena di letteratura, filosofia, teorie, formule chimiche e matematiche, ma come si facesse ad insegnare qualcosa ad uno scolaro non lo doveva sapere nemmeno il mio professore di pedagogia che ci ossessionava con "La Critica della Ragion Pura e della Ragion pratica" di Kant, "La Scienza dell'Essenza" e "La scienza della Conoscenza" di Herbart .

A casa spulciai l'elenco dei miei futuri scolari, pochini avevano l'età giusta, la maggior parte erano pluriripetenti tra i 12 e i 14 anni ! Abitavano tutti nelle Calli della "Citavecia" Allora la "privacy", come i legislatori nostrani in vena di anglicismi amano chiamare "gli affari privati" ovvero le cose che non devono essere messe in piazza perché interessano la dignità della persona, non era conosciuta.

Notai così che parecchi ragazzi o erano figli di N.N., o portavano il cognome della sola madre, la paternità era ignota!. I padri, se c'erano, avevano umili lavori: bracciante, facchino, al più carrettiere o marinaio, non c'erano disoccupati perché chi non era stato sistemato dai tedeschi, era irreperibile………..(era andato in bosco) La realtà però doveva essere ancora più deprimente.

Qualcuno mi soffiò all'orecchio che miei colleghi di ruolo, più esperti e anziani, col consenso del Direttore mi avevano sistemato per bene, scremando dalle loro Quinte classi tutti gli elementi che davano problemi di disciplina, non permettevano loro una vita quieta e il regolare svolgimento del programma. Ecco spiegato il discorso del Direttore che si dichiarava disponibile ad aiutarmi, consigliarmi, comprendermi.

Le lezioni iniziarono la metà di Settembre. Ero emozionato, di buon'ora mi preparai e strada facendo meditavo un bel discorsetto d'insediamento da spiattellare ai miei scolari, appena fossi montato in cattedra. Salii per tempo per lo scalone, mi affacciai nel corridoio e m'imbattei in un scrupoloso e ossequiente bidello, già agitato per il chiasso che usciva da un'aula : era la mia ! Mi mormorò facendo un mezzo inchino : "Per fortuna che la xe arivà presto, signor Maestro, perché quei là già i poderia già far disastri ! "

Come benvenuto, non era mica male !

Bruno Tardivelli ( 05.03.2007)


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Maestro in Citavecia parte 2ª


Comparvi sull'uscio dell'aula, mentre il bidello curioso occhieggiava a debita distanza. Due ragazzotti agli come scimmie si rincorrevano sopra i banchi, altri li incitavano a gran voce. Di botto la gazzarra cessò ed io rimasi fermo e muto sulla soglia ad osservarli, appoggiato allo stipite della porta. Erano appena in cinque o sei, magri, allampanati, malmessi, non erano ragazzini quelli, erano mezzi giovanotti, avranno avuto sei o sette anni meno di me ! Già gli crescevano i baffi! Se si fossero messi d'accordo e lo erano certamente, me le avrebbero suonate di santa ragione e allora addio lavoro e stipendio! Ci guardavamo in faccia a vicenda, come per sfidarci, poi uno piccolino fissandomi, mormorò a quello lungo che era ancora in piedi sul banco: "Ma sto qua, no xe quel dei "Gati Selvatighi !"

Mi venne da ridere, guarda un po' da dove mi conoscevano già i miei scolari ! Ruppi allora il ghiaccio: "Eh si, ti ga ragion, son proprio mi, quel la dei "Gati" !

Era successa una cosa che mai mi sarei aspettato. I miei scolari erano tra i monelli che lasciavamo entrare al Teatro Fenice pochi minuti prima dell' inizio dello spettacolo, quando gli spettatori paganti ormai erano tutti entrati. Mi conoscevano per forza. Basta, me li ero fatti amici a buon mercato e subito fecero crocchio attorno a me che non li stavo rimproverando; mi subissarono di domande e curiose richieste. Ogni ragazzo che entrava in classe era immediatamente ragguagliato sulla mia identità ed erano contenti di avere per maestro un "Tipo" così particolare. Mi resi conto che dovevo prendere i miei alunni per il loro verso, erano ragazzi difficili, abituati a scorazzare tutto il giorno per la strada, dove certamente ne avranno viste di tutti i colori. Molti vendevano "Sotto la Torre", luogo classico di passaggio, d'incontri occasionali e di appuntamenti, sigarette, fiammiferi e pietrine di "Borsa Nera", altri offrivano ciabatte fatte in casa, scarpe militari, indumenti usati, procurati chissà dove. Agli angoli del "Volto" che sta accanto e porta in Piazzetta Santa Barbara, un po' nella penombra, stazionavano, quando non erano impegnate, due povere prostitute, vittime dei lazzi osceni di giovinastri e ragazzotti: la Maria Gambavana e la Giulia, chiamata con spregio: Julka. Era una piccola "Corte dei Miracoli", animata fino a quando non scendevano le prime ombre della sera. Quando scoccava l'ora del Coprifuoco, tutti si ritiravano tra le mura sbrecciate delle case di "Citavecia", luogo della povera gente e delle Case Chiuse dai prezzi popolari. Ecco chi furono i miei primi scolari ! Io ero imbarazzatissimo. Ogni mattina andando al mio lavoro mi lambiccavo il cervello; dovevo escogitare il modo per intrattenere i miei scolari senza che il mio direttore mi trovasse da ridire. Ci abituammo presto a stare insieme. Io venivo da casa percorrendo il Corso e Via del Fosso. Al termine c'è Piazza Scarpa e mi aspettavano lì, non entravano a scuola alla spicciolata. Se non soffiava la Bora, tiravano calci alla solita "Bala de Straza" o, se c'era vento, al riparo del Campanile del Duomo, giocando "a Soldi". Il primo che mi scorgeva gridava: "Eccolo! ". Smettevano all'istante il loro passatempo, raccoglievano le loro sdrucite cartelle e mi correvano incontro, offrendomi la loro mano, immancabilmente sporca, con le unghie lunghe e nere, ma non avevo mai il coraggio di dirglielo. Li avevo abituato così ed erano felici di tale confidenza, era l'unico modo per tenerli buoni. In codazzo mi venivano dietro chiassosi, dandosi gli spintoni per starmi più vicini. Prendevo per mano il piccolo e mal messo che aveva una gran tosse e ci avviavamo. Avevo incominciato a volere loro bene, erano sinceri, spontanei, disinibiti, forse non avevano nessun altro che dava loro retta, li rispettava, cercava di accontentarli e aveva stima di loro.

Intravedevo accanto alla scuola la caserma delle SS. Dicevano che di notte si udiva da quel luogo giungere la musica delle radio suonate ad un volume altissimo. Chissà perché………… Erano tempi brutti, non si poteva pensare che facessero delle feste ogni notte, il domani, era oscuro e confuso …….

Appressandoci al portone della scuola mi fermavo e dicevo: "Dai, Fioi, meteve pulito (per bene) in fila altrimenti el Signor Diretor me ziga a mi e me pol anca mandar via perché non tengo la disciplina."

Per benino s'acquietavano si mettevano per tre e silenziosi in punta di piedi salivamo lo scalone, bontà loro, per non farmi fare brutta figura.

Così el Signor Diretor nol gaveria licenzià el nostro signor Maestro che poi, xe "quel dei Gati".

Bruno Tardivelli ( 11.03.2007 )


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Maestro in Citavecia parte 3ª


Alla fine di Novembre del 1944, comparve sui muri di Fiume un altro bando tedesco per l'arruolamento al lavoro obbligatorio e di Leva. Erano precettati tutti coloro che erano nati nel 1928 (avevano 16 anni) e gli esonerati di tutti gli anni precedenti dal 1890 in poi. Mi recai all'Ufficio Leva con i miei certificati medici attestanti che ero in cura per una malattia ai polmoni, che avevo la bronchite e poi che ero impegnato come attore e facevo il maestro nella scuola "Daniele Manin". Era un'illusione però sperare in un nuovo esonero, ma "tentar non nuoce".

Appena videro le mie scartoffie storsero il naso, l'impiegato tedesco biascicò che dei nostri spettacoli non avevano più bisogno, per insegnare andavano bene le donne e sorridendo espresse il parere che un cambiamento d'aria mi avrebbe giovato alla salute. Ebbi l'impressione che mi canzonasse.

Mi presentai alla Commissione medica, c'era il Dott Mkulicic di Susak, soprannominato "el bomba" a causa della sua corporatura massiccia, ma la pancia a quei tempi gli era scesa di molto. Diede un'occhiata ai miei certificati e guardandomi un po' sconsolato soggiunse : "Fio mio, mi non te posso far gnente ! Ti xe vegnù qua caminando, ti sta in piedi, caro mio, non ti par proprio un moribondo, non ti sta miga in un leto ! Alora mi non te poso far che "abile-arruolato ! "

Uscii per strada rassegnato. Incontrai la signora Berta, nostra amica di famiglia e quando seppe la notizia le venne spontaneo da dire: "Ah, povero Bruno mio, che Dio te la mandi bona. Sto colpo, o ti risani o ti va dal Lukovich !" Forse quest'ultima considerazione alla loquace signora era sfuggita di bocca e per me non era certamente incoraggiante.

Di quei giorni ricordo solo ancora che andai nella mia classe con un groppo in gola, ero come "un gato sbrovà". Erano due mesi e mezzo che ero con i miei scolari di quella "quinta squinternata". Quante cose mi avevano raccontato perché io ero forse l'unico adulto (ma non troppo, avevo 21anni) che davo loro retta, che li ascoltava; allora mi ricompensavano con la loro sincerità, tenendomi informato di quanto era cruda e difficile la loro vita.

C'era Oscar, che con Nevio e Pepin gironzolavano al pomeriggio "Sotto la Torre" a vendere fiammiferi e sigarette di borsa nera, però si offrivano di procurare pure qualsiasi altra roba.

Rudi, Carlo e Leo andavano a procurare il carbone dalla parte opposta della città, attorno al muro di cinta del deposito locomotive, ai Pioppi. Raspavano nel mucchio della cenere che i ferrovieri gettavano, quando pulivano le locomotive per scegliere i pezzi di carbone esausto che poteva ancora ardere e già che c'erano allungavano appena potevano le mani sul carbone fossile, quello buono. Quando il gruppo si faceva più folto, i Militi fiumani di guardia, che avevano fatto finta di non vederli, cacciavano via tutti, minacciando che avrebbero sparato. Si dileguavano come colombi spaventati, pronti a ritornare sul posto appena le guardie si sarebbero allontanate. Un Milite che spesso era li di sentinella, mi raccontava quelle scene e pure lui portava a casa un po' di carbone nel tascapane dove metteva le bombe a mano quando era di scorta ai treni.

Altri ancora trascinavano carriole e carrettini per fare piccoli servizi. Tutto serviva per la fabbrica dell'appetito, che era tanto. Quanti ancora c'erano, di cui non ricordo più né il nome né la fisionomia, tutti magri, vestiti poveramente, con qualche indumento militare : una camicia, un giubbetto di panno grigioverde, qualche toppa sui calzoni, chi con le scarpe rabberciate chi in ciabatte di pezza e nei giorni di pioggia con un berrettino o una bustina da soldato, senza insegne, con i paraorecchie a penzoloni e una tela cerata, fermata con uno spago, sulle spalle. Gironzolavano all'ora della cena attorno alla vicina caserma della Milizia, il Battaglione "M", ormai composto quasi tutto da "muli fiumani" che conoscevano per nome, perché Fiume era allora una piccola città ed era difficile che non ci si conoscesse, fra giovani, almeno di vista. Aspettavano che fosse distribuito il rancio ai Militi e nel "pignaton"ce ne rimaneva sempre in abbondanza anche per "la mularia". Così saltava sempre fuori la cena e qualcosa ancora da portare a casa nell'immancabile pentolino che ciascuno si portava dietro, appeso alla cintura.

Dai tedeschi: NO ! Non ci andavano. Mi raccontavano che se si aggiravano nei pressi li cacciavano via, li minacciavano con le armi; quelli avevano tanta paura di tutti. Presagivano tempi sempre più brutti per loro e temevano per la loro vita.. Essi vedevano nemici da tutte le parti e avevano ragione, nessuno li cercava, né voleva saperne più di loro, si sentivano odiati; avevano accanto solo delle ragazze disperate e senza avvenire, coinvolte con loro per incoscienza, avidità, momentanea vanteria e soprattutto per bisogno e per fame.

Bruno Tardivelli ( 17.03.2007)


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L' ARCO DEL T I T O

Prima parte


Per i festeggiamenti dell'Annessione di Fiume alla Jugoslavia, decretata dal governo Jugoslavo già nell'estate del 1945, senza attendere le lungaggini del Trattato di Pace, in quella che noi fiumani chiamavamo "Piazza Regina Elena", prima dell'inizio del Corso, sotto il Palazzo Adria e "il Grattacielo", proprio al centro, fu eretto un imponente arco trionfale. Era di legno e lo ricordo pitturato di rosso, con in cima, al centro, una grande Stella Rossa, bordata di giallo, sovrastata da una grande bandiera jugoslava che garriva al vento. Ai lati, più in basso erano disposte le bandiere delle repubbliche che componevano la Federazione, tutte con i colori blu, bianco e rosso, diversamente disposti, ed una bandiera italiana che mi sembrava bislacca perché al centro aveva la Stella Rossa. Sui fianchi c'erano dei fregi con le immancabili falci e martelli e gli slogan di rito che ci erano venuti a nausea.

Tutti i cortei di giubilo, composti da comunisti nostrani, monfalkonesi, napoletani e milanesi ammaliati dal "Sol dell'Avvenire" e da gente calata a Fiume da ogni angolo della Jugoslavia, passavano sempre, in ogni occasione, con bandiere e cartelloni, tra canti patriottici e guerreschi, al grido di slogan bellicosamente festanti, sotto il maestoso e deprecato arco scarlatto. Mi si chiederà: e i nostri fiumani scontenti, che erano poi la maggioranza degli abitanti di Fiume, come si comportavano ? In quei frangenti, con le notizie tanto strane da sembrare incredibili o bizzarre, talvolta agghiaccianti che si sussurravano tra le mura domestiche, di gente sparita ed accoppata in malo modo, cosa volete che facessero? Con le immancabili raccomandazioni alla cautela e alla diffidenza verso chiunque, peggio che nei tempi più bui della Gestapo, in verità parecchi paventavano qualche visita notturna imprevista e continuavano a fare scrupolosamente l'esame di coscienza, andando a riesumare atteggiamenti, discorsi recenti o peggio ancora posizioni e incarichi avuti nel proprio passato prossimo e remoto, sotto i Tedeschi ed il Regime Fascista. Nel presente, così incerto, quei trascorsi potevano ahimé nuocere seriamente. Bisognava essere dentro quella situazione, con quel patema d'animo, con la lacerazione intima che ciascuno di noi provava, per azzeccare il comportamento giusto e vincere la malcelata conflittualità che trascinavamo penosamente nel petto. Ma con le lacrime non si è mai combinato nulla, si fa solo del male a sé stessi. C'era un modo innocente per dissentire: camminare con noncuranza per i marciapiedi laterali di Piazza Regina Elena, guardandosi bene di passare sotto l'inviso Rosso Arco di Trionfo Titino Fu una trovata geniale che nacque spontanea, contemporaneamente, nella testa di molti. Sorridevamo cautamente tutti perché tutti avevamo pensato la stessa cosa. Non potevano essere che tutti "druzi" coloro che passavano sotto quell'Arco maledetto . Ma che trovata! Ma che bella trovata! Chi ci poteva proibire di "non passare" con aria distratta dai nostri pensieri, proprio per il centro della Piazza ? Ma quante e quali sorprese vedevamo! Col trascorrere dei giorni, in Città si capì l'antifona o il solito ruffiano fece la spia e allora corse la voce ufficiale che quelli che non volevano passare sotto l'Arco erano dei "reazionari", dei "bechi", dei "cornuti" : cioè erano timorosi che le loro corna s'incastrassero nell'Arco. Beh, cosa c'era allora di male? Anche i cornuti avevano diritto di vivere, ed eravamo in tanti ! Mal comune, mezzo gaudio! Degli spiriti arguti avevano inventato e fatto circolare una rima caustica di malaugurio che ebbe una diffusione rapida e sortì un grande effetto:

"maledetto quel fiuman
che'l pasa soto l'Arco Partigian!"

Ci divertivamo un mondo ad osservare da lontano, soffermandoci sui marciapiedi circostanti coloro che passavano sotto l'Arco: nostrani o foresti che fossero. Me ne stavo una volta con un crocchio nel quale c'era pure mio fratello Camillo sull'angolo di via Ciotta, poco distante dal Grattacielo ad osservare divertiti la solita scena dei "drusi" che si facevano il vanto di passare sotto l'Arco con aria soddisfatta o chi, andando per i fatti suoi, soprapensiero, all'ultimo momento scantonava come avesse scorto all'ultimo momento chissà quale pericolo. Per la discesa di Via Carducci scendeva un tale che doveva avere una gran fretta. Pedalava vigoroso una massiccia bicicletta, di quelle che i "Muli del Pek" ( garzoni del panettiere) inforcavano per portare di buon mattino il pane appena sfornato alle varie rivendite. Capitò in un baleno come un forsennato nel bel mezzo della Piazza, scampanellando perché i passanti gli dessero strada. All'ultimo momento l'incauto ciclista s'accorse che inesorabilmente sarebbe passato, a cavalcioni del suo bolide, sotto l'Arco del Tito. Si udi allora uno stridio di freni, uno sfrigolio di gomme sull'asfalto, un tonfo metallico, in botto ed una colorita imprecazione. Lo sprovveduto così aveva schivato il famigerato monumento titino e evitato la maledizione collettiva dei suo concittadini. Qualcuno si fece avanti per soccorrere il temerario; la sua bicicletta era indenne perché aveva la struttura di un carro armato e lui se l'era cavata con un'ammaccatura. Nel ricordare il fatto con mio fratello ridiamo ancora come matti. Chissà quali facce avevano tutti quelli che avevano assistito ala scena!

Bruno Tardivelli ( 22.03.2007 )


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L' ARCO DEL TITO
Seconda parte


Io nel Settembre del 1945 avevo incominciato ad insegnare nella scuola del Belvedere dove fino alla fine della guerra c'era l'Istituto Magistrale. Una mattina tutte le scolaresche doveva scendere in città per andare al cinema Centrale, quello che c'è ancora in Via Fosso, vicino alla Fiumara. Se non mi sbaglio, veniva proiettato il film "Roma, Città aperta", di Rossellini, bellissimo, con la Magnani e Aldo Fabrizi.
Ci incolonnammo tutti.
Il mio Compagno Direttore mi disse:
"Tu con la tua classe fai strada."
Io volevo scendere per la Via Buonarroti, per l'ex Via Roma, passare accanto a San Vito e attraversando la Cittavecchia, raggiungere il cinema.
Era il percorso più breve e comodo.
Nossignori, al mio Direttore, un "Tizio" forestiero, arrivato di fresco da non so dove, non andava bene; dovevo attraversare la città, passare per il Corso, perché tutti ci vedessero.
"Ma facciamo la strada più lunga!"
"Non fa niente, vi fate una passeggiata!
E poi mi raccomando: " Compagno, fate bella figura!"
Feci spallucce e partii, con tutti gli altri dietro.
Ma perché il "Tizio" mi aveva ordinato di passare per il Corso?
Quale "bella figura" secondo lui dovevamo fare?
Qualcosa mi frullava per il capo.
Le idee mi si chiarirono mentre scendevo per Via Pomerio:
Ecco: Quel fanatico pensava che saremmo tutti quanti passati sotto l'Arco del Tito.
Io non ne avevo nessuna voglia, mi vergognavo, cento occhi ci avrebbero guardato, e poi c'era di mezzo quella "maledizione".
Io sotto l'Arco non ero mai passato né avevo alcuna intenzione di farlo, cosa mi avrebbero detto quelli che mi conoscevano?
Dovevo escogitare qualcosa per evitarlo senza incorrere nelle ire del "Tizio", il mio Compagno Direttore.
Dovevo salvare capra e cavoli.
Io, propenso spesso al compromesso, volli quella volta fare il temerario.
Il Direttore mi aveva anche raccomandato di stare attento, tenere il marciapiede, anche se per la strada il traffico era quasi inesistente; per la città transitavano solo pochi automezzi militari e qualche camion sgangherato.
Bene, io avrei condotto la mia classe e dietro ad essa tutte le altre della scuola, "soltanto" per i marciapiedi.
Architettai il mio piano:
Passai dietro la chiesa dei Cappuccini, percorrendo lo stretto marciapiede sinistro, come devono fare tutti i bravi pedoni e tenendo quella mano sarei spuntato dal fondo di Via Carducci, accanto al negozio di Pio Masè, rasentando le case, in Piazza ex Regina Elena, ben distante dal suo centro, dove troneggiava l'Arco Infame.
Sarei proseguito per il marciapiede della Piazza, a fianco delle case, verso il Corso.
Così quel cretino di "Tizio" che voleva complicarmi la vita, era servito e andasse anche lui alla malora !
Le classi avevano ciascuna una trentina di alunni, la colonna era lunga.
Giunti sulla piazza uno scolaro accennò:
"Compagno Maestro, pasemo sotto l'Arco del Tito ?"
"Sta zito, el Compagno Diretor ga dito che se deve caminar solo per i marciapiedi.
Altrove xe pericoloso, bisogna sempre ubidir al Compagno Diretor!"
Mi congratulavo con me stesso, quel fanatico con le sue raccomandazioni si era fregato da solo!
Stavo quasi oltrepassando l'Arco, mi girai.
La classe dietro la mia, con la sua maestra mi seguiva; Benissimo!
Gongolavo, qualche passante osservandoci , ridacchiava compiaciuto.
Mi girai ancora e questa volta allibii.
Là in fondo, un collega era sceso dal marciapiede con tutti gli scolari dietro, aveva preso per mano il primo della fila deviando a destra si dirigeva verso il centro della Piazza, tutte le altre classi gli sarebbero andate dietro.
Disgraziato, aveva intenzione di passare sotto quell'Arco Maledetto e mi rompeva le uova nel paniere, mi avrebbe messo nei guai!
L'avevo detto io che quella faccia da "pizamorto" non mi era mai piaciuta, non mi ricordo chi fosse, so solo che mi era antipatico già da prima.
Mi sono ricordato per sempre quella scena, con i passanti che stavano a guardare: chi se la godeva, chi era scandalizzato ed io imperterrito, dritto per il mio marciapiede, come mi aveva ordinato il Compagno Direttore!
La maestra che veniva dietro a me squittiva allarmata:
"Maestro, Compagno, dovevamo passare sotto l'Arco!"
Ed io con voce forte, che tutti sentissero, "Compagna, el Diretor me ga dito: "Mi raccomando, sta sempre sul marciapiede, non si sa mai!
E mi vado con sti fioi solo per i marciapiedi!"
Feci la figura del Don Chisciotte.
Avevo il batticuore e mi sentivo il viso paonazzo, ero confuso.
Per il Corso la colonna si ricompose e andammo al Cinema.
Al ritorno rifacemmo lo stesso percorso ma io non ero più il battistrada.
Passammo tutti, io compreso, buoni e docili sotto l'Arco famigerato ed a tutti i miei colleghi apparve chiaro che io stavo recitando "il mea culpa".
Nel farlo chinai la testa per non sbatterci contro le mie corna, avevo le mani in tasca, con le dita mostravo altre corna, per fare gli scongiuri.
Speravo che non mi vedesse nessun conoscente.
Di li a poco il Direttore convocò il corpo insegnante per comunicarci che noi avevamo la necessità di un aggiornamento storico-politico perché la nostra formazione era avvenuta in epoca fascista.
Mi sembrò che il mio superiore parlando mi guardasse un po' troppo frequentemente ed il mio pensiero corse, chissà perché, all'Arco del Tito che troneggiava in Piazza Regina Elena ed a coloro che ci passavano sotto.
Nel Teatro del Popolo (il Teatro Verdi) si stava costituendo in quei giorni, con gli elementi del Gruppo Filodrammatico Fiumano del quale da anni facevo parte, la compagnia del "Dramma Italiano". La maggior parte dei miei amici era lì ed insistevano che ci venissi anch'io così di buon grado cambiai mestiere, tanto più che al Compagno Direttore ero antipatico e la paga di attore era migliore di quella di un maestro.

Bruno Tardivelli (24.03.2007)