Bruno Tardivelli racconta…5ª parte



1 L'ULTIMO ATTO DELLA GUERRA (Memorie dell'Aprile 1945)

IL TEN. RAOUL SPERBER


Raoul Sperber era fiumano, della classe 1920, comandava nel 1945 il distaccamento di 200 Alpini della "Julia di stanza a Santa Caterina. Io lo conoscevo bene, lo ammiravo, era allegro, leale con gli amici, galante con tutte le mule del Corso; certe per Lui avrebbero fatto pazzie. Lo chiamavamo "el Barbarossa" perché era rosso di pelo. Si era diplomato, se ricordo bene, tre anni prima di me ed era partito soldato all'inizio della guerra. Ci snobbava un pò, per lui eravamo : "mularìa" Veniva a passeggio per il Corso e quando era l'ora di tornare " a remengo ", lassù a Santa Caterina, nel crocchio dove s'intratteneva, bastava che facesse un cenno, schioccando le dita :
"Muli, ne toca andar !"
Via via che passava, tutti i suoi alpini in libera uscita che "i se remenava" per i paraggi, gli si accodavano e in "clapa", un po' spensierati, vivaci, facevano ritorno lassù fra i loro "grebani" . Era la metà di Aprile del 1945, il passeggio per il Corso non esisteva più, io ero mobilitato per il lavoro obbligatorio nell'Org Todt e mi trovavo a Santa Caterina; dovevo scavare un'inutile trincea, assieme a Martin, un vecchio barbiere di Braida e a "la biondina", una mula esile e dimessa che mi faceva più pena che tenerezza. Toccava sempre a me battere la mazza, ormai ero diventato esperto nel dare i colpi, la biondina mi teneva "el strangolin" e guardandomi languidamente mormorava
"Bruno, me racomando, sta atento dove ti bati !
Mi me fido solo de ti!"
El vecio Martin, per stare sicuro, raspava la terra, come poteva.
Sentivamo lontano il mugolio funereo del cannone, i tedeschi contrastavano l'avanzata dei Partigiani verso Segna. Gli anziani soldati tedeschi che ci sorvegliavano erano inquieti, non tenevano più il fucile a tracolla, ma lo impugnavano, come se dovessero sparare da un momento all'altro. Una mattina corse voce tra di noi che i tedeschi avevano disarmato i nostri Alpini e che li stavano deportando, mentre il Ten, Raoul Sperber, "el barbarossa", era stato arrestato. Restammo sorpresi e rattristati. Narra Mario Dassovich nel suo libro "Proiettili in canna", a pag 173 - 177 , nel capitolo "Alcuni Episodi" le tragedia che avvennero in quei giorni a Fiume. C'era un' intesa tra il CNL (non comunista) e i comandi delle truppe italiane di stanza a Fiume e dintorni per impossessarsi della Città appena i tedeschi, molto meglio armati, avrebbero rinunciato a presidiarla. Si voleva in tutti i modi evitare una feroce rappresaglia tedesca sulla popolazione, che si sarebbe conclusa con un massacro e la vana speranza di gettare un'ipoteca sul futuro della Città. Era ormai evidente che se i tedeschi avessero avuto la possibilità, da Fiume, se ne sarebbero volentieri andati senza combattere. Qualcosa nella delicatissima situazione non andò per il verso giusto e il sogno di affermare con un'azione militare l'italianità di Fiume s'infranse prima di nascere. Negli stessi giorni, in Via Pomerio, nella sua abitazione fu assassinato da sconosciuti (?) il pittore Mario de Hajnal noto esponente dell'Autonomismo Fiumano. La mattanza dei "veri fiumani" era iniziata. La Nostra Città era decapitata. Avevamo la netta percezione che la nostra vita non valeva più nulla. Raoul Sperber davanti alla corte marziale tedesca, per salvare la vita dei suoi soldati e di coloro con i quali aveva cospirato per affermare l'italianità di Fiume, si addossò ogni responsabilità, asserendo che la sua era stata un'iniziativa personale, non esistevano complici ! Non c'era tempo per i tedeschi di perdersi in lungaggini, bisognava stroncare ogni velleità insurrezionale sul nascere e forse acquistarsi qualche ipotetico merito agli occhi dei Partigiani che gli stavano col fiato sul collo. Cosa poteva contare in quei momenti al vita di un italiano ? Raoul Sperber fu condannato alla fucilazione. Era rinchiuso nella Caserma Diaz. Occorreva un plotone d'esecuzione; i tedeschi avrebbero voluto che fossero gli italiani ad eseguire la sentenza ma non si trovò nessuno disposto a farlo. Forse a Fiume, in quei giorni, Giuda non c'era. Un plotone di riservisti della Marina Tedesca, ai quali era ignoto ogni dramma Fiumano eseguì la sentenza, era all'alba del 18 Aprile 1945 . Raoul, volevi difendere Fiume da chi ce la voleva portare via. Sognavi che la tua Città non doveva perdere la sua identità, che il tuo sacrificio non sarebbe stato vano. Raoul, non ti ho mai dimenticato, sei un Eroe Fiumano. Meriteresti almeno una medaglia alla Memoria ma agli Eroi dei vinti nessuno ha il coraggio di dargliela !

ALPINO DELLA JULIA : RAOUL SPERBER " PERESENTE ! "

Bruno Tardivelli (10.05.2007)


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Caro Furio,

Bruno Tardivelli mi ha fatto rivivere quegli ultimi giorni della nostra Fiume non ancora partigiana, quando io ingaggiato (obbligatoriamente) dalla Todt andavo a Giordani a fare i bunker: la parola "strangolin" me la ero dimenticata. E la biondina che lo teneva faceva bene a dire "Attento Bruno dove batti", perchè a me è capitato di aver dato un colpo sbagliato al bidello della "Emma Brentari" Stabellini, che mi teneva el strangolin.
Ho saputo da esule la fine di Raoul Sperber, probabilmente da ciò che scrisse Bruno Tardivelli sulla Voce di Fiume.
Non so se ebbi occasione di conoscerlo quando ero muletto della Fiumana Nuoto ai Bagni Quarnero, ma forse quel Sperber si chiamava Rodoflo.
Sul problema del piano del CLN di prendere possesso della città appena i tedeschi se ne fossero andati, posso testimoniare che ciò avvenne realmente.
Il giorno 3 Maggio 1945 ore 8,30 - subito dopo la ritirata dei tedeschi - 5 militari italiani erano in Via Roma: c'erano due mine anticarro in prossimità del Rifugio anti-aereo di Via Roma e a due a due i nostri militari vi facevano la guardia alle mine per impedire ai civili di andare nei guai. Un ufficiale dirigeva.
La gente - che in quei giorni dormiva nel rifugio - era tutta fuori, silenziosa ma felice per la fine dell'incubo tedesco.
I soldati avevano la divisa italiana con le stellette e le mostrine gialle della Finanza.
Verso le dieci vedemmo la prima colonna dei Partigiani di Tito giungere dalla Fiumara in fila per due. Appena giunti davanti al Rifugio - cioè superate la Porta di San Vito, le Prigioni, il Tribunale e la Tana dell' Amor - il nostro Ufficiale si recò loro incontro e portò la mano sulla visiera in segno di saluto. Seguì un brevissimo "colloquio" e vedemmo l'Ufficiale consegnare la pistola, i militari consegnare i fucili, e tutti e cinque furono introdotti nella Caserma dei Carabinieri visavi' del Rifugio. Che fine abbiano fatto è facile immaginare, ma sempre mi sono chiesto come fosse stato possibile - e da chi fosse partito l'ordine - di organizzare una così fragile difesa della città. Come quei 5 finanzieri, come gli 80 questurini, come gli Amministratori Autonomisti, così anche Raoul Sperber merita di essere ricordato da noi superstiti come un vero Eroe della nostra Fiume.

ciao rudi (11.05.2007)


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L' U L T I M O A T T O D E L L A G U E R R A
2 IL COMPLEANNO DELL' ADOLF !


Venne il 20 d'Aprile 1945, per i tedeschi era una grande ricorrenza, celebrata in altri tempi in modo solenne: si "doveva" festeggiare il Compleanno di Adolf Hitler ! La disfatta tedesca in quei giorni, ormai era evidente. Alla TODT lavorammo come al solito la mattina; al rancio, ci annunciarono il "lieto evento" e ci distribuirono in aggiunta alla solita brodaglia, una specie di purè dolciastro e attaccaticcio: era marmellata, non era mai successo e ci versarono nel gavettino una specie di grappa annacquata che sapeva di petrolio, ma tutti la bevvero lo stesso. Ci dissero di metterci in fila davanti al Comando e con nostra sorpresa ci pagarono la settimana, anche se non era Sabato; poi ci annunciarono che il pomeriggio non avremmo lavorato per festeggiare il Compleanno del Furer . Parecchi tedeschi erano già ubriachi; cantavano a gruppi in maniera inusitata forse più per disperazione che per allegria. La mattina dopo, a Cosala, salendo verso Santa Caterina notammo un inconsueto movimento di soldati dai tratti asiatici che facevano parte della Wermaht. Noi li chiamavamo i "mongoli" ma provenivano dal Kazakistan. Fatti prigionieri dai Tedeschi, durante la guerra, per non morire di stenti, avevano deciso di collaborare con loro. Erano stati impiegati dai tedeschi nella guerra balcanica. Essi sono descritti bene da Carlo Sgorlon nel suo libro: "L'Armata dei due fiumi", (l'Isonzo ed il Tagliamento, dove molti di loro erano stati stanziati). Si erano trasferiti qui dalle steppe dell' Unione Sovietica, con tutte le loro famiglie. "I Mongoli" faranno tutti una triste fine. Fatti prigionieri dagli anglo-americani verranno, a guerra finita, consegnati ai russi, che nel più benevolo dei casi li faranno morire di fame, facendoli marciare a piedi, verso la Russia. Avevano un'alternativa : il suicidio. Giunsi sul piazzale del Campo di lavoro, a Santa Caterina, e qualcuno ci disse di tornarcene a casa. Ci avrebbero richiamati un altro giorno. Era un modo elegante per dire che di noi non sapevano più che farsene, e avevano ragione ! C'era un gran trambusto in mezzo a loro, temevamo i "Mongoli", si diceva che fossero crudeli e feroci con coloro che cadevano nelle loro mani, si divertivano a farli urlare martirizzandoli. Non facevano prigionieri, li ammazzavano tutti e si mormoravano a proposito cose orrende. Ma, come si vedrà, i Partigiani Titini non furono da meno, e per giunta, anche a guerra finita ! Io e Pino Paradisi per fare più in fretta, dal luogo dove eravamo, scendemmo per una scorciatoia. Non volevamo fare il giro lungo di Cosala e passammo accanto al fabbricato del Poligono di Tiro, adibito a cucina e deposito, dove stazionavano sempre dei militari. Non c'era più nessuno in quel luogo, il cancello e le porte erano spalancate, gli ultimi occupanti lo avevano abbandonato in fretta. Pino mi propose di entrare a dare un'occhiata, chissà che non avessero dimenticato qualcosa di commestibile nella cucina ! C'era disordine; in cucina tracce di generi alimentari sparsi per terra e in un canto un gran sacco pieno di fette di patate seccate. Avevamo scoperto un tesoro! Ce ne colmammo le tasche, ma era poca cosa e il sacco troppo pesante per caricarcelo sulle spalle tutto intero. Ci voleva qualcosa da riempire per portare via un po' di quel bendiddio ! Ci aggirammo per uno stanzone pieno di brande e trovammo degli zaini militari, ne riempimmo due, ce li caricammo sulle spalle. Stavamo per uscire, quando sentimmo un trambusto e ci trovammo faccia a faccia con dei soldati mongoli. Noi restammo interdetti, spauriti e loro sorpresi. Ci bloccammo, istintivamente alzammo le braccia, più che altro per dimostrare che non eravamo né armati né ostili. Il loro aspetto era truce, con le barbe incolte, l'elmo calato sugli occhi, le tute mimetiche, appesi al collo avevano i nastri dei proiettili, le bombe a mano infilate per il manico, una per ogni stivale, in mano, pronta a sparare la "machinpistol", il mitra delle truppe speciali. Ce lo puntarono addosso chiedendoci chi c'era ancora dentro e alla nostra risposta, con le braccia alzate, che eravamo solo noi due, inermi, si rabbonirono; ci fecero cenno di andarcene via muovendo le canne delle loro armi. Salutando col braccio teso, augurando a loro il buon giorno e ringraziandoli fuggimmo come lepri col nostro zaino pieno, ballonzolante sulla schiena; non ne sentivamo nemmeno il peso. Pino diceva tremante :"Speremo che non i ne sbari drio ! " NO ! Non ci spararono dietro quei mongoli, ci lasciarono andare, A loro non interessavamo, forse avevano paura, come noi e ne avevano ben motivo ! Qualche Santo, ancora una volta ci aveva protetto. Fatte un paio di curve per la carrareccia che scendeva verso Valscurigne, riprendemmo il fiato, là in fondo ci divedemmo, io scesi per la scarpata del Potok ed in un balzo fui a casa, sano e salvo. Non mi aveva fermato nessuno per la strada, non avevo più incontrato anima viva. Era suonato l'ennesimo allarme ! Quando la Zia mi vide apparire con quello zaino colmo, gridò al miracolo; ma il vero miracolo fu che io e Pino, con i mongoli, l'avevamo scampata bella ! Il giorno dopo, al pomeriggio i tedeschi facevano saltare il porto ed altre installazioni, era il 21 Aprile 1945, il "Natale di Roma" celebrato in altri tempi con gran pompa dal Fascismo. La nostra Zia Francesca era spaventatissima e la condussi nel maleodorante rifugio dell'Ospedale, mi diceva che voleva morire ma intanto scappava in quell'antro; io non la capivo e la canzonavo per farla sorridere e darle il coraggio che mancava pure a me…………. Eravamo come sotto un interminabile temporale, senza riparo, tutto quello che scendeva dal cielo: bombe e macerie, invece di pioggia e grandine, dovevamo prendercelo addosso, con rassegnazione. Era inutile lamentarci, tanto non ci badava nessuno.

(continua) bruno tardivelli (12.05.2007)


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L'ULTIMO ATTO DELLA GUERRA

3 IL DISERTORE


Mio fratello Camillo aveva 17 anni, i tedeschi lo avevano preso e mandato a fare il militare nella FLAK, la contraerea tedesca.
Era scappato dalla caserma di Gradisca, dove lo addestravano, il giorno del Compleanno di Hitler, mentre tutti i tedeschi, loro istruttori e sorveglianti, si erano ubriacati, più per lo sconforto dell'imminente disfatta che per festeggiare chi era stato la causa della loro rovina.
Era giunto a Trieste col treno, certi suoi commilitoni triestini, gli avevano promesso di ospitarlo ed aiutarlo a proseguire il viaggio e invece, appena giunti, i suoi amici si erano dileguati tutti, come topi in fuga.
Si trovò solo e disorientato nell'atrio della stazione che era piena di gente spaurita: civili, soldati italiani, sbandati e disertori, come lui.
Imbruniva, visto che per raggiungere Fiume non esistevano mezzi, non trovò di meglio che pernottare nel posto meno adatto, il rifugio antiaereo della stazione, dove bivaccavano altri fuggiaschi. Ci doveva essere tra i tedeschi ormai una gran disorganizzazione, molti erano anche lì, tutti disperatamente ubriachi.
Gli alleati, con tutti i mezzi che avevano, in quei giorni avrebbero potuto porre fine alla guerra nei nostri luoghi con una dozzina di giorni d'anticipo, arrivare comodamente a Fiume e per noi tutto si sarebbe risolto in altro modo, ma a loro interessava non scontrarsi con Tito, gli italiani non contavano nulla, erano i nemici.
Non passarono ronde tedesche nella notte, tutti "i gnochi" dovevano smaltire l'ultima sbornia della guerra perduta e il "Nostro Ragazzo" aveva certo un Angelo Protettore, era un disertore, lo avrebbero potuto mettere al muro.
Mancavano 60 kilometri per giungere a Fiume, doveva attraversare il Carso, che pullulava di Partigiani Jugoslavi; non era giunto nemmeno a metà del percorso. Il giorno dopo, trovò un camion di soldati tedeschi accanto alla Stazione, dovevano andare a Villa del Nevoso (Ilijrska Biastrica), disse che pure lui andava da quelle parti e lo presero con loro. Si vedeva lontano un miglio che era un italiano che scappava. La propaganda dei vincitori vuol far passare ancora oggi tutti i soldati della Wermaht per sanguinari mascalzoni. E' il peggior insulto che possano fare al popolo della Germania. Le canaglie vivono in ogni luogo della Terra, come gli onesti; non hanno una bandiera particolare. Mi raccontò Camillo che lungo la strada, la maggior preoccupazione de suoi compagni di viaggio, i quali andavano a ficcarsi tra le zanne dei lupi, non erano i Partigiani bensì gli aerei alleati, padroni assoluti del cielo che scorazzavano dappertutto per braccare il nemico in fuga. Essi potevano spuntare ogni momento per mitragliarli. I soldati erano tutti con lo sguardo sempre rivolto in alto per avvistare in tempo l'aereo e invitavano anche lui a stare all'erta mormorandogli : "Luki, luki, fluge ! - Occhio, occhio all'aeroplano !" Se fosse comparso "Pippo", il temuto "caccia", sarebbero saltati giù dal camion immediatamente per nascondersi appena oltre il ciglio della strada, rotolando sul terreno. Arrivarono a Castelnuovo,(Podgrad), in mezzo al Carso sloveno, senza brutte sorprese. Lì Camillo dovette scendere, i soldati tedeschi lo lasciarono solo soletto, a piedi, fuori dal paese che sembrava deserto, sulla strada per Fiume e loro girarono a sinistra, diretti a Villa del Nevoso. Tra Castelnuovo e il bivio di Rupa ci sono 14 kilometri, è la zona ondulata e solitaria di Pasjak, tutti radure, pietraie, doline.

Camillo racconta che la percorse a piedi.
E'sicuro, e in tale caso, di buon passo, deve aver impiegato un po' meno di 4 ore.
La strada era deserta.
Camminava al centro della carreggiata, per dimostrare agli eventuali malintenzionati osservatori che era solo, disarmato, inoffensivo, alla loro mercè. Se si fosse comportato diversamente, cercando di dissimularsi, sarebbe stato peggio per lui, non sarebbe rimasto vivo.
Incontrò una squadra di soldati tedeschi, armati fino ai denti. Camminavano curvi e guardinghi, sui cigli della strada, con lunghi nastri di proiettili appesi attorno al collo, bombe a mano di quelle tremende, col manico, infilate alla cintura, e lui, disarmato, inerme, al centro della carreggiata, con passo agile e franco, tenendo le mani vuote, ben in vista, li salutava assicurandoli che non aveva incontrato per la strada anima viva e andassero dunque avanti tranquilli, quei "Kamaraden" così diffidenti, non era il caso che avessero tanta fifa!
In quella guerra con i Partigiani non si facevano prigionieri, erano un grande impiccio.
Sul suo cammino verso Fiume incrociò poi altri gruppi di armati al sevizio dei Tedeschi. Erano Serbi e Croati, ustascia, domobranci, cetnici, collaborazionisti, che cercavano scampo, sotto l'incalzare dell'avanzata dei Partigiani di Tito, nella speranza di raggiungere gli Americani, prima che fosse loro tagliata la strada della salvezza, verso Ovest; provenivano probabilmente dall'Istria.
I Serbi, detti "Cetnici", Anticomunisti, agli inizi erano stati appoggiati e foraggiati dagli Inglesi, in funzione Antitedesca. Erano stati Monarchici, portavano barbe e capelli lunghi che avevano giurato di non tagliare fin quando il loro Re di Yugoslavia, fuggito a Londra nel 1941, non fosse ritornato sul trono. Mollati dagli inglesi, quando i Comunisti apparvero vincenti, furono adottati dai Tedeschi, che li usarono a loro piacimento.
Incalzava su tutti soltanto una gran fretta di allontanarsi dal Carso, una terra che gli scottava sotto i piedi, per sottrarsi alla vendetta dei Partigiani.
A guerra finita faranno una brutta fine: gli Alleati li riconsegneranno a Tito che li sterminerà tutti in modo atroce.
Camillo mio, incosciente ragazzo, nella divisa tedesca della FLAK tu percorrevi la stessa strada di quei pericolosi fuggiaschi armati fino ai denti, ma in senso opposto. La tua meta era la tua casa, altro non capivi, se no saresti morto di paura; te ne saresti andato non so dove, piuttosto che avventurarti verso Fiume.
Incontravi quei ceffi agguerriti, accennavi loro un saluto benevolo, quelli ti ricambiavano nel'usuale forma del loro idioma:
"Zdravo !" (Salute)
e tu di rimando, per camuffare la tua origine:
"Zdravo !"
Poi via, proseguivate dritti, senza girarvi, ognuno per la vostra strada e per l' ignoto destino. Da Rupa al bivio di Preluka, dopo Mattuglie, ci sono una quindicina di kilometri e il Fortunello trovò un altro camion tedesco, gli diedero un passaggio che gli alleviò il suo andare verso casa; eppure che fosse un disertore fuggiasco ce l'aveva scritto in faccia !
Ormai era arrivato in riva al Quarnero, da lì la vista spazia su tutto il Golfo, Fiume era a 4 kilometri, una bazzecola !
Camillo arrivò a Cantrida, la periferia orientale della città e sentì violente esplosioni, ma imperterrito proseguì per la sua strada.
Giunse all'altezza del Cantiere Navale.
I tedeschi facevano saltare in aria le sue installazioni.
Grossi blocchi di pietra e ferraglie piovevano da ogni parte, lui cercava un riparo e poi, tra un'esplosione e l'altra, faceva un'altra corsetta, Così, un po' affannato, mi si presentò davanti, all'ingresso del nostro rifugio, col suo berretto "col frontin" messo di sghimbescio, come tutti i muli "in gamba", con l'aria strafottente e disinvolta e senza paura; anche se un po', almeno lungo la strada, doveva averla avuta.

(continua) Bruno Tardivelli (16.05.2007)


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L'ULTIMO ATTO DELLA GUERRA

4 IL SOLDATO MONGOLO


Era l'ultima decade dell'Aprile 1945, la Guerra infame era agli sgoccioli.
I tedeschi facevano saltare in aria le più importanti installazioni di Fiume: il Porto, il Piazzale Ferroviario, gli stabilimenti industriali.
Grossi blocchi di pietra e ferraglie piovevano da ogni parte, era pericoloso aggirarsi per le strade, i muri delle nostre case vibravano ad ogni esplosione, come se ci fosse un incessante terremoto. In quei giorni corse voce che I tedeschi stavano erigendo per le strade della città delle barricate e cercavano tra i civili che stavano nei rifugi, mano d'opera.
Qualcuno affermava che avevano deciso di vendere cara la pelle e avrebbero combattuto casa per casa, come a Varsavia.
Eravamo convinti che la nostra vita non contasse più nulla ed era inutile pensarci. Noi giovani temevamo che ci obbligassero a fare i loro serventi in caso di combattimenti per le strade e di soppiatto ce ne andammo dal rifugio per nasconderci in casa dove era meno probabile che ci venissero a cercare. Qualcuno raccontò che bruciava anche la caserma della "Polizei" sistemata nella Scuola Brentari, in centro, vicino all'Hotel Bonavia. Si diceva che i Partigiani prendevano d'assalto Tersatto ed erano arrivati alla periferia orientale di Susak. Una minuziosa descrizione di quegli avvenimenti l'hanno fatta il Tenente degli Alpini Franco Geja, che comandava la una batteria a Tersatto, Nereo Dubini, lo storico Lino Poli, Antonio Luksich del Comitato di Liberazione Italiano (non Comunista) incarcerato dai Titini a guerra finita, Enrico Burich. I brani dei loro diari sono riportati per esteso da Mario Dassovich nel suo pregevole libro "Guerriglia e Guerra sui due versanti del Monte Nevoso - 1943 -1945 " da pag 260 pag 288 - Del Bianco Editore, Udine. Atra gente, seguendo il nostro esempio, alla spicciolata aveva lasciato l'orrendo rifugio dell'Ospedale per tornarsene a casa; ritenevamo che bombardamenti aerei non ce ne sarebbero più stati, ormai a distruggere Fiume ci pensavano i tedeschi e poi, con rassegnazione avevamo preso più familiarità con l'idea della morte. I miei fratelli mi proposero di nasconderci nel sottotetto, ma io non ne avevo voglia, mi sembrava un disagio inutile. Nessuno stava più nel suo appartamento, eravamo tutti radunati nell'ampio atrio in fondo alla tromba delle scale, nella nostra casa dei Ferrovieri, accanto alla Stazione, con le spalle appoggiate al muro, ci guardavamo in faccia l'un l'altro, smarriti; i sentivano boati dappertutto. Stando tutti assieme ci sembrava di essere più sicuri. Erano entrati in azione i Guastatori, rendevano inservibile il piazzale ferroviario, mettendo l'esplosivo sotto gli scambi dei binari. Era un'azione cattiva e sciocca che non serviva a nulla, solo a recare altro danno. Era l'imbrunire, quando all'improvviso entrò, dando un calcio alla porticina d'accesso al cortile adiacente alla ferrovia, un guastatore tedesco, era "un mongolo". Li avevamo soprannominati così, erano di origine asiatica, ex soldati dell'Armata Rossa che, presi prigionieri, avevano deciso, piuttosto che morire di stenti, di collaborare con i tedeschi. Aveva l'aspetto sconvolto, sudato, ansimante, con le bombe a mano appese alla cintola, il fucile a tracolla; nel vederci restò sorpreso, credeva di certo che li non ci fosse nessuno, invece c'erano donne, bambini che frignavano qualche anziano seduto per terra, certe vecchie spaurite che recitavano il Rosario, io e i miei fratelli e altri ragazzi, qualche ferroviere.
Fissavamo il militare spauriti.
Ebbi l'impressione che il soldato, dall'aspetto poco rassicurante, con l'elmo calato sugli occhi, fosse stralunato e sorpreso. Il mongolo, di fronte a quell'umanità inerme, misera, spaurita, ebbe un moto di turbamento, quasi d'imbarazzo. Si fermò di botto, rimase interdetto, eravamo in tanti intorno a lui, piuttosto malmessi e macilenti ma quello che m'impressionò in quegli attimi, fu il tremendo silenzio che improvvisamente calò sull'assembramento sbigottito, mentre all'esterno, distanti, continuavano le detonazioni. Io guardavo attonito il soldato, un giovane robusto, polveroso, stanco, con lo sguardo lucido, alluncinato, aggressivo, pronto a reagire ad ogni nostra mossa che poteva significare avversione per lui. Eravamo impietriti dalla paura. Mi sembrava un animale feroce, braccato che s'interroga sul modo di comportarsi, sicuro della sua superiorità ma indeciso sul da farsi. Furono attimi terribili. Il "mongolo" repentinamente si tolse il fucile da tracolla e lo teneva tra le mani, pronto ad usarlo. Nel silenzio si sentì allora flebile, la voce mite di una donna con un bimbo accanto, che diceva : " Vuoi bere ? " Nel dire tali parole lei gli porgeva un bicchiere e gl'indicava il secchio dell'acqua che aveva appresso. Il bambino piangeva. Lui si voltò di scatto verso di lei, stupito. Furono delle parole magiche: lo sguardo aggressivo e terribile scomparve dagli occhi del soldato, era esterrefatto da quel gesto di carità. La donna continuava ad indicargli il secchio dell'acqua Uno più povero di lui, gli offriva da dissetarsi. Improvvisamente, come per farci intendere forse, il suo improvviso rimorso che lo turbava, la paura della morte che aveva pure lui addosso, prese il suo fucile, lo alzò con tutte e due le mani e lo scagliò per terra con fracasso. "Prokljati nijemzi !" urlò in una lingua che assomigliava al croato. (maledetti tedeschi) e sputò per terra. Nel silenzio del luogo si percepiva l'angoscia che attanagliava tutti in quel momento, mentre fuori, inquietanti, continuavano le detonazioni. "Buono, buono, noi siamo italiani !" proferì timido qualcuno, mentre la donna continuava, con un mezzo sorriso ad offrirgli l'acqua. La faccia gli si illuminò, ci credeva nemici, pieni di odio verso chi ci demoliva ogni cosa ed invece trovava dei poveracci coinvolti come lui in avvenimenti spaventosi che nessuno avrebbe voluto vedere, che su tutti si erano abbattuti come il turbine.
Si rassicurò, non era giunto all'improvviso tra gente ostile !
" Taliani ?
Ah, taliani dobri… (italiani buoni)…..!" farfugliava, mentre la donna continuava, rassicurante, a porgergli il bicchiere.
" Su,….bevi, …avrai sete ragazzo,… bevi……"
Il Mongolo si dissetò, mormorando nella sua lingua incomprensibile parole bendisposte; poi raccolse da terra il suo fucile, che poco prima aveva scagliato via da sé con ira, estrasse dalla giubba e depose per terra, accanto al secchio dal quale si era dissetato, un pacchetto già aperto di sigarette. Indietreggiò e, voltandosi un'ultima volta per fare un cenno col capo, scomparve per la porticina dalla quale era entrato. Poco dopo si sentì nei pressi, tragica, la solita detonazione.
Il "Mongolo" aveva ripreso il suo "sporco dovere".

(continua) Bruno Tardivelli (20.05.2007)


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L' ULTIMO ATTO DELLA GUERRA

5 LA FINE DEL SIGNOR PREVEDEL


Aprile del 1945 volgeva al termine.
Un pomeriggio di sole, la gente non sapeva più dove trovare riparo, la paura era sul volto di tutti. Eravamo come animali tallonati dai cacciatori, non era più vita quella, ogni orario era sconvolto. Intimorita dagli scoppi la mia Zia, che ci faceva da madre, spaurita più che mai, aveva voluto ritornare nell'orrida galleria del rifugio, dietro l'Ospedale. Ero andato a casa di mala voglia a prenderle uno scialle perché aveva freddo e stavo tornando. Da qualche parte il solito aereo assassino ronzava lontano, ma non ci feci caso. Era quel maledetto "Pippo" inglese che non aveva pace fino a quando non avrebbe accoppato ancora qualcuno di noi. Giunto presso il cancello d'ingresso dell'Ospedale, all'improvviso sentii rombare forte l' aereo; era sopra di me. Mi misi a correre su per la china; una ventina di metri davanti a me, saliva ansando nella stessa direzione un ferroviere che conoscevo, un tipo spassoso e ridanciano. Si era voltato per gridarmi. "Ocio, Bruno, corri !" L'aereo volava bassissimo, il suo rombo era lacerante; lo udii dietro dime, mi gettai oltre alla siepe, per terra nell'istante in cui mi assordò il crepitio della mitraglia e un'esplosione. Sentii cadermi addosso il terriccio, sassi, frammenti, mente il rombo s'allontanava. Non ebbi il coraggio di muovermi, attesi frastornato che quello ritornasse ancora, ma non comparve più, era andato da un'altra parte, magari alla malora, in cerca di altre prede ! Mi sollevai da terra con le gambe che mi tremavano, con l'affanno per lo spavento e ripresi a correre. Poco più su, a non molti metri da dov'ero, sull'asfalto vidi uno squarcio e tutt'intorno delle macchie rosse : erano di sangue e brandelli di carne, più in là un berretto da ferroviere, una gamba, la giacca nera lacerata e insanguinata di quel poveretto che correva davanti a me. Giunsi all'imbocco del rifugio, ero sconvolto, fuori non c'era naturalmente nessuno; appena dentro, vidi alla luce fioca facce smunte e spaurite, scoppiai a piangere ed affannato tra i singhiozzi ebbi la forza di dire : " La bomba del Pippo, davanti a mi, ga copà el Signor Prevedel !"

(continua) Bruno Tardivelli (21.05.2007)


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L'ULTIMO ATTO DELLA GUERRA

6 VENGA CHI VUOLE, MA CHE FINISCA !


Il coprifuoco durava tutto il giorno, era permesso uscire per le strade un'ora al mattino e un'ora al pomeriggio, ma per trovare che cosa ?
Avanzi di magazzini, e di grazia che c'erano !
In quei giorni ai dipendenti pubblici l'amministrazione italiana corrispose quattro mesi di stipendio, fino ad Agosto; gli insegnanti erano pagati nella sede dell'Asilo Nido, all'inizio di Via Trieste, sulla destra, dov'era sistemata la sede del Provveditore agli studi: il prof Gerini, un buon uomo, mite e gentile. Nello sfacelo molti responsabili italiani avrebbero potuto approfittare del caos, dell'assenza di ogni superiore autorità, della sorveglianza, dell'indifferenza dei tedeschi per la nostra sorte e fuggire in Italia con la valigia degli stipendi.
L'ho pensato tante volte, ma non accadde nulla di simile, tutti i fiumani, per quanto potessero essere colpevoli a causa delle loro idee collaborazioniste o fasciste, non si macchiarono di ruberie a danno dei loro connazionali sfortunati.
Certi scapparono ?
Si, scapparono, ma con la loro roba.
Io avevo diritto allo stipendio perché avevo avuto l'incarico di supplente annuale, anche se avevo insegnato per poco più di tre mesi e poi ero stato mobilitato nella TODT La Zia non volle che io uscissi di casa, temeva che qualche ronda mi fermasse e mi portasse via. Le scrissi una delega e andò lei al Provveditorato. Arrivò a casa tutta felice con un malloppo di soldi che non avevamo mai visto da quando era morto papà, portandomi i saluti del mio direttore. Mi raccontò che per la strada aveva incontrato il Senatore Gigante; indossava una "flaida" (cappa) bianca e assieme a due crocerossine trascinava un carretto a mano sul quale c'erano dei recipienti col cibo per i lattanti ricoverati nell'Asilo Nido e per le loro mamme. Riccardo Gigante, assieme al dott. Blasich, paralitico, all'ing, Skull, proprietario delle omonime officine con fonderia e ad altri notabili fiumani, saranno le prime vittime degli "Jugoliberatori". Numerosi altri li seguiranno nello stesso martirio.
Erano stati "fascisti" ?
Certi si e certi no !
Si erano coperti di crimini ?
Le regole della Democrazia, se veramente tale, esigevano un regolare processo.
Se i vincitori, che volevano insegnarci la democrazia, usarono gli stessi brutali metodi dei vinti : le esecuzioni sommarie, allora avevano ben poco da insegnarci e noi eravamo caduti dalla padella nella brace. I tedeschi all'ultimo ci avevano dato un'assegnazione straordinaria di cibo, farina, dei legumi secchi, forse ancora del riso. Si trovavano in giro certi dadini per fare il "brodo finto", si chiamavano "Maggi" erano di colore marrone, salatissimi. Un giorno, nelle loro memorie Antonio Luksich (CLN Italiano) e Nereo Dubini affermano che era il 21 Aprile 1945, mentre ancora si stavano costruendo le barricate anche davanti la Stazione ferroviaria, sembrò che i tedeschi se ne stessero andando verso Mattuglie, ad una decina di km da Fiume. Si sciolsero allora i reparti della Milizia Fascista . Qualcuno asseriva che i Partigiani avevano oltrepassato l'Eneo, in fondo allo Scoglietto, dove c'era la centrale elettrica e quella dell'acquedotto, altri riferivano che erano ritornati indietro dopo esservi apparsi. In un susseguirsi di notizie sconcertanti, la situazione era diventata caotica. Gli Autonomisti Italiani invitavano i Carabinieri e la Guardia di Finanza a tenersi pronti per prendere in mano la situazione, forse sperando ancora nell''arrivo di qualche "Commando" Alleato. Gli Jugoslavi erano oltre l'Eneo, non si fidavano oltrepassarlo temendo la reazione dei tedeschi, ridotti ormai ad uno sparuto numero. In città gente armata aveva sparato contro i tedeschi che avevano appiccato il fuoco ad un deposito di viveri. Vicino alla prigione e al Comando delle SS, dietro la Cattedrale di San Vito, morirono alcuni cittadini, falciati dalla reazione tedesca. Cittadini autorevoli e responsabili ritennero che una sommossa popolare avrebbe solo facilitato l'ingresso in città degli Jugoslavi e ordinarono di non rendere maggiormente difficoltosa la presenza dei tedeschi, che avrebbero reagito, causando altre vittime tra la popolazione; sembrò loro che conveniva ancora aspettare. Anche i tedeschi speravano di consegnarsi agli Alleati. Era l'attesa di un miracolo che non avvenne. Tra il Generale inglese Alexander, Comandante delle operazioni sul Fronte Italiano e Tito, legati da simpatia, c'era un tacito accordo: gli Jugoslavi si sarebbero presi la Venezia Giulia, in barba agli ordini del Comando Supremo, di Truman e Churchill, e agli accordi stipulati tra Tito e gli Alleati a Bolsena, ne fa cenno lo storico Arrigo Petacco nel Libro "L'Esodo" a pag 109 . In tal modo Tito potè vantarsi : "Ho messo nel sacco quella vecchia volpe di Churchill !" In fin dei conti la partita si giocava sulla pelle dei comuni nemici: gli Italiani; la "Resistenza " Italiana nella Venezia Giulia non era presa in considerazione. Iniziò cosi, pochi giorni dopo, a Guerra conclusa, la mattanza dei vinti ormai arresi e disarmati ! Gli Jugoslavi che speravano i'insurrezione popolare antitedesca a Fiume furono delusi, ben pochi li desideravano. Eravamo ormai alla disperazione, senza luce, senz'acqua corrente, con pochissimo cibo, noi tre fratelli vivevamo nascosti,. Ci eravamo preparati anche un nascondiglio nel sottotetto per non farci prendere. A chi osservava che stare sotto le tegole era un posto pericoloso per le bombe d'aereo, rispondevamo che era un luogo dove i tedeschi non ci avrebbero certamente cercato. Ero pervaso da una tale sfiducia che non m'importava vivere, avevo paura di rimanere invalido. Tra me pensavo "Venga chi vuole, ma finisca questo martirio ! " Ripensando a quei giorni mi accorgo che avevamo tutti un comportamento anomalo, irresponsabile, sfidavamo il pericolo mortale con disinvoltura ed allo stesso tempo temevamo tutto; la prudenza non esisteva, eravamo come animali braccati e spaventati, senza autocontrollo, senza rispetto, senza disciplina. Anche i tedeschi reagivano con brutalità, atterriti dell'imminente fine, uccidevano per qualsiasi inezia, senza motivo, per il timore di essere sopraffatti ed uccisi a loro volta. Gli aerei alleati continuavano a sganciare bombe nei luoghi dove i tedeschi erano concentrati per resistere : a Cosala, a Santa Caterina, nei pressi dell'Eneo, sul porto nel quale esplodevano cariche da mille kili, interrate dai tedeschi per demolire le banchine, i moli. Da oltre il confine arrivava il cannoneggiamento Jugoslavo. Tutti facevano a gara per distruggere la nostra povera Città ! Non ricordo che ci fossero per Fiume come altrove per l' Italia, bande fasciste che commettevano barbarie, né ho letto cronache che ne facessero menzione. Va tutto ad onore dei fiumani di lingua e cultura italiana, che pur nella diversità delle loro idee, non si accopparono a vicenda e per la maggior parte, nei momenti più tragici, furono solidali e tolleranti fra loro, facendo spesso finta di non vedere. La notte del Primo Maggio comparvero alle falde del Monte Maggiore grandi roghi accesi dai Partigiani per segnalare ai fiumani che non avevano più scampo, stavano arrivando loro ! I "Liberatori " ? ?

Continua Bruno Tardivelli (22.05.2007)


***


L'ULTIMO ATTO DELA GUERRA

7 BASTA !

E' FINITA ! (magari !)


Il 2 Maggio, in un momento che era stata erogata la corrente elettrica chi aveva la radio apprese che Hitler si era suicidato.
Era l'unica cosa che poteva ancora fare, era ora !
I Russi avevano preso Berlino. Udine era stata liberata, Gorizia e Trieste erano state prese dai Partigiani Jugoslavi e la mattanza degli Italiani sarebbe cominciata.
A Fiume i tedeschi c'erano ancora, in forze e gli Jugoslavi se ne stavano dall'altra parte a tirarci cannonate.
Dalla finestra socchiusa della camera da letto che dà sul Viale e dalla quale s'intravedeva la barricata costruita sull'angolo di Via Littorio, tra la gelateria del Calchera e la Stazione Ferroviaria, noi davamo un'occhiata per vedere, nascosti, quello che stava succedendo.
Camillo si stancò di occhieggiare dalla finestra :
" Mi me son stufà, non vedo niente de novo, non lavora più nisun, par che tuti xe andadi via, anche i gnochi.
Bruno cuca (controlla ) ti se ti ga voja! "
La Zia poveretta si lamentava, aveva il languore di stomaco, più che acqua tiepida non le potevo dare, aveva la nausea.
Sentii provenire dalla strada un lieve tramestio, dei soldati vecchiotti, in fila per uno, con lo zaino affardellato sulle spalle, armati e bardati di bombe a mano si muovevano silenziosamente verso ponente, altri seguivano un carretto con delle cassette di munizioni, trainato da un ronzino. Uno di loro, seduto sulla panchina sotto casa nostra, aveva buttato rapidamente fuori dallo zaino della roba come per alleggerirsi di un peso.
Con passo svelto raggiunse gli altri che non si erano fermati ad aspettarlo. La fila indiana dei soldati continuava, più o meno rada, in un silenzio inusuale. Mi venne un sospetto: quei tedeschi, alla chetichella, se ne stavano mica andando ?
" Camillo, vien veder, guarda, i tedeschi taja la corda ! "
Sussurrai sottovoce, concitato, girandomi verso di lui.
" Orca, ti ga ragion, sti qua i ne lassa ! "
Venne allora a "cucar " anche la Zia, e tutti e tre, spingendoci un po' tra noi per vedere meglio, stavamo ad osservare, non visti, la scena.
Era il tardo pomeriggio del 2 Maggio 1945.
Imbruniva.
Andammo dall'altra parte, sul ballatoio che dà sulla ferrovia ed osservammo che anche i nostri vicini avevano notato che la situazione stava cambiando rapidamente. I primi ad accorgersene erano stati i ferrovieri italiani che avevano visto sparire dagli uffici i loro controllori tedeschi e le SS che vigilavano nella Stazione; si erano dunque dileguati, zitti, zitti. Le esplosioni erano cessate, dei guastatori non c'era nemmeno l'ombra.
Ma, dunque se ne sono andati tutti ?
E ora cosa poteva succedere?
Alcune persone stavano attraversando alla svelta i binari.
Si sparse in un baleno la voce che andavano verso un magazzino dal Porto Franco, lì oltre la ferrovia, perché era pieno di viveri.
Nessuno pensò in quel momento che i tedeschi alcuni giorni prima, avevano ammazzato per la Città parecchie persone che si erano permesse di saccheggiare i loro magazzini; così anche io e Camillo, saltando in mezzo alle buche e ai binari divelti dalle esplosioni, seguimmo la torma degli incoscienti. Fuori dal magazzino, appoggiato al muro, con nostra somma sorpresa scorgemmo un soldato tedesco; appena ci vide da lontano si mise in agitazione.
Ma come ?
Non dicevano che erano tutti andati via ?
Cosa ci stava a fare lì quello ?
Era un "mongolo"; in tedesco e nella sua lingua incomprensibile a tutti, vociava.
Il soldaro agitava il fucile, con tutte e due le mani per farci intendere di tornare sui nostri passi, di andarcene.
Ci fermammo quasi di botto, tutti insieme, in gruppo, ad una trentina di metri da lui, timorosi. Alcune ragazze, mostrandogli le palme delle mani, gli facevano le moine: non era il caso che avesse paura ! Una sapeva un po' di tedesco imparato a scuola e gli dava da intendere che eravamo in cerca di cibo; davvero era così cattivo da non darle qualcosa ? Cercavano d'intenerirlo e intanto muovevano qualche passo verso di lui; noi, dietro a loro noi facevamo altrettanto, mettendo ben in vista le mani per dimostrare che non eravamo armati. Eravamo dei temerari; in quei momenti così tragici rischiavamo la nostra vita, piuttosto di pazientare ancora un po' tenendoci la fame. Tutto quello che ci succedeva attorno sapeva di pazzia, una follia contagiosa e collettiva che ci faceva perdere il senso della misura, della prudenza, del valore della nostra giovane vita. Il soldato doveva essere solo, aveva paura, come noi. In un primo momento accettò il dialogo con le tre ragazze cercando di convincerle a desistere dalle loro richieste, non poteva accontentarle; poi visto che pure il gruppo degli uomini avanzava dietro a loro, s'allarmò e riprese a gridare nella sua lingua e poi in tedesco:
"Morgen…………
"Morgen, Morgen mangiare,…… morgen, domani, morgen……. Raus, Raus, Via ! Morgen !"
Così dicendo sparò un colpo in aria col suo fucile e poi lo puntò verso di noi…………
Al vederlo usare l'arma voltammo le spalle e fuggimmo, simili a pecore impaurite, saltando come ranocchi, in mezzo al terreno accidentato e sconvolto, temendo di sentirci sparare dietro le spalle. Per fortuna il "mongolo" non aveva più voglia di ammazzare. Altri tedeschi non c'erano li attorno, avrebbero potuto abbatterci come la selvaggina in fuga, divertendosi al tiro a segno, come in quei giorni era già successo. Tornammo a casa col buio, l'ora del coprifuoco era già scaduta da un pezzo, eravamo stanchi, provati, emozionati, abbrutiti, senza un minimo di dignità. Il "mongolo" ci aveva assicurato che l'indomani, avremmo trovato roba da mangiare lì, nel magazzino. Se non ci aveva raccontato una frottola, stava certamente per succedere qualcosa di straordinario. L'indomani sarebbe stato il 3 Maggio 1945. Ci coricammo; io, Aldo appena tornato a casa dal suo nascondiglio e Camillo. Sfiniti e affamati ci addormentammo come ghiri. Quella la notte fu tranquilla, nessun rumore ci svegliò.

FINE Bruno Tardivelli (22.05.2007)