Ricordi e riflessioni

di Umberto Usmiani


A Bolzano, quando avevo 4 o 5 anni, ogni sera mio papà veniva vicino al mio lettino per darmi la buona notte. Ricordo ancora l’odore del metallo delle sue spalline e il ruvido tessuto della diagonale. Ho poi saputo che molti miei amici, a quell’età, chiedevano al proprio padre di parlare di calcio o di eroi dei fumetti. Io invece gli chiedevo di raccontarmi le storie della sua giovinezza, quando era studente a Pola, frequentava il Carducci, aveva come professore il padre di Alida Valli, andava alla domenica in Siana oppure a Stoia. E mentre lui parlava davanti ai miei occhi passavano la Via Sergia, Veruda, Promontore, i suoi compagni di scuola, Lisetta, la cavalla di mio nonno, Hansele, il coniglietto nero di mio papà.

Ricordo ancora la prima volta che andammo a Pola e ad Arbe. Avevo 12 anni e lo avevo chiesto con tanta insistenza che mio papà, allora Generale dell’Esercito, finse di perdere il suo passaporto e se ne fece fare un altro con scritto “impiegato statale”. E così potè ottenere il visto per sè e mi portò a vedere i posti di cui parlava da tanto tempo. Gli sono ancora infinitamente grato, 40 anni dopo, del rischio che corse per me e del senso iniziatico che diede a quel viaggio che nella mia memoria rimane quasi magico.

La mia vita, come quella del mio papà, è passata nella certezza di essere di sangue diverso, di tradizione lingua e cultura diverse da quella di coloro che mi circondavano. Non migliori o peggiori, semplicemente diverse. Certo vengo da una famiglia “conservativa”. Ho uno scatolone di lettere di mio bisnonno, conservo come un tesoro tutta la corrispondenza scritta da mio nonno quando era nel 93 K.u.k. Infanterie Regiment, ho appese al muro vicino al mio computer le foto di 4 generazioni della mia famiglia. Ecco forse perchè per me continuare ad essere Dalmato è stato naturale, normale e non so immaginare che avrei potuto essere null’altro.

Ho “convertito” a questa mia passione (una passione che spesso mi arde ancora dentro come una fiamma inestinguibile) le persone che mi hanno accompagnato nella mia vita. Ho portato le mie ragazze in Dalmazia e la mia prima moglie in un gommone da 3 metri e sessanta in un meraviglioso viaggio da Fiume a Zara. Sempre con lei sono sopravvissuto all’incendio del mio piccolo cabinato a vela a qualche miglio fuori Traù. Quando la sento, me lo rinfaccia ancora.

Ho percorso la Dalmazia baia per baia, molich per molich alla ricerca di ciò che già sapevo e che ritrovavo nelle pietre, negli arbusti e nei campanili.

La famiglia della mia seconda moglie è serba e viene da Srebrenica e lei ha una serie di ricordi così tremendi che ciò che di orribile so del passato della mia famiglia quasi scompare e diviene leggero in confronto al peso che lei si porta dietro e che ancora, quando se ne parla, la fa piangere senza consolazione. Lei mi ha insegnato che l’odio, la morte, la fuga, le carovane di profughi, gli anni passati nelle aule delle scuole dormendo sui pagliericci non sono discusso “privilegio” della nostra gente ma fanno in qualche modo parte dell’anima cupa dei Balcani a cui anche noi Dalmati venetofoni, sebbene di sangue non slavo, abbiamo dovuto sottostare.

Da lei ho avuto una bambina, luce dei miei occhi, a cui mi toccherà spiegare un giorno che papà e mamma vengono da lontano ma ricordano con amore le terre perdute che furono dei propri antenati, perchè queste terre sono la voce dei loro genitori, la memoria dei loro nonni, l’origine del loro sangue.

Sono sicuro che capirà.