UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI UDINE

FACOLTA’ DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE

CORSO DI LAUREA IN RELAZIONI PUBBLICHE

 

 

 

 

 

 

 


TESI DI LAUREA

 

LA QUESTIONE GIULIANO-DALMATA:

STORIOGRAFIA, OPINIONE PUBBLICA E MEMORIA

DI UN PASSATO ANCORA PRESENTE

 

 

 

 

 

 

 

 

Relatore                                                                                                      Laureando

Ch. mo prof. Fulvio Salimbeni                                                                           Marco Piccoli

 

 


Anno accademico 2004 - 2005

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L'uscire d'un paese che abitavasi,
o avevasi diritto di abitare;
uscirne senza poterne o volerne ritornarci mai,
o per alcun tempo indeterminato.
Esilio è per lo più la Condanna,
ma può essere volontario,
per evitare male morale
e civile maggiore.

Nicolò Tommaseo
(Sebenico 1802 - Firenze 1874)

Dizionario della lingua italiana

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questo lavoro, per quanto modesto sia, non avrebbe mai potuto essere realizzato senza l’appoggio, la collaborazione e il sostegno costante di Laura Crotti e Gilberto Piccoli.

Ci sono poi altre persone che hanno contribuito in varia misura al raggiungimento di questo obiettivo, e le vorrei ricordare:i miei fratelli Davide e Pietro, i miei “vecchi” materni e paterni, Enrico, Simone, Lorenzo, Emiliano, Marco, compagni e compagne di università, tutti gli amici di Gorizia, e i docenti Todd, Londero, Lahey, Pocecco, Sacco e Ricci per aver stimolato il mio entusiasmo accademico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questa esperienza è dedicata a tutti quelli che non smetteranno di credere nella propria leggenda personale

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INDICE

 

PREFAZIONE                                                                                                        p. 9

 

Capitolo 1

LA DIFFICILE COLLOCAZIONE DELLA QUESTIONE GIULIANO-DALMATA

 

1.1 Premessa                                                                                                         p. 13

1.2 Le origini della civiltà giuliano-dalmata                                                         p. 15

1.3 L’area giuliano-dalmata verso la crisi                                                           p. 17

1.4 L’area giuliano-dalmata durante l’epoca fascista                                        p. 24

 

Capitolo 2

LA FASE CALDA: CADUTA DEL FASCISMO E FINE DELLA GUERRA

 

2.1 Il prologo della tragedia                                                                                  p. 35

2.2 Le uccisioni del ’43                                                                                         p. 37

2.3 La parentesi nazista                                                                                        p. 42

2.4 L’epilogo della tragedia                                                                                  p. 46

2.5 Gli eccidi della primavera del ’45                                                                  p. 47

2.6 Il progetto jugoslavo nella Venezia Giulia                                                     p. 53

 

Capitolo 3

LE CONTROVERSIE DIPLOMATICHE NELLA CRISI GIULIANA

 

3.1 La “svolta d’autunno” e le responsabilità del PCI                                         p. 60

3.2 La crisi giuliana nel nuovo contesto internazionale                                      p. 63

3.3 I negoziati di pace e la firma del trattato a Parigi                                        p. 65

3.4 La gestione jugoslava della Zona “B”                                                            p. 69

3.5 La difficile soluzione della crisi per Trieste                                                   p. 71

3.6 La lunga diaspora dei giuliano-dalmati                                                         p. 81

 

Capitolo 4

DELLE FOIBE E DELL’ESODO: APPROCCI INTERPRETATIVI DIFFERENTI

 

4.1 Le difficoltà e le tentazioni                                                                              p. 89

4.2 La posizione della Chiesa                                                                              p. 90

4.3 Le tesi conflittualiste                                                                                        p. 91

4.4 Storicizzazioni del passato                                                                             p. 92

4.5 Storicizzazioni del presente                                                                           p. 95

 

POSTFAZIONE                                                                                                      p. 101

 

CONCLUSIONI                                                                                                       p. 105

 

APPENDICE: TESTIMONIANZE DAL MONDO GIULIANO-DALMATA         p. 107

 

ALLEGATO: ILLUSTRAZIONI                                                                              p. 115

 

RIFERIMENTI                                                                                                         p. 117

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PREFAZIONE

 

In una società post-contemporanea a vocazione multiculturale come quella occidentale, si sta gradualmente rafforzando un’identità pluralista fondata sul dialogo tra le diversità e sulla condivisione di valori universali tra i popoli e le nazioni.

Ma l’Europa di oggi non può e non deve rimuovere le smagliature che hanno accompagnato il secolo delle guerre e delle masse, dove numerosi e dolorosi sono stati i drammi che esse hanno prodotto: alcuni assurti a modelli rappresentativi di ciò che non dovrebbe accadere mai più; altri misteriosamente vittime di un oblìo anomalo, forse rei di aver diviso profondamente l’opinione pubblica, la storiografia, e soprattutto la memoria.

Ecco che allora il retaggio storico può ancora scuotere le coscienze, agitare gli animi, talvolta sobillare nostalgie recondite tra chi ha sofferto da una parte e chi dall’altra. Appare arduo tuttavia riuscire a fondere il mosaico di microstorie europee in un’unica soluzione indolore, capace di mettere definitivamente i sigilli alle pagine più indigeste del secondo dopoguerra europeo.

Si stima che la ridefinizione dei confini tra stati vincitori e stati vinti alla fine della II guerra mondiale abbia prodotto nel vecchio continente il trasferimento forzato di quindici milioni di persone[1]. L’affermarsi inesorabile degli stati nazionali ha lasciato segni indelebili soprattutto tra la popolazione civile, improvvisamente privata della propria patria e impotente al cospetto delle volontà espresse sui tavoli della diplomazia internazionale.

Paradossalmente per molti europei la firma dei trattati di pace sancì l’inizio di un incubo fatto di privazioni, sopraffazioni, violenze, espulsioni; per altri decretò il coronamento di un sogno che si materializzava nella possibilità di esprimere liberamente la propria coscienza nazionale.

In questa cornice intrisa di memorie contrapposte si colloca la questione giuliano-dalmata, che di queste vicende rappresenta nello specifico lo stillicidio di conflitti e di violenze creatosi sul confine nord-orientale italiano tra i diversi gruppi nazionali che da secoli abitano questa regione mistilingue.

La Venezia Giulia di oggi è impegnata a superare le barricate erette negli ultimi due secoli attraverso guerre e aspre contese[2]. Un periodo questo, in cui la regione ha conosciuto tutte le stagioni politiche nella sua lenta maturazione sociale, culturale, ed economica.

Da quando l’Impero asburgico soppiantò i fasti della Serenissima, nelle terre alto-adriatiche si susseguirono irredentismi, nazionalismi, sciovinismi, guerre di eserciti, occupazioni, deportazioni, resistenze e guerriglie partigiane, eccidi, revanscismi, lotte per il potere, regimi totalitari, crisi diplomatiche con ripercussioni internazionali.

Alla fine di questa virulenta proliferazione di conflitti tra popoli e ideologie contrapposte, l’area giuliano-dalmata raggiunse il parossismo della sua agonia con l’esodo massiccio della comunità italiana che risiedeva da secoli in quest’area: Istria; arcipelago del Quarnaro, comprendente le isole di Cherso e Lussino e la città di Fiume; Dalmazia, in particolare la città di Zara[3].

Tale fenomeno ha profondamente alterato gli assetti socio-demografici di queste terre: La componente italiana fu sostanzialmente debellata ed estromessa dal suo ruolo di protagonista nella vita pubblica con il sovvertimento dell’ordine politico, sociale ed economico. Chi consapevolmente voleva salvaguardare la propria identità nazionale dovette prendere la via dell’esilio e dell’incertezza di fronte a un cambiamento così radicale.

Ma allora viene da chiedersi quale sia stato il filo conduttore capace di convogliare l’intricato Novecento giuliano verso un momento storico più fiducioso come quello odierno: quali sono le dinamiche comunicative che hanno portato storiografia, pubblicistica, opinione pubblica e informazione a inaugurare negli ultimi due decenni il cantiere della riconciliazione. Qual è il percorso negoziale in atto, in cui tentano di confluire le diverse linee interpretative che hanno animato il dibattito per più di sessant’anni. E prima di tutto, perché questa storia, la storia del travagliato confine nord-orientale italiano, è rimasta per così tanto tempo soltanto la storia di pochi.

Il terreno da sondare non è stato ancora sminato del tutto dalle strumentalizzazioni del passato, e si presenta ricolmo di attriti e di resistenze provenienti da ambiti forse incompatibili come il mondo della politica e quello della nostra società, così radicalmente mutata nel contesto globale di oggi.

Nel panorama giuliano-dalmata odierno esiste un mondo che stoicamente sopravvive sotto l’egida della memoria, nonostante le sue vicissitudini drammatiche lo abbiano diviso in due metà e in due scelte: la prima è rappresentata dalla comunità italiana della Venezia Giulia e della Dalmazia in esilio, che ha voluto custodire gelosamente i propri sentimenti nazionali grazie al ricordo di anni terribili, nonché alla lungimiranza con cui i suoi membri hanno saputo affrontare il cambiamento storico. La seconda è invece costituita dalle comunità italiane dei “rimasti”, ovvero da coloro che per ragioni molteplici hanno continuato a vivere nei territori ceduti alla Jugoslavia dopo i trattati di pace.

Vivere oggi in ciò che resta della Venezia Giulia italiana può suggerire delle interessanti riflessioni sugli errori del passato e sulle prospettive per il futuro di quest’area.

Che eredità ci lasciano le spoglie di un vissuto non ancora nitido? Una cosa è certa: il passato resta dietro l’angolo, in tutte le sue sfaccettature sedimentatesi nel secolo scorso. Fino a qualche lustro fa, questo passato è stato scagliato con ardore contro il passato degli altri, contribuendo a incrinare i già precari equilibri esistenti tra i diversi segmenti dell’opinione pubblica giuliana e nazionale.

Ma se davvero il processo di unificazione europea sta trasformando i valichi di frontiera in ponti di accesso all’integrazione socio-culturale, non si deve certo trascendere dall’effettiva incapacità, da parte di chi ha vissuto e interiorizzato il significato di quei confini, di accettare tutto questo placidamente: impossibile. Lungo la linea confinaria che per diversi decenni ha diviso e spaccato mentalità, stili di vita, e nondimeno concezioni diametralmente opposte dell’organizzazione statuale, non si può pretendere che tutto questo si amalgami in un indistinto calderone di massa.

Rievocare i fasti e il prestigio della civiltà prima romana e poi veneta dell’altra sponda adriatica[4] potrebbe essere un buon punto di ripartenza per progettare una Venezia Giulia più ambiziosa, a patto che non si dimentichi né si semplifichi una storia complessa, che non si calpesti il vissuto degli altri e soprattutto, che non si mascheri davvero nulla di quel teatro di ingiustizie che fu il secondo dopoguerra nell’Alto Adriatico.

Anche Gorizia, che fu la “Nizza austriaca”, porta ancora con sé i segni di quelle lacerazioni confinarie che la esautorarono del ruolo di grande provincia che ebbe in passato. Oggi però, grazie al suo apprezzabile rilancio sostenuto dalla realtà universitaria e dal fiorente turismo culturale nell’Isontino, sembra riappropriarsi gradualmente dello splendore di un tempo.

La sensazione di estraneità dalle vicende nazionali dell’area giuliano-dalmata mi hanno indotto ad avvicinarmi al suo tormentato passato, cercando di evincerne una chiave di lettura per il presente. Il focus della mia analisi e delle mie ricerche sarà concentrato sul rapporto tra storiografia, opinione pubblica e memoria: tre interlocutori difficilmente convergenti sui nodi interpretativi della questione. Cercherò così di fornirne un’inquadratura trasparente, prendendo in esame anche le interferenze degli ambienti politici e i tentativi di strumentalizzazione che si sono addensati sull’impegnativa storicizzazione degli avvenimenti.

L’indagine che mi propongo di compiere è metodologicamente impostata su una pluralità di fonti che consentano di confrontare le diverse angolature con cui si è svolto il dibattito fino a oggi: dalla bibliografia di base alla pubblicistica e alla letteratura specifica; dall’analisi dell’approccio mass-mediatico alle interviste di testimoni, studiosi dell’argomento, rappresentanti delle associazioni e opinion leader; e infine, fonte ormai imprescindibile, dalla consultazione della sitografia di interesse.

L’intento è quello di desumere dalle mie ricerche le principali linee argomentative necessarie per elaborare delle formulazioni coerenti: assumere dunque una posizione critica ma ponderata sull’annosa questione giuliano-dalmata.

La congiuntura odierna non dovrebbe più fomentare i contrasti, bensì suggerire una riflessione ragionata sulle conseguenze disastrose di taluni progetti politici del passato. Essi, anziché risolvere le tensioni sociali tra diversi gruppi nazionali, hanno prodotto la loro più totale degenerazione, sfociata nell’assoluta impossibilità di raccontare l’Ottocento e il Novecento della Venezia Giulia e della Dalmazia a senso unico.

Il punto è che nel Novecento europeo in quest’area si sono consumati diversi drammi, ciascuno dei quali con le proprie ripercussioni sulla popolazione civile. Sarebbe deleterio non riconoscere unanimemente lo spessore storico di quelli più scomodi e delicati da raccontare. Non ultimi quelli che simboleggiano per antonomasia un autentico sacrificio nazionale, quello di chi ha pagato con l’esilio i debiti di guerra del proprio paese, uscito vinto e ridimensionato dall’ultimo conflitto mondiale.


1. LA DIFFICILE COLLOCAZIONE DELLA QUESTIONE GIULIANO-DALMATA

 

1.1  PREMESSA

Sulla questione giuliano-dalmata molto si è scritto e molto si è pubblicato, nel tentativo di fornire un quadro di riferimento universale, in grado di mettere d’accordo storici e studiosi dell’argomento. Ma perchè tutto questo si è reso necessario? Quale ragione essenziale ha costretto gli esperti a condurre ricerche, consultare fonti documentarie, raccogliere testimonianze, elaborare informazioni, formulare, argomentare e confutare congetture in grado di reggere ai criteri di oggettività richiesti per diventare tesi sostenibili? Esiste un motivo sostanziale che ridotto ai minimi termini può sostantivarsi nella questione giuliano-dalmata? Ma soprattutto, di che questione si tratta?

Tutte queste domande raggiungono lo stesso epicentro storico in un’unica risposta: i confini di oggi sono lo spettro degli errori del passato. Errori non interpretabili soltanto secondo mera consequenzialità cronologica, bensì analizzabili con un approccio diverso, basato su un’intelaiatura malleabile delle vicende che caratterizzano la contemporaneità dell’Alto Adriatico.

Prima di ogni considerazione interpretativa è opportuno stabilire che la questione giuliano-dalmata si inserisce nel contesto europeo con grande attualità, poiché oggi Italia, Slovenia e Croazia (le entità statuali presenti nell’area della Venezia Giulia e della Dalmazia) cercano di riproporre nei termini del dialogo interculturale quello che fino al secolo scorso poteva essere considerato più facilmente uno scontro etnico tra la civiltà latina e quella slava.

Esiste dunque una questione giuliano-dalmata perchè quest’area è stata per molto tempo oggetto di contesa tra i popoli che l’hanno abitata, in una disputa continua sui tracciati confinari che decretavano la sovranità di imperi, regni, repubbliche e stati che in essa si affermavano. La sommatoria di questi avvicendamenti politico-territoriali è, in chiave odierna, la volontà di trasformare le diversità e le divisioni dei secoli scorsi in opportunità condivisibili nel nuovo millennio. In altri termini, rompere con la cultura delle discriminazioni pregiudiziali e affidarsi alle possibilità che offre una cooperazione a lungo termine, basata sull’esecrazione di quegli stessi errori che hanno restituito soprattutto odi e rancori lungo i confini. Nella Venezia Giulia contemporanea del secolo scorso, più che circoscrivere identità nazionali compatte e aggregate, le vertenze confinarie hanno prodotto forzature ineluttabili nella popolazione mistilingue che vive da generazioni in questi territori.

Lo spettro del passato allora è ben rappresentato dalla volontà di fagocitare delle realtà autoctone indiscutibili all’interno di progetti politici aberranti, rei di aver falcidiato il retaggio di civiltà millenarie con cinica insensibilità e con pesanti responsabilità storiche. Ecco perchè i confini di oggi possono essere considerati non tanto come la sedimentazione spontanea di una cultura all’interno del suo habitat socio-demografico, quanto piuttosto l’emblema della forza coercitiva esercitata dai totalitarismi del Novecento sulle masse, inculcate di ideali biechi presto diventati pura esasperazione ideologica.

Ciò che distingue un ideale da un’ideologia è presto noto: l’ideale sorge da un desiderio di libertà dell’uomo che sente propria l’esigenza di esprimerlo nel rispetto della libertà altrui; l’ideologia, esula da qualsiasi etica del rispetto dei singoli, e si innesca attraverso la volontà di affermazione di un pensiero. Questo, mediante un’accurata sofisticazione in cui la propaganda ne accresce il suo peso specifico, assurge a principio indiscutibile per entità sociali superiori che ne veicolano i suoi contenuti.

Il risultato inesorabile di taluni progetti politici sono state le profonde lacerazioni generate dai nazionalismi di massa. Ideologie, penetrate visceralmente nelle ignare menti umane di chi credeva di combattere per i propri ideali, aderendo a queste subdole correnti che incarnavano un pensiero politico degno soltanto della sua bassezza.

Non c’è da stupirsi se ancora oggi è arduo pensare di poter scrivere questa storia con una sola mano, capace di esprimere ricordi e memorie condivise, unanimi. Tuttavia è necessario provarci, seguendo la strada abilmente suggerita da Corrado Belci, che a questo proposito parla di “purificazione della memoria”[5], ossia “riconoscere, senza deformazioni, [...] la consistenza e lo spessore degli eventi, la loro natura, la loro qualificazione”[6].

Insomma, i confini non si possono cambiare ma la storia che li ha determinati non deve più godere di immunità faziose e non deve più nascondere scheletri nell’armadio.

1.2  LE ORIGINI DELLA CIVILTA’ GIULIANO-DALMATA

Quando si tenta di stabilire un prima e un dopo al solo scopo di rivendicare diritti storici sul territorio giuliano-dalmata, si corre il rischio di retrodatare a oltranza la venuta e l’insediamento in quest’area di popoli espressione, come abbiamo visto, di orizzonti culturali profondamente diversi sul piano etnico, sociale e linguistico.

Potremmo dire ad esempio, che prima dell’arrivo dei Romani la Venezia Giulia era abitata da un popolo, gli illiri, considerati dalle popolazioni slave loro antichi consanguinei e antenati storici. Continuando su questa linea si potrebbe aggiungere che l’arrivo dei Romani sulla sponda orientale dell’Adriatico risale a 21 secoli fa, quando la latinità allo stato primordiale toccò la costa dalmata nel 219 a.C., la penisola istriana nel 178-77 a.C., e la Liburnia[7] nel 129 a.C.

Tornando agli illiri, potremmo anche appuntare che la ricerca archeologica e storico-linguistica ha smentito la credenza secondo cui esisterebbe un legame significativo tra questo popolo arcaico e le popolazioni slave provenienti dall’area carpatico-caucasica, spintesi verso l’Adriatico durante le invasioni barbariche alto-medioevali.

Una data indicativa per risalire la china della millenaria storia giuliano-dalmata potrebbe essere l’anno 480, quando a Salona, antica città edificata con la romanizzazione della Dalmazia, nel palazzo di Diocleziano morì Giulio Nepote, ultimo imperatore dalmata riconosciuto anche dall’Impero d’Oriente.

Soltanto dopo la riunificazione formale dell’Impero, giunsero da oltre il Danubio gli Slavi, trascinati dagli Avari a ridosso delle terre istro-dalmate. Ma questo avvenne molti anni dopo: a partire dal 550 i primi nuclei di proto-sloveni si stabilirono nella Carinzia, mentre tra l’800 e l’810 Pipino, figlio di Carlo Magno, consentì ai Croati di attraversare il Danubio.

Altra data da ricordare sarebbe l’anno 614, in cui gli Slavi distrussero Salona. I salonitani, barricati all’interno del palazzo castrense, fondarono Spalato, che resse sotto Ravenna esarcale fino all’arrivo di Venezia, avvenuto già nell’anno 1000[8].

Nei quattro secoli successivi la Dalmazia fu contesa tra ungheresi, croati e veneziani, e soltanto nel 1409 il dominio della Serenissima si estese stabilmente in quest’area[9]. Da qui in avanti la sovranità di Venezia resisterà fino al fatidico 1797, anno in cui le sorti dei “fedelissimi Schiavoni”[10] subirono il pesante contraccolpo del trattato di Campoformido.

Durante l’epoca veneziana l’area giuliano-dalmata conobbe una grande prosperità, caratterizzata dal fiorire delle arti e degli scambi culturali  e commerciali, soprattutto nel periodo rinascimentale.

Questo escursus storico della civiltà giuliano-dalmata sarebbe del tutto inutile se non si facessero delle osservazioni metodologiche a riguardo: a ben vedere stiamo parlando di una civiltà millenaria in cui si sono affermate due etnie. Quella latina, decisamente lineare, la cui eredità è passata prima per i Romani e poi per Venezia, e su cui è germogliata successivamente l’italianità adriatica contemporanea; quella slava, invece, dalle sfaccettature più eterogenee, che con andamento meno continuo ha convogliato nei suoi binari popoli diversi come gli antichi illiri o gli slavi indistinti delle invasioni barbariche alto-medioevali.

Ma la logica del prima e del dopo, oltre a liquidare troppo sbrigativamente un problema ancora attuale, sottovaluta  due aspetti fondamentali alla comprensione della genesi storico-culturale di queste terre: in primo luogo andare alla ricerca dell’origine della civiltà giuliano-dalmata non significa affatto dare nuova linfa a rivendicazioni territoriali che oggi, apparirebbero fuorvianti e anacronistiche al cospetto del processo di integrazione che l’Europa sta sostenendo. Inoltre, nella civiltà giuliano-dalmata è opportuno esaminare con attenzione l’influenza, l’impatto culturale e lo spessore storico che quelle etnie e quei popoli hanno avuto fino all’arrivo della contemporaneità; come vedremo, l’irrompere delle ideologie nell’area alto-adriatica ha prodotto delle alterazioni politico-sociali, sfociate nello sconvolgimento degli assetti statuali e delle linee confinarie.

 

 

 

1.3 L’AREA GIULIANO-DALMATA VERSO LA CRISI

Alla luce di quanto detto finora sulla questione giuliano-dalmata, sarebbe interessante interpretare quei meccanismi che hanno trasformato una rivalità storica (tra popolazioni latine e slave) in un conflitto etnico su base nazionale. Tale scontro conobbe la sua maturazione in epoca asburgica: è in questo periodo infatti che cominciarono a guadagnare un apprezzabile consenso alcune tesi destabilizzanti per la convivenza delle diverse identità nazionali all’interno dell’Impero austro-ungarico.

C’è un passaggio fondamentale che può aiutare a comprendere meglio la proliferazione dei contrasti tra italiani e slavi dentro l’Impero: in questa fase a mutare è l’atteggiamento di fondo dell’opinione pubblica, abilmente persuasa dalla propaganda politica a trasformare la propria cultura della nazione in ideologia nazionale, per non dire semplicemente nazionalismo di massa.

Le prime spinte eversive affiorarono nella prima metà del XIX secolo, quando tra il 1830 e il 1848 dentro i confini dell’Impero si diffuse l’illirismo[11]. Questo movimento si fece portavoce del diritto storico delle nazionalità slave di ottenere l’autonomia all’interno dei territori asburgici. Tuttavia, l’impulso autonomista slavo comprendeva anche il litorale dalmata, liburnico, istriano, Triestino e Goriziano, tutte zone in cui forte e rigogliosa era la presenza italiana, soprattutto nei centri urbani e costieri in cui fiorenti erano le attività commerciali e marittimo-portuali.

Non ci volle molto tempo per strumentalizzare l’esperienza dell’illirismo, che nelle fasi successive della storia giuliano-dalmata del Novecento fu pretestuosamente incarnato nel nazionalismo slavo di stampo etnicista. Il mondo slavo guardava con voluttà al diffondersi di un’ideologia che avrebbe costituito il perno centrale delle rivendicazioni politiche e territoriali sulla Venezia Giulia[12] alla fine della II guerra mondiale, dopo che il fascismo aveva compromesso irrimediabilmente la posizione dell’Italia sui tavoli delle trattative di pace di Parigi.

Ma asserire che la conflittualità italo-slava abbia avuto la sua origine alla fine della I guerra mondiale con lo sfacelo dell’Impero austro-ungarico significherebbe dare adito a un dogma storico privo di fondamento: primo perchè l’esperienza risorgimentale italiana fece sentire i suoi effetti anche in Venezia Giulia e Dalmazia, secondo, e fatale, perchè il governo imperiale di Vienna mutò drasticamente il suo atteggiamento nei confronti dei sudditi di nazionalità italiana dopo la costituzione del Regno d’Italia nel 1861.

Frattanto si può aggiungere che il problema tra italiani, croati e sloveni all’interno delle province del Litorale[13] si inserisce a pieno titolo nella cornice mitteleuropea ormai in crisi, in cui il rapporto conflittuale tra le varie nazionalità stava per raggiungere la sua massima agonia. Nell’intricato puzzle asburgico numerosi erano i dissidi tra i gruppi nazionali presenti entro i confini dell’Impero, soprattutto tra cechi e tedeschi in Boemia e Moravia, polacchi e ucraini in Galizia, romeni e magiari in Transilvania; anche nel Tirolo la tensione aumentò fra i trentini di lingua italiana che si sentivano impotenti di fronte all’egemonia tedesca.

A questo contesto si associa anche il riscatto del Veneto ottenuto dal Regno d’Italia nel 1866, che estromise quasi del tutto la presenza austriaca dalla penisola: nell’euforia risorgimentale italiana si identificarono anche istriani e dalmati, instancabili testimoni dell’eredità di Venezia; A Trieste tuttavia si respirava un clima un po’ diverso, dovuto soprattutto al timore della classe dirigente italiana di perdere tutti quei privilegi e benefici ottenuti sotto l’egida dell’Impero, capace di trasformare la città in uno dei più prestigiosi porti del Mediterraneo.

Nel frattempo però, cominciarono a mutare gli assetti politico-sociali in tutta la Venezia Giulia e la Dalmazia, e negli ultimi decenni dell’Ottocento la svolta destabilizzante nei rapporti italo-slavi dentro l’Impero assunse le sue sembianze più concrete. La nascita del Regno d’Italia e la successiva conquista di Roma avevano scaturito l’accanimento delle autorità asburgiche contro la componente italiana: per tutta la seconda metà del XIX secolo il governo di Vienna si fece prodigo di una politica ostile all’italianità adriatica cercando di indebolirla, se non di danneggiarla con provvedimenti iniqui e misure restrittive di vario tipo. Ad esempio, introducendo il bilinguismo in Istria e modificando i collegi elettorali in Dalmazia per impedire l’elezione di rappresentanti italiani al parlamento di Vienna, in un’ottica filo-croata che consegnasse in breve tempo tutte le amministrazioni comunali alla componente slava. Destò scalpore poi il perentorio diniego con cui l’Impero boicottò l’istituzione dell’università a Trieste, considerata come una pericolosa fucina di idee in cui avrebbe potuto fermentare il sentimento italiano.

Nel capoluogo giuliano inoltre, fu proibito al comune di conferire licenze industriali per l’implementazione di progetti di ampio respiro, mentre parallelamente si incentivò l’imprenditoria slovena con misure e concessioni che ne corroborassero la presenza e il peso nella città. Il quadro fu completato con il licenziamento dei dipendenti regnicoli dell’amministrazione comunale, andando così a colpire l’italianità nel cuore delle istituzioni locali, in cui essa occupava tradizionalmente un ruolo egemone.

Da non trascurare poi, l’importanza di altri tre fattori che hanno dato il loro apporto all’inasprimento della crisi giuliana: a vantaggio della componente slava, che in città avvalorava la sua presenza grazie alla nascita di una borghesia slovena determinata a rivendicare i diritti nazionali nell’Impero, si schieravano i socialisti, da sempre in prima linea per la questione sociale, ovvero per la tutela del proletariato urbano nelle cui fila era dominante la presenza slava.

La superiorità economica e culturale degli italiani a Trieste fu poi osteggiata dall’alleanza che Vienna strinse con l’elemento sloveno sul finire del secolo: se da una parte la compagine slava si era sempre comportata in modo leale nei confronti della corona, salvo rimarcare puntualmente il proprio desiderio di emancipazione, dall’altra è altrettanto vero che dopo la beffarda sconfitta del 1866 gli Asburgo si guardavano bene dal Regno d’Italia, consci che Trento e Trieste da lì in avanti avrebbero costituito gli avamposti del loro impero. In più va detto che la politica austriaca filo-slovena rientrava in un disegno di ribilanciamento delle realtà nazionali dell’Impero, presupposto imprescindibile per la sua stessa sopravvivenza. Ecco perchè così tanta attenzione per la vocazione cosmopolita di Trieste.

Il clero slavo infine, fu l’elemento precursore di quel credo anti-italiano che trovava la sua massima espressione in azioni di proselitismo a sfondo ideologico; con sorprendente abilità dialettica esso profuse sentimenti italofobi soprattutto tra i ceti contadini dell’entroterra istriano, dove forte era la presenza croata di confessione cattolica. L’ancoraggio dei sacerdoti spesso consisteva nello screditare l’immagine del neo-costituito stato italiano attraverso ammalianti omelie che denunciavano il presunto, deplorevole comportamento delle istituzioni italiane, ree di tenere in ostaggio il Papa a Roma.

Fu quindi l’imperversare di una connivenza strategica tra le autorità dell’Impero e la causa slava ad aggravare la situazione nella Venezia Giulia: la politica asburgica che tendeva sia a favorire l’elemento sloveno e croato, sia a far presagire una congiura austro-slava contro l’italianità adriatica, innescò nell’opinione pubblica italiana una radicale scesa di campo in difesa delle proprie posizioni, oramai rese inconciliabili con quelle dell’Impero e tuttalpiù decisa a schierarsi a favore dell’annessione al Regno d’Italia. Nasceva così l’irredentismo adriatico[14], il cui obiettivo era appunto la realizzazione integrale dell’identità nazionale. Per portarla a compimento si mise in moto una propaganda filo-italiana che fino a quel momento era stata patrimonio di pochi, e che ora diventava lo strumento politico per la difesa dell’italianità adriatica, in contrasto con le spinte autonomiste delle popolazioni slave.

L’impeto irredentista italiano si fece sentire inevitabilmente anche lungo la costa dalmata, dove la popolazione italiana veniva sempre più esautorata dei propri diritti sul piano politico-economico e fagocitata dalla forte componente croata che avanzava dall’entroterra verso il mare. Si trattò di un processo di snazionalizzazione graduale ma efficace che si protrasse fino alla II guerra mondiale. A quel punto l’attenzione per le sorti dei dalmati scemò, visto che la città di Zara, principale e compatto caposaldo dell’italianità dalmata, fu completamente rasa al suolo dai bombardamenti degli Alleati: “fra il 2 novembre 1943 e il 31 ottobre 1944 cinquantaquattro incursioni aeree colpirono la città, uccidendo circa 2000 dei suoi 22.000 abitanti”[15].

I rapporti tra Regno d’Italia e Impero austro-ungarico riuscirono tuttavia a non deteriorarsi ulteriormente grazie agli accordi in materia di politica estera. L’alleanza difensiva con la Germania e l’Austria siglata nel 1882 stemperò temporaneamente i fervori nazionalisti in un clima che rimase però di grande incertezza.

Nel panorama politico giuliano intanto, si preparava la strada per lo sganciamento effettivo dall’Impero asburgico della componente italiana, giocoforza convinta di dover ribadire tenacemente il ruolo egemone che aveva avuto e consolidato prima con la civilizzazione romana, poi con la continuazione della tradizione latina in seno alla repubblica di Venezia.

Ciò che era cambiato rispetto all’esperienza risorgimentale mazziniana e garibaldina di estrazione democratica era indubbiamente il contesto in cui l’irredentismo adriatico affondò le sue radici: i tempi non erano più quelli dei nobili ideali di libertà dell’uomo e rispetto tra le nazioni.

Nel primo ventennio del Novecento i conflitti nazionali in Europa strariparono, confluendo nell’ideologia nazionalista per antonomasia, basata su quanto di più antidemocratico potesse essa contemplare: politica di potenza, espansione confinaria e concezione statuale esclusivista, ovvero intolleranza verso le minoranze e costruzione degli stati nazionali.

Nelle terre alto-adriatiche il precario equilibrio su cui si reggeva in piedi l’Impero austro-ungarico cominciava a incrinarsi, mentre la nazionalizzazione delle masse aveva prodotto al suo interno la “formazione di società nazionali separate e antagoniste”[16]. A questo proposito è meglio precisare che mentre per gli italiani della Venezia Giulia e della Dalmazia l’idea di nazione rappresentava una scelta volontarista, il criterio di adesione ad un movimento nazionale per gli slavi era invece frutto di una concezione di stampo etnicista, basata esclusivamente sull’appartenenza razziale.

Allo scoppio della Grande Guerra la causa irredentista italiana aveva sposato quella interventista, e dopo l’ingannevole patto di Londra[17] e le radiose giornate di maggio del ’15 l’Italia riuscì a redimere la Venezia Giulia e qualche scheggia della Dalmazia al termine di una guerra rocambolesca, anche nei trattati di pace[18].

La fine del primo conflitto mondiale, oltre a trascinare con sé morte e distruzione, decretò il tracollo dell’impero austro-ungarico, spingendo la questione giuliano-dalmata in un vicolo cieco: nelle terre alto-adriatiche infatti, si insediarono il Regno d’Italia e il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, l’uno accanto all’altro ed entrambi intenzionati ad affermare le proprie rivendicazioni territoriali per far coincidere i confini di stato con i propri confini nazionali.

Secondo gli addetti ai lavori fu proprio la crisi generata dalla dissoluzione dell’Impero a esacerbare la conflittualità italo-slava: nascevano due stati nazionali, anche se tale definizione potrebbe essere equivoca, considerando che dentro i confini di questi stati rimasero comunque ingabbiate delle minoranze “non redente”. Questi nuovi stati erano concepiti come proprietà esclusiva della maggioranza che li aveva eretti, e politicamente orientati all’assimilazione, spontanea o coatta, dei gruppi nazionali minori. Essi venivano percepiti come uno scomodo intralcio, satelliti del loro stato nazionale di riferimento.

Con il cambio delle sovranità nell’area giuliano-dalmata furono anche ridefiniti gli obiettivi da perseguire nel conflitto nazionale italo-slavo; se nella cornice dell’Impero asburgico lo scontro nazionale si traduceva precipuamente in una lotta per il potere locale, ora diveniva un’improba prova di forza per entrare a far parte di un solido stato nazionale a carattere esclusivista, in grado di scompaginare il nemico storico.

Si apriva pertanto nell’Alto Adriatico una lunga stagione di crisi, che dopo il ventennio fascista avrebbe conosciuto un’altra guerra e le lacerazioni confinarie e umane che ne derivarono, per culminare in un esodo di massa che in queste terre non conosceva precedenti di una tale portata.

I primi scricchiolii in Italia si avvertirono dopo che la delegazione italiana presieduta da Vittorio Emanuele Orlando, recatasi a Versailles (1919) per negoziare le trattative di pace con gli altri paesi vincitori della guerra, abbandonò i lavori prima della loro conclusione ufficiale. Tale scelta suscitò una pioggia di polemiche nell’opinione pubblica italiana, la quale ebbe così un altro pretesto per screditare l’atteggiamento remissivo tenuto dallo stato liberale, mentre esso si apprestava ad entrare in una fase di declino inarrestabile.

La questione di Fiume irredenta e dei territori della Dalmazia non riconosciuti all’Italia dalle potenze vincitrici durante i negoziati[19], divenne così il cavallo di battaglia della propaganda nazionalista italiana post-bellica, che trovò nuova linfa nei miti della Vittoria mutilata e del Fiumanesimo dannunziano[20]. L’impresa di D’Annunzio e dei suoi legionari acuì la tensione interna in Italia tra interventisti e oppositori, ma al contempo divaricò i consensi a Fiume, dove la maggioranza della popolazione italiana che abitava la città riponeva la propria fiducia nel movimento autonomista di Riccardo Zanella.

La campagna di Fiume scosse l’opinione pubblica a livello internazionale, soprattutto a Parigi e a Londra, dove molto operosi e ben organizzati erano i Comitati Nazionali Jugoslavi[21]. Essi stigmatizzarono l’impresa di D’Annunzio come un atto di imperialismo, sostenendo l’annessione di Fiume al costituendo Regno dei Serbi, Croati e Sloveni.

L’avventura di D’Annunzio si concluse con il fatidico Natale di sangue[22], a conclusione di una recidiva resistenza al governo Giolitti che gli aveva ripetutamente intimato di desistere in virtù del trattato di Rapallo. L’accordo italo-slavo, sottoscritto dalle parti il 12 novembre 1920, prevedeva l’istituzione dello Stato libero di Fiume, mentre all’Italia andavano Zara, le isole quarnerine di Cherso e Lussino e l’isolotto di Làgosta. Dopo le cannonate del Regio esercito i legionari abbandonarono Fiume, e anche l’avventura dannunziana volse al termine, lasciando l’amaro in bocca al movimento che l’aveva intrapresa e sostenuta.

Una cosa è certa: se il progetto-utopia di D’Annunzio fallì nel giro di sedici mesi (settembre ‘19 – dicembre ’20) non bisogna sottovalutare l’elevato simbolismo che trapelava dal singolare eroismo patriottico del poeta soldato. Egli aveva lanciato un forte monito all’Italia e agli italiani sulle sorti di una città che si sentiva evidentemente italiana, nonostante le decisioni prese a Versailles fossero contraddittorie ai principi di Wilson. Il punto era che in base all’autodecisione dei popoli Fiume doveva essere assegnata all’Italia, ma così non fu perché la città non faceva parte della posta in gioco pattuita con l’accordo segreto di Londra. Lo stesso accordo però assegnava la Dalmazia all’Italia, che non riuscì ad ottenerla in virtù della teoria wilsoniana: oltre al danno (Fiume irredenta), la beffa (i territori dalmati inglobati nel regno degli Slavi del sud). Risulta comprensibile quindi un irrigidimento dell’irredentismo adriatico, che cercava di difendere disperatamente l’italianità di città come Spalato, Sebenico, Traù e Ragusa, clamorosamente fagocitate all’interno del nuovo stato slavo. Iniziò così un processo di assimilazione che stritolerà i dalmati intorno all’ultimo baluardo di italianità lungo la costa: Zara.

Di lì a poco però, sarebbe stato il fascismo a raccogliere la causa irredentista, e mentre si assisteva all’inesorabile collasso della classe liberale italiana, nell’area giuliano-dalmata lievitavano le inimicizie tra i vari gruppi nazionali, sospinti da una grande propaganda ideologica che propinava loro la bontà di un atteggiamento denigratorio da assumere verso l’altro.

 

1.4 L’AREA GIULIANO DALMATA DURANTE L’EPOCA FASCISTA

Il periodo 1919-1940 è stato definito intelligentemente da Galliano Fogar come “il laboratorio della catastrofe”[23], in quanto se è vero che la crisi giuliano-dalmata era già iniziata sul finire dell’epoca asburgica, assumendo le sembianze di uno scontro tra italianità adriatica ed espansione confinaria slava volta alla legittimazione delle proprie rivendicazioni nazionali, è certo che il regime fascista adottò nella Venezia Giulia una politica repressiva e nazionalista.

A confermarlo, anzitutto, le parole con cui Benito Mussolini si espresse a Trieste nel settembre del 1920 in occasione di una sua visita al capoluogo giuliano: “Contro la razza slava non si deve usare la politica dello zuccherino, bensì quella del bastone!”. Un biglietto da visita irreprensibile, che rifletteva la caparbietà e l’alacrità con cui egli intendeva difendere l’italianità nelle terre alto-adriatiche.

Fu proprio nell’area giuliano-dalmata[24] che la politica fascista ebbe i suoi effetti più negativi. A cominciare dal programma di italianizzazione della regione che prevedeva la modifica dei toponimi e dei cognomi non espressamente italiani, la chiusura di scuole, associazioni, circoli e organizzazioni culturali croate e slovene, la soppressione delle iniziative editoriali in lingua slava, tutto secondo copione. Il risultato fu fallimentare, in quanto tali misure repressive generarono una “profonda lacerazione psicologico-morale all’interno del tessuto sociale”[25] giuliano-dalmata, che ne risentì subito: la popolazione di etnia slava infatti cominciò a covare un odio viscerale non tanto verso il fascismo in sé, quanto piuttosto verso tutto ciò che era italiano.

Si fece sentire poi l’esosa politica fiscale nei confronti dei contadini e dei piccoli proprietari, dato che il mondo rurale giuliano dell’entroterra era prevalentemente di etnia slava. Non bisogna infatti dimenticare che nella Venezia Giulia la componente autoctona italiana si era insediata soprattutto nei centri urbani della costa, viceversa, più ci si addentrava e più andava via via diminuendo la sua presenza.

L’apparato statale fascista si comportò spesso in modo intransigente e intollerante nei confronti delle minoranze slave che furono bollate come “alloglotte” o “allogene”, in quanto facenti parte di uno stato nazionale.

In realtà ciò che colpisce davvero fu che “la vita quotidiana sotto il fascismo italiano, se si esclude l’oppressione nazionalista (linguistica), non subiva un sovraccarico ideologico”[26]: in sostanza, la politica anti-slava era certamente vessatoria, tuttavia non esercitava una pressione invasiva nei rapporti sociali e nelle relazioni private tra le diverse componenti nazionali; non aveva dunque una capacità di penetrazione sociale così profonda nel quotidiano, dove alcuni spazi rimanevano incontaminati dalla politica fascista.

C’è poi un’altra considerazione interessante a tale proposito che merita di essere menzionata: nel ventennio la vita politica italiana contrapponeva “fascisti” e “antifascisti”, ma tra la gente era molto più comune imbattersi in “afascisti”, ovvero persone assolutamente non coinvolte né compromesse con incarichi all’interno del PNF[27], né tantomeno interessate al mondo della politica stessa. Il fatto che poi fossero obbligate a custodire nel taccuino la tessera fascista costituiva purtroppo il “marchio discriminante” che le rendeva automaticamente passibili di un giudizio negativo da parte di chi, per colpa del regime fascista, stava veramente subendo delle sopraffazioni di ordine sociale, culturale o linguistico. Anche da queste situazioni si propagò dirompente un odio che era allo stesso tempo di tipo nazionale e politico, in quanto per sloveni e croati l’elemento italiano costituiva a priori l’icona fascista per antonomasia, il nemico in carne ed ossa: tale equivoco come vedremo sarà letale per moltissimi italiani durante e alla fine della II guerra mondiale.

In compenso quello che lo stato fascista non riusciva o non voleva spingersi a fare veniva sistematicamente portato a compimento dallo squadrismo delle camice nere, in un clima costantemente intriso di azioni dimostrative intimidatorie e violente con cui si portava all’esasperazione l’astio tra slavi e italiani.

Sul finire degli anni ’20 il regime fascista aveva ottenuto due risultati molto importanti: sul piano politico, Mussolini era riuscito a estendere la sovranità del Regno anche sulla città di Fiume, grazie al Trattato di Roma siglato nel 1924; sul piano della repressione delle minoranze, la strategia fascista volta alla scompaginazione dell’elemento socio-culturale slavo aveva fatto sì che alla fine del decennio le classi croate e slovene fossero praticamente scomparse, con conseguente perdita del posto di lavoro di molti insegnanti madrelingua.

La politica del regime aveva poi estromesso dal loro ruolo impiegatizio intellettuali, piccola borghesia imprenditoriale e quadri delle organizzazioni politiche slave che avevano cessato di esistere dal 1927. L’effetto che si produsse fu quello di un aumento della disoccupazione nelle file slovene e croate, tanto da produrre tra le due guerre flussi migratori dalla Venezia Giulia verso i territori del Regno jugoslavo e verso altre destinazioni, anche oltreoceano. Sulle cifre di tale fenomeno è opportuno ragionare con cautela per le seguenti ragioni: molti slavi della regione erano stati trapiantati artificialmente dalla Carniola per volontà dell’impero austro-ungarico fino al 1914, quindi non erano giuliani autoctoni; parte di questi flussi migratori erano avvenuti nella totale clandestinità, perciò risulterebbe alquanto ardua una quantificazione precisa e attendibile. Ciò nonostante è indubbio l’emigrazione non italiana dalla Venezia Giulia tra le due guerre ha riguardato alcune decine di migliaia di persone, soprattutto sloveni e croati, sospinti da un insieme di motivazioni politico-economiche relazionabili alla politica esclusivista fascista. In compenso il governo di Belgrado riuscì a impiegare il riflusso di emigrati dall’Istria e dal litorale per nazionalizzare alcune zone comprese nei nuovi confini del Regno jugoslavo, come accadde nel Prekmurje ungherese e nella Stiria meridionale, abitata da comunità tedesche fino al crollo dell’Impero. Tali interventi erano riconducibili al sovente ricorso a progetti di ingegneria etnica che si erano profilati in Europa come strumento di aggregazione nazionale all’interno degli stati.

Quanto all’assetto demografico dell’area giuliana preso in esame con il criterio dell’appartenenza nazionale, vale lo stesso discorso; avventurarsi in calcoli congetturali non risulterebbe certo utile in questa sede, anche se l’ipotesi avanzata da Carlo Schiffrer potrebbe rivelare una certa plausibilità alla luce di quanto detto: pare che nel 1939 nella Venezia Giulia la compagine italiana ammontasse a circa 550.000 residenti, mentre quella slava raggiungeva le 400-430.000 unità[28], in una sorta di ripartizione bilanciata che lasciava intuire tuttavia un’apprezzabile scostamento del dato a favore dell’italianità. Comunque, valutata la confutabilità dell’ipotesi di Schiffrer, si può annotare una certezza inattaccabile: se i due gruppi nazionali erano entrambi molto diffusi nella demografia giuliana, quello italiano era storicamente egemone e maggioritario a Gorizia, Trieste e Fiume, nonché lungo tutta la parte occidentale della penisola istriana, specialmente nella fascia costiera, dove rappresentava anche la classe dirigente nei principali centri urbani come Capodistria, Pirano, Isola, Umago, Cittanova, Parenzo, Rovigno, Pola, ecc.

Nel clima di tensione alimentato soprattutto dalle violenze squadriste e dalla persecuzione di antifascisti, repubblicani e personaggi politici del mondo slavo, purtroppo si deteriorarono anche i rapporti umani tra italiani, croati e sloveni, in un’atmosfera irreversibile di reciproca incomprensione.

Alla campagna massiccia di snazionalizzazione e fascistizzazione imposta autorevolmente dallo stato italiano nella Venezia Giulia seguirono tentativi di reazione da parte slava: si costituì clandestinamente un fronte slavo antifascista che cercò di opporsi al regime con i mezzi più disparati come scritte murali, volantinaggio di propaganda, spionaggio politico e azioni terroristiche dimostrative. La rete cospirativa slava si sviluppò oltre confine con la nascita dell’ORJUNA[29]  e all’interno del territorio italiano con l’organizzazione segreta TIGR[30]. Questa fu attivissima nell’area giuliana con “un’intensa campagna propagandistica e intimidatoria, [...] l’incendio di asili, scuole e ricreatori italiani, considerati simbolo della politica di snazionalizzazione in area slava”[31]. Ciò che rendeva ancora più efficiente l’assetto organizzativo del TIGR erano i contatti che aveva stretto con Giustizia e Libertà, il movimento antifascista italiano in esilio a Parigi.

Le azioni “tigoriste” più esemplari furono gli attentati al Faro della Vittoria a Trieste e alla sede del quotidiano Il Popolo di Trieste, nonché gli assalti alle scuole di Sgonico e Cattinara. Tali azioni irritarono non poco le autorità fasciste, e propiziarono un intervento tenacemente repressivo dell’OVRA[32] e del Tribunale speciale per la sicurezza dello Stato, che comminò anche quattro pene capitali.

Altra forza molto combattiva contro il regime fascista fu la Zveza jugoslovanskih emigrantov iz Julijske Krajine[33], fondata nel ’31 dopo che il TIGR cessò le sue attività terroristiche. Questa organizzazione sostenuta anche da Belgrado, su dedicò alla propaganda antifascista jugoslava cercando di coinvolgere ampi settori dell’opinione pubblica internazionale. Pubblicazioni di materiale informativo edito in inglese e francese ebbero l’avveduto scopo di stimolare l’attenzione sulla questione giuliano-dalmata in chiave filo-jugoslava, ovvero mettere in risalto soprattutto i soprusi fascisti nell’area giuliana piuttosto che le ingiustizie subite dagli italiani dalmati rimasti inglobati all’interno dei territori divenuti jugoslavi alla fine della prima guerra mondiale.

Quando i rapporti diplomatici italo-jugoslavi si ricomposero con l’accordo Ciano-Stojadinovic del ’37, l’orbita del TIGR si spostò verso i servizi segreti francesi e britannici, in grado di fornire una collaborazione più sensibile alla causa slava. Tale collusione si rivelò utile alla ripresa delle attività terroristiche in Italia e in Carinzia sul finire del decennio. La connivenza anglo-jugoslava a sfondo sovversivo forse poteva essere interpretata, sul piano internazionale, come una strategia deterrente sul sorgere del secondo conflitto mondiale. Il governo italiano dal canto suo esercitò una forte pressione su quello jugoslavo fintantoché nel ’40 quest’ultimo sciogliesse la Sveza, anche perché Belgrado paventava una ripercussione dentro i propri confini della guerra che l’Italia aveva già iniziato contro l’Inghilterra. Era chiaro che Belgrado non fosse quasi più in grado di sostenere a livello internazionale un rapporto trasparente e neutrale da ambo le parti, anche perché dentro le istituzioni dilagava l’incertezza al cospetto dei delicati equilibri che lo stato stava cercando disperatamente di salvaguardare con l’Italia e la Germania, già predisposte in assetto bellico.

Intanto erano anche stati siglati degli accordi che saranno determinanti nella fase finale della guerra nella Venezia Giulia: nel 1934 i partiti comunisti italiano, jugoslavo e austriaco si pronunciarono esplicitamente disposti a sostenere il diritto all’autodecisione dei popoli, mentre due anni più tardi il PCI siglò un patto d’azione con il movimento nazionale rivoluzionario degli sloveni e dei croati della Venezia Giulia, il cui contenuto era assolutamente compromettente per le sorti della regione:

 

La federazione comunista della Venezia Giulia e il partito comunista italiano lottano e lotteranno ogni momento, per il riconoscimento e l’applicazione del diritto di autodecisione delle popolazioni slave della Venezia Giulia, compreso quello della separazione dallo stato italiano[34].

 

Come vedremo l’ambiguità interpretativa di questa dichiarazione creerà non pochi dissidi tra le varie forze della Resistenza giuliana, e a pagarne il prezzo sarà proprio l’integrità confinaria della regione.

A buttare benzina sul fuoco ci pensò poi l’aggressione congiunta del regno jugoslavo da parte della Germania di Hitler e dell’Italia, coadiuvate da Bulgaria e Ungheria nell’aprile del ’41. Questa decisione era scaturita dopo che il colpo di stato del 27 marzo 1941[35] aveva fatto abdicare il sovrano jugoslavo Paolo a favore di Re Pietro II, con l’appoggio di Churchill e Stalin al nuovo governo appena insediato. Il movente era fin troppo scontato: due giorni prima lo stato jugoslavo, in un clima di fervore diplomatico insostenibile, aveva forzatamente firmato a Vienna il Patto Tripartito che l’avrebbe legato militarmente a Germania, Giappone e Italia, sospinto anche dal fatto che Ungheria, Romania e Bulgaria, tutti paesi limitrofi, vi avevano già aderito.

Nell’aprile ’41 il territorio jugoslavo fu smembrato e la Croazia ustascia[36] di Ante Pavelic si dichiarò indipendente. La Germania riannesse all’Austria le ex province asburgiche della Stiria e della Carinzia, instaurò un rigido regime militare in Serbia e assunse il controllo del Banato orientale. L’Ungheria si rimpossessò della Voivodina, a maggioranza magiara, già appartenuta alla corona ungherese fino al 1918. La Bulgaria incorporò quasi tutta la Macedonia e alcune porzioni di territori serbi.

Quanto all’Italia, l’errore madornale fu sicuramente quello di occupare la porzione meridionale del territorio sloveno, comprendente la città di Lubiana, e di eleggerlo a provincia del Regno. Anche Fiume si vide ingrandita, con l’annessione dei distretti di Castua e Sussak e delle isole Arbe e Veglia. Il Montenegro divenne Stato indipendente sotto il protettorato italiano.

Un discorso a parte deve essere fatto per l’area dalmata con la sua costa e le sue isole. Questa regione adriatica, come abbiamo visto, era appartenuta per secoli alla Repubblica di Venezia, che l’aveva arricchita e sviluppata sulla scia degli antichissimi insediamenti romani, emblema di una tradizione latina plurimillenaria e mai interrotta. Successivamente la Dalmazia aveva conosciuto l’esperienza dell’Impero asburgico che nella sua fase di declino aveva minato l’italianità della regione con una politica sentitamente filo-croata, fatta di oppressioni, ostruzionismo, discriminazioni e manovre volte a un graduale sconvolgimento degli equilibri pre-esistenti. Fu per questo che la popolazione dalmata di sentimenti italiani gridò alla congiura austro-slava, ravvisando che la propria identità nazionale era gravemente compromessa sotto l’Impero. A quel punto gli esiti della I guerra mondiale illusero i dalmati che la loro agonia sarebbe presto terminata, quando invece le decisioni prese a Versailles (28 VI 1919), Saint-Germain-en-Laye (10 IX 1919), e Rapallo (12 XI 1920), li condannarono all’ingiusto status di minoranza nazionale (e quindi al ruolo di “cavie”) all’interno del Regno degli Slavi del sud, entità statuale sorta ipso facto unendo l’ex Regno di Serbia agli ex territori dell’Impero austro-ungarico. Per difendere quell’italianità dalmata, così autentica e così autoctona, la risposta fu appunto l’irredentismo adriatico; questo movimento, ricordiamolo, sorse come espressione della contrarietà con cui gli italiani della Dalmazia venivano progressivamente fagocitati e risucchiati dai nuovi venuti, nonché come la manifesta volontà di rivendicare la propria cultura, la propria lingua, le proprie tradizioni, e le proprie origini, in una parola, la propria storia.

Ritornando indietro dopo questo necessario inciso storico, aggiungeremo che la costituzione del Governatorato della Dalmazia[37] e del distretto delle Bocche di Cattaro poi elevato a provincia, furono sentite come un ritorno in patria dagli italiani dell’altra sponda adriatica, come l’ultimo atto che portava a compimento l’auspicato disegno di redenzione nel segno dell’eredità di Venezia.

Detto questo, è indiscutibile condannare l’aggressione a Lubiana e ai territori del suo circondario, dove non si poneva neppure il problema nazionale, visto che gli abitanti di quella zona erano compattamente di lingua e cultura slovena. L’Italia pagherà un dazio salatissimo per quella irresponsabile avventura militare. C’è poi un fatto che ha del paradossale: le autorità italiane insediatesi nella nuova provincia del Regno, consce delle difficoltà di gestione di un territorio così diverso sotto il profilo etnico-linguistico, intentarono di applicarvi un’amministrazione meno ferrea di quella in vigore nell’area slovena occupata dai nazisti, con il preciso scopo di non apparire troppo invisi agli occhi della popolazione locale. Ma questo atteggiamento, unito all’errore di principio di occupare un territorio completamente estraneo alla questione giuliano-dalmata, contribuì in maniera determinante a ridestare negli slavi della Venezia Giulia quell’identità nazionale che il fascismo aveva a lungo inibito. Il fatto di non aver intaccato le istituzioni locali e le scuole in lingua slovena nel circondario di Lubiana quindi, scatenò le proteste di sloveni e croati che dopo il ’27 si sentirono emarginati e discriminati dalla politica fascista nell’area giuliana.

Il 17 aprile 1941 Belgrado firmò la resa incondizionata e Re Pietro II fuggì in esilio con il suo governo a Londra, dopo che gli Stuka[38] tedeschi avevano compiuto numerose incursioni sulla città, quasi fosse una vendetta personale che Hitler aveva serbato all’alleato-lampo, reo di aver disertato gli impegni assunti formalmente col Patto Tripartito quarantotto ore prima del colpo di stato.

Intanto a Lubiana, già alla fine di aprile si costituì l’Osvobodilna Fronta (O.F.), il primo nucleo di resistenza anti-italiana che accoglieva comunisti sloveni e italiani, ma anche agguerriti nazionalisti, bramosi di riscattare il torto subito dallo stato italiano. Ma la causa resistenziale slava si riversò ben presto anche all’interno dei confini del Regno d’Italia, e più precisamente nell’area giuliana orientale. Qui tra la fine del ’41 e l’inizio del ’42 tornarono a farsi sentire il TIGR e l’Orjuna, coadiuvate dai servizi segreti jugoslavi e inglesi.

La proliferazione delle cellule di resistenza slave sul territorio e il susseguirsi di attentati, imboscate, e atti terroristici a scopo dimostrativo-propagandistico innescò l’inasprimento della macchina repressiva fascista. Nel dicembre del ’41 a Trieste si tenne il cosiddetto “processo Tomazic”[39] per conto del Tribunale speciale per la sicurezza dello stato. Furono processate una sessantina di persone appartenenti alla rete cospirativa insurrezionale slava, cinque delle quali condannate a morte. Questo evento straordinario rappresentò la risposta esemplare al terrorismo sovversivo da parte della contro-propaganda fascista, che cercava così di scoraggiare la lotta armata clandestina nella Venezia Giulia e nei territori annessi.

Nello stesso periodo però, intervenne un’altro fattore di primaria importanza che alterò irrimediabilmente la situazione: l’attacco delle truppe tedesche all’URSS (giugno-dicembre ’41) compromise anche i delicatissimi equilibri nella Jugoslavia occupata, in cui la nascita del germe partigiano non tardò a concretizzarsi:

 

[...] L’attacco tedesco all’Unione Sovietica e la conseguente discesa in campo sul territorio jugoslavo di un fronte di liberazione a guida comunista avviarono rapidamente la spirale di azioni partigiane e operazioni antiguerriglia, che avrebbe trasformato i territori occupati della ex Jugoslavia in un nuovo fronte di guerra.[40]

 

Tra la fine del ’41 e l’inizio del ’42 prese corpo anche la propaganda comunista croata in Istria. Gli agenti del PCC[41] infiltrati da oltre confine rivolsero la loro azione soprattutto verso gli istriani di etnia slava, per istigarli facendo leva sul piano politico-nazionale. Questo esercizio sarebbe stato propedeutico alla successiva diffusione delle tesi annessionistiche e rivoluzionarie proprie del Movimento Popolare di Liberazione (MPL) di Tito. Gli emissari del PCC espletarono azioni di proselitismo ideologico, reclutamento, addestramento e indottrinamento politico delle nuove leve che avrebbero poi infoltito la compagine istriana del movimento. La propaganda politica in Istria ebbe la responsabilità di radicalizzare lo scontro nazionale strumentalizzandolo sul piano ideologico. La tattica prescelta doveva quindi portare all’esasperazione i già tesi rapporti tra la componente italiana e quella slava, facendo coincidere la diversità etnica con quella politica secondo uno schema antitetico: italiano uguale a fascista, ergo nemico del popolo, e slavo uguale a comunista, perciò rappresentativo del popolo. L’obiettivo finale in sostanza era quello di dividere la popolazione civile per poter denigrare e perseguitare l’elemento italiano, fascista o presunto tale. Quanto alla strategia utilizzata dagli agitatori croati, essa si articolava su due livelli: il primo contemplava la formazione di nuovi quadri dirigenti del partito in Istria a cui affidare la propagazione del movimento nell’area giuliana; il secondo consisteva nell’indirizzarli verso la lotta armata antifascista di matrice rivoluzionaria.

E’ piuttosto rilevante appuntare che la resistenza jugoslava non conobbe le sue prime manifestazioni in seno al movimento partigiano di ispirazione rivoluzionaria del maresciallo Tito, bensì nacque sotto il segno dei patrioti serbi, i cetnici, che imbracciarono le armi per opporsi alla durissima occupazione germanica. Questi combattenti erano inquadrati nell’Armata Nazionale jugoslava, presieduta dal generale Mihajlovic. Costituivano pertanto le truppe regolari dell’esercito jugoslavo, filo-monarchico e con uno spiccato accento conservatore. Tuttavia l’inconciliabilità tra il movimento di Tito e quello di Mihajlovic interpose una spietata rivalità tra le due formazioni, che sfociò nello scontro armato interno.

La repressione della guerriglia anti-italiana nei territori annessi causò la morte di diversi partigiani slavi e l’internamento di molti civili nei campi di raccolta come quelli di Gonars e Arbe. Tali strutture erano preposte alla detenzione forzata degli sfollati e dei prigionieri, ma non assunsero mai i connotati dei campi di sterminio nazisti. Inoltre, nel circondario di Lubiana, operava anche la Milizia Volontaria Anti Comunista (MVAC), nelle cui fila militava un cospicuo numero di collaborazionisti sloveni, ostili alla causa rivoluzionaria di Tito e incorporati nell’XI Corpo d’Armata italiano.

Nella primavera del ’42 le truppe italiane e tedesche, avvalendosi dell’appoggio degli ustascia di Pavelic, sferzarono un’imponente offensiva per disinfestare le zone d’occupazione dalle sacche di resistenza partigiane, e da luglio a novembre lo stesso fece l’XI Corpo d’Armata italiano nella sua area di pertinenza slovena. Furono diverse le formazioni anti-comuniste slave che assunsero un atteggiamento non marcatamente belligerante nei confronti delle truppe d’occupazione italiane: i belagardisti sloveni (guardie “bianche”, ossia di ispirazione cattolico-moderata); i domobrani (coscritti sloveni e croati); i cetnici (soprattutto i serbi ortodossi della Bosnia Erzegovina e del Montenegro) che si arruolarono nella MVAC.

Sul finire del 1942, i contingenti italiani coadiuvati dai propri alleati avevano sostanzialmente ripulito il territorio dagli schieramenti partigiani e dalle azioni di guerriglia che avevano dato non poco fastidio nelle zone di occupazione, soprattutto nei pressi di Lubiana, nell’entroterra fiumano, nell’interno della Dalmazia e nel Montenegro. Tuttavia, grazie anche agli aiuti forniti da Churchill al movimento di Tito, l’attività partigiana temporaneamente sospesa riprese con l’inizio del nuovo anno, intensificandosi apprezzabilmente nel periodo primaverile. L’assetto geo-politico e militare dell’area balcanica e della Venezia Giulia era tuttaltro che rassicurante. L’odio etnico scorreva sempre più veloce sui binari della propaganda politica, mentre l’occupazione jugoslava dell’Asse appariva come una mina vagante pronta a deflagrare da un momento all’altro. I risentimenti contro l’elemento occupatore italiano avevano raggiunto quasi il loro apice di ripulsa e di diniego anche nelle fila dei più incerti, grazie ad una linea politica martellante e dirompente dell’MPL. Un incontaminato focolaio di violenze e scontri ideologici stava infervorando l’area giuliano-dalmata: era questa la fotografia scattata nei primi mesi del 1943, questa la pagina scritta dal fascismo italiano. Quel fascismo di confine che nella Venezia Giulia ormai non riusciva più ad arginare efficacemente la spinta insurrezionale slava, sempre più galvanizzata ad avviare una rivoluzione politico-sociale in grado di sovvertire gli equilibri nazionali delle terre alto-adriatiche.

 


2. LA FASE CALDA: CADUTA DEL FASCISMO E FINE DELLA GUERRA

 

2.1 IL PROLOGO DELLA TRAGEDIA

L’anno 1943 segna ineccepibilmente il crollo dello stato italiano fascista sotto ogni punto di vista: istituzionale, politico, militare, territoriale. Una fine che avrà le sue ripercussioni più drammatiche proprio nell’area giuliano-dalmata, che dovrà subire un ritorno di fiamma spaventoso nel suo destino.

Con due sordi rintocchi di campana, rispettivamente il 25 luglio (crollo del fascismo) e l’8 settembre (annuncio armistizio), le sorti della popolazione italiana residente nella Venezia Giulia e nella Dalmazia furono gravemente compromesse: essa infatti, assistette impotente al collasso delle amministrazioni e delle istituzioni locali italiane, che fino a quel momento davano ragion d’essere alla sovranità del Regno d’Italia su questi territori. Quello che accadde fu sconfortante: lo stato italiano nell’area giuliano-dalmata non aveva più né autorità né identità, i suoi punti di riferimento civili, politici, e soprattutto militari si dissolsero, la sua sovranità territoriale scomparve in ogni parvenza generando un vuoto di potere inimmaginabile. La guerra contro gli Alleati era terminata con una sconfitta umiliante: le avventure belliche dei contingenti italiani in Africa e in Russia restituirono soltanto dolore e sgomento all’opinione pubblica nazionale, che tracciava l’itinerario della catastrofe lungo l’asse El Alamein-Nikolajevka passando per la Grecia. Le oltre 500.000 vittime tra caduti, feriti, deportati e dispersi apparivano al popolo italiano un prezzo già abbastanza salato per giustificare la perdita della guerra e del senso dell’orientamento del Paese. E invece no, perchè stavano per iniziare altre guerre con altri nemici: gli ex camerati nazisti occupavano voracemente l’Italia centro-settentrionale e Roma, mentre contemporaneamente sul versante giuliano-dalmata si concretizzava quello che gli istriani ancora oggi chiamano el ribaltòn[42], ovvero l’erompere delle bande partigiane di Tito in Istria, grazie anche al determinante disfacimento dei presidi militari italiani dislocati in tutta l’area alto-adriatica e balcanica.

Il calvario di queste terre inizia a Pisino, nell’entroterra istriano, dove il 13 settembre i vertici del CPL[43] circondariale proclamarono unilateralmente l’annessione dell’intera regione alla “Madrepatria Croazia”; tre giorni più tardi, anche il Fronte Nazionale della Slovenia (che a differenza della Croazia di Pavelic non si era mai costituita in un’entità statuale indipendente) emise un proclama identico per ciò che riguardava il Litorale, in un’atmosfera surreale derivante dallo scompaginamento dello stato italiano. Ciò consentì ai nuovi venuti di operare quasi indisturbati secondo le direttive impartite dai vertici del MPL di Tito. Furono giorni di grande confusione, aggravati dal fatto che in aprile alcuni esponenti del PCI istriano avevano allacciato dei contatti con gli emissari del Partito Comunista Jugoslavo, secondo una linea che riproduceva similmente gli accordi del ’34 e del ’36[44].

Anche i comunisti istriani infatti volevano battersi per la condivisa lotta antifascista, per il diritto all’autodeterminazione dei popoli, per l’internazionalismo e per il sovvertimento dell’ordine politico-sociale preesistente; ma la pregiudiziale di partenza era comunque netta: all’origine, il comunismo italiano in Istria era comunismo puro, in quanto non contemplava nessuna rivendicazione territoriale o espansionistica; il comunismo slavo, nelle sue articolazioni di PCC e KPS[45], nasceva invece da esigenze e obiettivi molto diversi, che annoveravano sia la causa rivoluzionaria di matrice filo-sovietica sia un preciso piano di espansione confinaria nella Venezia Giulia. Insomma, quello di Tito era un movimento che riusciva ad accontentare persino i narodnjaci, corrente sciovinista nelle cui fila militavano dei fanatici sostenitori del nazionalismo croato mescolato ad alcune sfumature di clericalismo. Non si trattava dunque di comunismo, bensì di nazional-comunismo di stampo etnicista, e persino Stalin nel ’48 si pronuncerà a questo riguardo, come vedremo.

Ritornando al settembre del ’43, va detto che in Istria la popolazione civile si ritrovò improvvisamente indifesa di fronte all’arrivo delle bande partigiane comuniste, nonostante al momento della proclamazione dell’armistizio si trovassero nella regione consistenti reparti del Regio esercito, ben armati ed equipaggiati.

Ci fu in effetti una corresponsabilità interna, in questa prima pagina di sciagure istriane; nel momento in cui sarebbe stata provvidenziale un’azione di tutela verso il territorio della regione e la cittadinanza che abitava i vari centri urbani, molti comandi italiani preferirono arrendersi e consegnare le armi ai partigiani slavi, altri addirittura scapparono o peggio ancora decisero di sposare la causa del MPL. Non mancarono tuttavia singolari atti di eroismo, prova a dimostrazione che prendere una decisione razionale in quel momento fosse molto difficile, anche perchè difficile era comprendere quale fosse il futuro di uno stato che si era completamente disintegrato. Mancò la volontà da parte dei comandanti dei vari presidi, di organizzare un piano di opposizione immediata all’occupazione titina della regione istriana, ma prima di tutto venne a mancare un efficiente centro di coordinamento italiano per le operazioni militari nell’area giuliano-dalmata dopo l’armistizio. Quello di Badoglio era poco più che un governo fantoccio, incapace di gestire una situazione così aggravata e reo di non aver saputo fornire ai comandi delle Armate italiane stanziate nella Venezia Giulia e nei Balcani ordini chiari e adeguati.

 

2.2 LE UCCISIONI DEL 1943

Nell’autunno ’43 in Istria si scatenò la prima ondata di violenza, che si concluse con la morte di 500-700 persone, trucidate con un’efferatezza incredibile dai partigiani “liberatori” di Tito. Secondo le direttive dei vertici comunisti jugoslavi, si doveva ripulire tutta l’Istria dai nemici del popolo, da chi avrebbe potuto rappresentare un ostacolo all’instaurazione dei nuovi poteri popolari, e ovviamente dai fascisti che avevano turbato fin troppo l’esistenza delle genti slave nella Venezia Giulia prima e durante la guerra. Tutto ciò accadde tra settembre e ottobre ’43, in un breve periodo che potremmo definire di ordinaria follia, durato circa un mese, in cui prevalse sicuramente l’odio etnico infarcito di ideologia. Ma chi erano questi pericolosi nemici del popolo? Di quali feroci crimini si erano macchiate queste centinaia di persone, per subire una tale spirale di violenza? Su questo punto ha investigato molto bene Guido Rumici, che con ammirabile precisione ha saputo ricostruire l’identità politica, sociale ed economica delle vittime di questa strage:

 

[...] Vennero colpiti tutti coloro che rappresentavano in qualche misura lo Stato Italiano quali i podestà, segretari e messi comunali, maestri elementari e professori, bidelli, impiegati delle poste e delle ferrovie, dipendenti dei comuni e delle altre pubbliche amministrazioni, medici condotti e guardie forestali e giurate. Elevato fu il numero degli arrestati tra i militari, graduati e di truppa, delle Forze Armate, soprattutto tra i Carabinieri e le Guardie di Finanza, che avevano manifestato scarsa simpatia per il Movimento partigiano o che avevano rifiutato di collaborare alla consegna delle armi.

Ci furono, tra i civili, pure operai, pescatori, agricoltori, artigiani, sorveglianti, falegnami e, più spesso, possidenti terrieri, commercianti, professionisti, impiegati e quadri dirigenti, generalmente della media ed alta borghesia cittadina. Non mancarono infine [...] le donne[46].

 

Decisamente esaustivo l’elenco dei perseguitati fornito dall’autore; utile per comprendere che non si trattò di una retata politica, volta ad eseguire un regolamento di conti, in questo caso soltanto contro i fascisti che si erano precedentemente compromessi con il regime. Dovremmo piuttosto riconoscere che l’epurazione messa in opera dai partigiani comunisti jugoslavi fu condotta ad ampio raggio, senza distinguere i nemici reali da quelli fantasiosi, nella fattispecie categorie di persone che non erano coinvolte politicamente, ma che automaticamente lo diventavano agli occhi dei partigiani. Questi apparivano accecati da un odio miscellaneo, frutto di una commistione tra nazionalismo slavo, revanscismo, e sentimenti italofobi. Che poi l’obiettivo fosse innanzitutto politico è altra cosa: i preparativi per la sovversione del sistema politico-economico erano già in corso da almeno due anni nella regione, e miravano sostanzialmente all’instaurazione di un ordine rivoluzionario a guida comunista. Giocoforza che ad essere colpita fosse quella parte di società storicamente egemone nella regione, e vale a dire quel ceto medio-piccolo borghese, emblema dell’italianità adriatica in Istria.

Le persone che furono prelevate dai partigiani di Tito furono condotte in diversi centri di raccolta per i prigionieri: Pisino, Pinguente, Barbana, Arsia e Albona si trasformarono in pochi giorni in improvvisati centri di detenzione, dove ebbe inizio il martirio di molti innocenti, arrestati con accuse fraudolente che erano poco meno di irragionevoli pretesti. In queste strutture, prive delle minime condizioni igieniche e sanitarie si susseguirono interrogatori e processi nella più totale illegalità procedurale, spesso accompagnati da torture e sevizie con cui gli aguzzini davano sfogo alla loro più sadica creatività. Furono prese di mira anche le donne, che subirono spesso riprovevoli violenze dai secondini delle carceri. Gli accusatori erano perlopiù commissari politici, ufficiali e militanti nelle fila del MPL, coadiuvati da una cospicua schiera di delatori che talvolta si vendicavano dei malcapitati per torti personali che esulavano clamorosamente dal contesto di riferimento. Così sedicenti corti d’appello emisero sentenze espiatorie che nella maggior parte dei casi coincidevano con la pena capitale. Furono addirittura eseguite in molte località dell’Istria condanne a morte mai emesse da alcun tribunale, a dimostrazione della loro totale infondatezza.

In un contesto del genere, dominato dall’affermarsi di un giustizialismo sommario a sfondo etnico-politico, “è comunque possibile distinguere alcune logiche di violenza ben precise, che si rivelano collegate [...] a una forte volontà politica di determinare il futuro dell’area giuliana”[47].

Il nodo interpretativo più dolente è rappresentato dalle modalità di uccisione che furono utilizzate dalle bande partigiane di Tito per eliminare i malcapitati. Soventemente si definiscono infoibati tutti gli uccisi per mano dei partigiani comunisti croati e sloveni nelle stragi del ’43 e del ‘45, ma a tale riguardo è opportuno inserire almeno due delucidazioni: prima di tutto tale espressione funge da paradigma della violenza jugoslava perpetrata ai danni degli italiani, soprattutto nella memoria collettiva e nell’opinione pubblica giuliana, poiché soltanto una parte degli uccisi trovò la morte nelle foibe[48]. Molte altre persone furono deportate e scomparvero, altre ancora giustiziate, lapidate o trucidate violentemente. “I loro corpi vennero sepolti nelle fosse comuni, nelle cave e nei pozzi artesiani e minerari. Altre furono gettate in mare e vennero ritrovate solo in pochi casi”[49]. Da ciò si evince chiaramente che le foibe costituivano sì una modalità di esecuzione delle uccisioni, ma accanto a questa pratica ve ne erano altre, e certamente non meno cruente. Ecco perchè il termine infoibati può risultare in ultima analisi omologante, il cui significato è più allusivo che connotativo. Più corretto sarebbe allora parlare di stragi o di eccidi per riferirsi alle ondate di violenze titine verificatesi durante quella fase della crisi giuliano-dalmata. In secondo luogo, può sembrare riduttivo parlare di questo fenomeno riferendosi solamente all’autunno del ’43 e alla primavera del ’45, dal momento che la scia di violenze innescata dall’occupazione jugoslava si è protratta nel lungo dopoguerra giuliano, culminando in un esodo di massa che terminò soltanto nella seconda metà degli anni Cinquanta. Non vanno poi dimenticati i numerosi campi di concentramento dislocati nell’interno dell’ex Jugoslavia[50], dove furono deportate migliaia di persone tra cui militari e perseguitati politici, in gran parte italiani: in molti morirono a causa dei maltrattamenti e delle violenze subite dai carcerieri jugoslavi, altri perirono di inedia, altri ancora per aver contratto malattie o epidemie. Alcuni fortunatamente poterono tornare a casa dopo lunghi periodi di detenzione forzata, ma un numero consistente di persone andò a infoltire il lungo elenco degli scomparsi, ovvero coloro di cui non si seppe più nulla.

Trattando poi il caso specifico delle foibe istriane dell’autunno del ’43, bisogna rilevare che si trattò di vere e proprie stragi in cui persero la vita soprattutto innocenti. Il fatto che poi fossero state giustiziate in poche settimane centinaia e centinaia di persone in maniera così brutale la dice lunga sull’attendibilità degli organi preposti al giudizio e alla condanna dei prigionieri. Quanto all’esecuzione dei massacri, pur non essendo questa la sede più idonea per la trattazione dell’argomento, si ritiene opportuno fornire alcune coordinate essenziali che possano tracciare in modo irreprensibile il compendio delle violenze di quelle settimane istriane. Dopo le sentenze di condanna a morte espresse dai “tribunali del popolo”, le vittime (lo erano già dopo le torture e i pestaggi che subivano nelle carceri) venivano legate con del filo di ferri ai polsi, stretto a tal punto da incarnarsi sulla pelle del malcapitato. Quasi sempre nel cuore della notte, per evitare l’eventuale indiscrezione di scomodi testimoni oculari, la massa umana veniva condotta sul luogo della mattanza, nella fattispecie cave di bauxite, pozzi scavati nelle miniere, grotte marine, e immancabilmente nelle voragini rocciose tristemente note come foibe; il tragitto era effettuato con delle corriere, “le corriere della morte” appunto, oppure a piedi, sotto strettissima sorveglianza armata dei drusi[51]; durante gli spostamenti i condannati venivano nuovamente insultati, picchiati e umiliati, in un continuo stillicidio di violenza fisica e psicologica che riduceva le vittime allo sfinimento. Se qualcuno cadeva, veniva subito persuaso a rialzarsi con il calcio del fucile dal druse più vicino, tra bestemmie e urla furibonde. Alle donne era riservato lo stesso trattamento, anzi forse peggiore, giacché diversi partigiani titini si divertivano a passare il loro tempo libero violentandole e infliggendo su di esse le torture più indicibili nell’anticamera della morte[52]. Una volta arrivati a destinazione, i prigionieri venivano depredati anche degli ultimi indumenti che indossavano e sospinti sull’orlo della voragine nudi, prima di essere fucilati. L’ingegno dei carnefici arrivava ai limiti dell’assurdo: talvolta solevano legare i condannati due a due con il filo di ferro, per poi sparare un unico colpo su uno dei due sventurati, il quale trascinava l’altro ancora vivo nel vuoto. A lavoro ultimato si procedeva all’occultamento dei cadaveri facendo esplodere delle granate sulle pareti dei precipizi, in modo tale da causare piccole frane e cedimenti che avrebbero ricoperto in modo rudimentale l’accozzaglia umana in fondo al dirupo.

Sono numerose le foibe istriane disseminate nella regione, ma tra quelle più importanti ricordiamo quelle di Cregli, Vines, Barbana, Arsia, Gimino, Antignana, Gallignana e S. Domenico di Visinada, proprio perchè da queste voragini furono riesumate parecchie salme di uccisi, per alcune delle quali è stata resa possibile anche l’identificazione[53].

Infine, non va trascurato che nello stesso periodo che precedette la venuta dei tedeschi non mancarono episodi simili neanche nelle altre zone istro-quarnerine e dalmate: “massacri di varia entità [...] avvennero a Traù, Cùrzola, Lèsina, Eso, Lissa, Castelvecchio, Castel Vitturi, Zirona, Castelnuovo, Veglia ed Arbe”[54]. A Cherso i partigiani razziarono le abitazioni dei residenti, prelevarono una dozzina di persone  e ne fucilarono quattro, tutti italiani; non ancora sazi, mobilitarono i giovani dell’isola per arruolarli nell’Esercito Popolare di Liberazione jugoslavo (EPLJ). A Lussino gli uomini di Tito sterminarono un’intera guarnigione di cetnici serbi che stava transitando nell’isola, e con loro anche donne e bambini. Anche qui non mancarono le retate e le devastazioni ai danni della popolazione locale, seguite dalle coscrizioni obbligatorie di uomini e ragazzi nelle fila dell’EPLJ. Particolarmente gravi furono i fatti di Spalato, dove in solo due settimane furono compiuti arresti a tappeto tra la popolazione italiana residente nella città dalmata. I partigiani slavi fucilarono più di cento persone i cui cadaveri furono occultati in fosse comuni all’interno del cimitero cittadino. Paradossalmente, soltanto con la venuta dei tedeschi, si poté metter fine a questi sciagurati eccidi, che falciarono anche molti slavi del posto accusati di collaborazionismo.

Questa era la situazione nell’area giuliano-dalmata nella fase che seguì all’8 settembre 1943, queste le conseguenze disastrose di una lotta politica per il potere suggestionata dal parossismo nazionalista e rivoluzionario dei nuovi venuti, questa l’immagine sconcertante delle terre alto-adriatiche prima dell’arrivo delle truppe tedesche, che, come vedremo, non saranno in grado di stanare fino in fondo le sacche della resistenza titina e innescheranno un’ulteriore recrudescenza negli scontri di ordine etnico-politico.

 

2.3 LA PARENTESI NAZISTA

L’8 settembre cambiò radicalmente gli equilibri dei fronti e gli assetti bellici dell’area giuliano-dalmata. Mentre le bande partigiane comuniste di Tito si affrettavano ad approfittare del vuoto di potere generato dalla dissoluzione dell’apparato statale italiano, Berlino cominciava a pianificare una colossale operazione che sarebbe iniziata tra il 25 e il 27 settembre 1943: l’operazione “Wolkenbruch”, che significa “nubifragio”. L’obiettivo era quello di ripulire le zone della Venezia Giulia e della Dalmazia che erano cadute nelle mani dei partigiani slavi, e per farlo i tedeschi impiegarono un consistente sistema militare comprendente le divisioni corazzate SS “Prinz Eugen” e “Adolf Hitler”. Nel frattempo Mussolini, dopo essere stato liberato dai tedeschi sul Gran Sasso, aveva composto il suo nuovo governo fascista repubblicano alla guida della Repubblica Sociale Italiana (RSI).

Le truppe germaniche riuscirono a scompaginare agevolmente l’Esercito Popolare di Liberazione di Tito, che in Istria poteva disporre di circa diecimila partigiani, nettamente inferiori all’efficientissima macchina da guerra tedesca, che dispiegò nell’area giuliano-dalmata una forza compatta di trentacinquemila soldati molto più esperti e meglio equipaggiati. L’operazione si concluse nel giro di tre settimane circa, e nell’area giuliana fu creata l’Adriatisches Kustenland, ovvero la “Zona d’Operazioni Litorale Adriatico” (O.Z.A.K. l’acronimo tedesco). Tale territorio, la cui costituzione venne ufficializzata il 15 ottobre 1943, comprendeva le province italiane di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana. In tale vasta area la sovranità della RSI fu sospesa, mentre si insediò la massima autorità civile con la nomina del supremo commissario Reiner. Era infatti implicito che i tedeschi avrebbero voluto estendere su tutta questa zona la sovranità del Reich germanico, considerata la sua importanza strategica e geo-politica nel contesto europeo.

In Istria i tedeschi penetrarono agevolmente, effettuando anche pesanti bombardamenti aerei e terrestri che causarono ingenti perdite tra i partigiani di Tito. Neanche i civili furono risparmiati, spesso vittime innocenti delle spietate rappresaglie naziste, che avevano lo scopo di vendicare le imboscate e gli agguati tesi alle colonne tedesche da parte dei ribelli prima della loro effettiva ritirata. Le milizie partigiane sconfitte si ritirarono dalla regione sciogliendo i nuclei operativi e trovando rifugio nelle zone montuose lontane dal teatro delle operazioni germaniche. Nell’ottobre ’43 quindi, si scatenò una poderosa azione di rastrellamento del territorio giuliano a cui seguì una feroce repressione che mieté numerose vittime all’interno della popolazione istriana, sia italiana che slava. Paradossalmente però, l’arrivo dei tedeschi nell’area giuliano-dalmata significò per molte persone la fine di un’agonia, nonché il ripristino di una soglia minima di legalità e di ordine sociale. Le barbarie titine che avevano scosso la regione dopo l’armistizio italiano restituirono alle genti che abitavano quelle terre morte e sofferenze inimmaginabili; molte persone innocenti erano state prelevate dai partigiani e fatte sparire con cinica disinvoltura dopo i processi farsa improvvisati nelle carceri. Molti si chiedevano come potesse essere stata così devastante e cruenta quella che i nuovi venuti chiamavano “volontà del popolo”; quale popolo misterioso l’avesse progettata e realizzata con una tale meschinità e disumana perversione. Furono soprattutto lo strazio e l’immagine di mostruosità che i titini lasciarono tra popolazione civile a far credere alla gente che i tedeschi, in fondo rappresentassero il male minore, talvolta addirittura i liberatori, come accadde in Dalmazia, a Cherso e a Lussino, dove la furia partigiana si era abbattuta con un impeto inaudito sugli abitanti di queste zone.

Durante l’occupazione tedesca dell’area giuliano-dalmata un grande apporto fu dato all’industria locale. A parte la classe operaia però, tutto il resto della popolazione fu soggetta al reclutamento coatto per svolgere il servizio obbligatorio del lavoro, cosicché fosse possibile boicottare tenacemente l’arruolamento delle masse nelle fila dei partigiani comunisti. Come unica alternativa ai lavori forzati c’era la deportazione nei campi di concentramento nazisti, e ciò spinse molte persone a prendere decisioni disperate, non ultima quella di aderire alla causa del MPL.

Per quanto concerne l’annientamento dell’ondata rivoluzionaria che aveva travolto l’area giuliano-dalmata in quel turbolento scorcio autunnale, furono allestiti appositi centri di repressione massiva per prigionieri politici e militanti partigiani. Oltre a quello di Palmanova, dove furono torturate e uccise molte persone nei locali della caserma “Piave”, va menzionata la Risiera di San Sabba di Trieste. In questa struttura furono eseguite uccisioni sommarie e gasazioni, ma l’aspetto che la rende ancora più orrida era il funzionamento, al suo interno, di un forno crematorio. Alla Risiera trovarono la morte circa cinquemila persone; fu adibita anche a centro di smistamento per gli ebrei destinati alla deportazione in Germania.

Nel complesso la politica d’occupazione dei tedeschi “oscillò tra ammiccamento e repressione”[55], poiché si prefiggeva l’obiettivo strategico di aizzare le varie componenti nazionali tra di loro, allo scopo di indebolirle ulteriormente e creare in esse la convinzione circa la necessaria presenza tedesca in tutta l’area giuliano-dalmata. Non è un caso che anche le operazioni militari delle unità della RSI furono spesso osteggiate dai comandi germanici, perché ritenute elemento di disturbo per l’indiscussa e indiscutibile leadership tedesca nella Zona.

I tedeschi commisero inoltre un grave errore operativo durante la loro occupazione: quello di liberare dalle sacche di resistenza partigiane soltanto le principali vie di comunicazione e i centri urbani, senza avvedersi della pericolosità di talune aree montuose defilate e apparentemente ininfluenti: invece fu proprio in questi nascondigli che i partigiani poterono riorganizzarsi e ottenere il controllo di territori abbastanza estesi, riallacciando così i nodi principali del tessuto cospirativo slavo di ispirazione rivoluzionaria.

Intanto, il 29 novembre 1943 il Consiglio Antifascista Popolare di Liberazione della Jugoslavia (AVNOJ) si riunì per sanzionare la piena legittimità dei proclami di annessione dell’Istria e del Litorale alla futura Jugoslavia; anche in questa occasione prevalse l’opzione unilaterale, senza che fosse sostenuta alcuna negoziazione con la controparte, individuabile negli organismi rappresentativi della Resistenza italiana.

Nel 1944 i tedeschi continuarono a presidiare l’area giuliano-dalmata con imponenti guarnigioni stanziate sul territorio d’occupazione, continuando con una feroce politica di repressione incondizionata che conobbe uno dei suoi momenti più tragici allorché il 30 aprile 269 persone di etnia croata furono uccise per rappresaglia dalle truppe naziste presso Lipa, in provincia di Fiume.

Ciò che spezzò l’equilibrio di forza imposto dai tedeschi nella regione fu il sopraggiungere dell’avanzata sovietica alla fine dell’estate: con una travolgente offensiva l’Armata Rossa riuscì a penetrare in Romania e Bulgaria, ottenendone il pieno controllo all’inizio di ottobre. L’offensiva russa generò una reazione di ampia portata da parte tedesca, e mentre i soldati di Stalin avanzano rapidamente, il Reich ordinò una massiccia ritirata dai Balcani che coinvolse non meno di settecentomila uomini, che ripiegarono velocemente verso nord, lasciando completamente sguarnita la costa dalmata, l’Albania e la Grecia. Non appena i tedeschi si apprestarono ad abbandonare i loro presidi, nelle città e nei porti cominciarono a confluire unità partigiane slave che assunsero ben presto il controllo della situazione. Belgrado fu liberata il 18 ottobre, mentre a Zara i partigiani di Tito irruppero il 31. Si ripeté lo stesso copione che aveva caratterizzato le scorribande partigiane in Istria l’anno precedente: ondate di arresti, confische a tappeto, arruolamenti coatti nell’EPLJ, imprigionamenti e deportazioni, colpirono una città già martoriata vergognosamente da un anno di bombardamenti alleati; molti suoi cittadini infatti l’avevano già abbandonata via mare per mettersi in salvo. Ma non mancarono altre uccisioni: annegamenti, fucilazioni e infoibamenti furono perpetrati ai danni di circa duecento persone, soprattutto individui che facevano parte delle forze dell’ordine italiane rimaste in città dopo lo sgombero dei tedeschi[56].

A questo punto la Venezia Giulia andava assumendo un ruolo di vitale importanza per il Reich: “l’antemurale della nuova linea strategica difensiva germanica”[57] avrebbe così costituito la prima linea nell’Alto Adriatico. Fu intensificato il dispiegamento di unità militari in tutta la regione, con una “poderosa linea di difesa che coprisse [...] l’intero golfo di Trieste, l’Istria ed il Quarnero”[58]. Il vecchio confine italo-slavo divenne così la linea fortificata “Ingrid”, ovvero la porta occidentale dei Balcani.

Intanto le sorti del conflitto mondiale mutavano irreversibilmente: sul fronte orientale l’offensiva sovietica straripò oltre le linee ungheresi, e alla fine di gennaio 1945 l’Armata Rossa ebbe completato l’occupazione dell’intera Ungheria.

 

2.4 L’EPILOGO DELLA TRAGEDIA

Dopo l’imponente avanzata sovietica verso l’Europa centrale e il conseguente arretramento delle truppe germaniche dai Balcani, si aprì una fase decisiva per le sorti della Venezia Giulia e del II conflitto mondiale. In un contesto diplomatico dai contorni molto sfuocati, l’assetto geo-politico dell’Alto Adriatico divenne oggetto di estenuanti trattative che subirono l’influenza del nascente bipolarismo internazionale.

Dopo alcuni incontri preliminari tenutisi nell’agosto del ’44 in Italia e nel febbraio del ’45 a Belgrado tra Tito, Churchill e il Maresciallo Alexander, capo dell’VIII Armata britannica, tra Alleati e jugoslavi non si convenne di fatto ad una linea comune circa l’occupazione della Venezia Giulia, da effettuarsi alla fine del conflitto per ripulire l’ultimo baluardo della strenua resistenza nazista nella regione.

Mentre per gli americani tale operazione assumeva un significato meramente strategico, ovvero la possibilità di aprirsi i varchi necessari per sferzare l’offensiva verso l’Austria, per la nascente Jugoslavia comunista l’occupazione della città di Trieste equivaleva ad un duplice successo, sul piano politico e su quello militare. Così mentre i vertici alleati programmarono l’istituzione del GMA in tutta la regione più la città di Fiume e le isole del Quarnaro, da parte jugoslava si predisponeva contemporaneamente un piano operativo che affidava alla Quarta Armata del generale Drapsin il compito di raggiungere Trieste in anticipo rispetto agli Alleati. Tutti gli sforzi del MPL si sarebbero dovuti rettificare in funzione dell’occupazione dell’intera area giuliana, propedeutica alla successiva annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia di Tito. L’importanza politica di tale operazione per gli jugoslavi posticipò addirittura la liberazione di Zagabria e Lubiana, e assunse una rilevanza assai maggiore rispetto a quella che poteva avere per gli Alleati. Anche per questo la storiografia contemporanea suole ricordare tale evento con l’espressione “La corsa per Trieste”, entrata a far parte a pieno titolo della storia giuliana del Novecento.

Così il 17 aprile la Quarta Armata jugoslava inaugurò l’operazione “Trieste”, mentre i partigiani comunisti occupavano l’isola di Veglia. Il 20 aprile caddero Cherso e Lussino, mentre tra il 24 e il 25 le truppe slave provenienti dalle isole quarnerine sbarcarono nella costa orientale dell’Istria; i partigiani del MPL occuparono poi Albona e Arsia il giorno 28, mentre le unità jugoslave si accingevano a puntare su Trieste e Gorizia. A questo punto però, nel capoluogo giuliano insorsero i combattenti del Corpo Volontari della Libertà (CVL), emanazione armata del CLN, che riuscì ad assumere il controllo di alcuni punti strategici sgominando le truppe germaniche presenti in città; queste si asserragliarono in alcuni edifici del centro, organizzando una disperata resistenza in attesa della venuta degli Alleati, ai quali i tedeschi speravano di consegnare la resa ufficiale. Il 29 le truppe jugoslave sopraggiunsero nei dintorni di Trieste, ma incontrarono una solida opposizione da parte di unità germaniche; anche il 30 seguirono violenti scontri a Villa Opicina tra gli uomini del gen. Drapsin e i tedeschi, impegnati nell’ultima strenua resistenza armata. Ormai gli eventi avevano assunto una direzione prevedibile, e il 1° maggio 1945 le truppe jugoslave fecero il loro ingresso a Trieste, Monfalcone e Gorizia, anticipando di un giorno la venuta delle truppe neozelandesi del generale Freyberg. La corsa per Trieste terminava, e i “liberatori”, perchè è così che amavano presentarsi alla popolazione civile, iniziarono con uno zelo asfissiante la loro politica repressiva nei confronti dei “nemici del popolo” e dei “reazionari”, in cui rientravano, secondo un’assurda logica di potere, anche le persone che fino al giorno prima avevano combattuto nelle fila del CVL triestino per liberare Trieste dai nazisti. Era l’inizio di una stagione indimenticabile nella memoria e nella storia della città, ai più nota come “la primavera di Trieste”.

 

2.5 GLI ECCIDI DELLA PRIMAVERA DEL ‘45

Tanto per cominciare, è interessante rilevare quale fu il biglietto da visita con cui i “liberatori jugoslavi” si presentarono a Trieste dopo aver ricevuto le apposite istruzioni da Lubiana:

 

Tutte le unità non tedesche e l’intero apparato amministrativo e di polizia a Trieste vanno considerati nemici e occupatori. [...] Tutti gli elementi italiani di questo tipo possono soltanto consegnarsi e capitolare all’armata jugoslava di liberazione. Tutto ciò che agisca contro di essa è esercito di occupazione. [...] Smascherate ogni insurrezione che non si fondi sul ruolo guida della Jugoslavia di Tito contro l’occupatore nel Litorale, sul Comando di città, sulla cooperazione fra italiani e sloveni, consideratela un sostegno all’occupatore e un inizio di guerra civile[59].

 

Anche questa volta il messaggio è ineccepibile, e dalle parole si passò ai fatti. Nei primi giorni di maggio del ’45 le unità jugoslave entrate a Trieste e nel resto della regione, disarmarono e internarono tutti i militari catturati, destinati a passare il resto dei loro giorni nei già citati campi di concentramento jugoslavi, in spregio a ogni norma del diritto internazionale vigente. Oltre alle deportazioni si susseguirono centinaia di esecuzioni sommarie comminate ai militi nazisti e repubblichini, basate non tanto su accertate responsabilità belliche, bensì sulla colpa collettiva che veniva loro attribuita per aver servito eserciti invisi a quello jugoslavo. Analoghe le procedure di liquidazione che riguardarono le forze di polizia della città, ritenute colpevoli perchè facenti parte del sistema repressivo nazifascista, non importava nulla che i suoi componenti avessero rischiato la vita durante la guerra per salvaguardare l’incolumità della popolazione locale e per tutelare l’ordine pubblico.

Sempre in nome della “colpa collettiva” attribuita a tutte le forze armate esistenti sul territorio, furono deportati numerosi agenti della Guardia di Finanza e della Guardia civica di Trieste, le stesse persone che avevano aderito all’insurrezione contro i tedeschi proclamata dal CLN triestino per mezzo del suo braccio armato, il CVL appunto. Il fanatismo politico dei quadri comunisti sloveni portò persino all’arresto di persone che avevano militato durante la Resistenza all’interno di brigate partigiane italiane alle dipendenze del CLN triestino. Tale atteggiamento ha del paradossale soltanto in apparenza, giacché i dirigenti comunisti sloveni si accanirono ancor più efferatamente contro tutte le organizzazioni politiche e militari di ispirazione antifascista e di sentimenti italiani; con la loro partecipazione alla lotta armata contro il nazifascismo esse costituivano un concreto elemento di delegittimazione e di disturbo al MPL, intento in quel frangente ad accattivarsi l’opinione pubblica per realizzare il suo velleitario progetto annessionistico nella Venezia Giulia. Ne fornisce prova esemplare il fatto che sia a Gorizia che a Trieste gli esponenti del MPL si misero a perseguitare cinicamente i membri dei CLN cittadini, come se fossero sanguinari criminali di guerra macchiatisi di chissà quali atrocità durante il conflitto. A Fiume le cose andarono per certi versi ancora peggio: oltre ai membri del CLN locale furono tratti in arresto e fatti sparire i componenti del movimento autonomista zanelliano, che come abbiamo visto accomunava la maggior parte della cittadinanza fiumana.

Mentre la Quarta Armata jugoslava dispensava arresti, deportazioni e liquidazioni per tutte le rappresentanze militari e di polizia italiane presenti sul territorio giuliano, vi era un altro organo preposto a rastrellare con precisione chirurgica la società civile: l’OZNA[60]. Si trattava di un’efficientissima organizzazione di polizia politica segreta che poteva contare sulla collaborazione di delatori italiani e slavi, convinti seguaci del progetto rivoluzionario titino. Questi avevano il compito di stilare esaustive liste di “nemici del popolo”, “reazionari” e “fascisti”, ovvero di presunti tali; i confidenti politici lavorarono con dedizione per assicurare a talune categorie di persone un destino drammatico. L’OZNA ebbe così gioco facile per spiegare la propria macchina repressiva contro tutte quelle persone che non si riconoscevano nel MPL, o che non ne condividevano i metodi: furono tutte vittime ignare di una colossale epurazione politica. Coadiuvata da una milizia paramilitare denominata “Difesa popolare”, l’OZNA estese su tutto il territorio giuliano ondate di persecuzione che raggiunsero livelli paranoici, come traspare da questa testimonianza:

 

Nella tarda serata di ieri gli uomini di Tito, incoraggiati dall’inerzia degli Alleati, espellevano brutalmente il Cln dalla Prefettura, che restava così nelle loro mani. E tutti gli edifici pubblici [...] sono ormai occupati e vigilati, con le mitragliatrici a ogni entrata, dagli jugoslavi; [...] Da ogni parte vengono segnalati arresti di italiani, più che di fascisti, e le nostre bandiere vengono strappate dalle finestre[61].

 

Furono dunque prese di mira tutte le persone che simpatizzavano o militavano per forze politiche non comuniste, comprese quelle di ispirazione cristiano-democratica. Chiunque avesse in qualche modo lasciato trapelare la propria renitenza politica al cospetto degli obiettivi rivoluzionari ed espansionistici dei vertici jugoslavi, era passibile di accusa di collaborazionismo; compito dell’OZNA era quello di assicurarlo alla “giustizia popolare”, che avrebbe poi provveduto ad infliggere pene che andavano dalla perdita dei diritti civili e politici (e continuiamo a chiederci quali potessero essere [N.d.A.] alla pena capitale, comminata con inverosimile incoscienza giudiziaria. L’apparato repressivo non fece sconti nemmeno a chi aveva un ruolo rilevante nell’economia o incarichi di alto rango nell’amministrazione pubblica: l’ordine era tassativamente quello di “epurare subito, ma non sulla base della nazionalità, bensì su quella del fascismo”, come disse il leader comunista sloveno Edvard Kardelj. A proposito di quest’ordine, dispensato in pompa magna a tutti i quadri comunisti slavi che avevano il compito di implementare l’epurazione nella Venezia Giulia, vorremmo aggiungere due considerazioni: furono arrestati e giustiziati con la stessa foga rivoluzionaria anche sloveni e croati, spesso rei soltanto di non abbracciare le tesi comuniste del nascente stato jugoslavo; tuttavia nell’affermazione di Kardelj si palesa irreprensibilmente un’ulteriore deduzione di ordine ideologico: se andavano tolti di mezzo soltanto i fascisti, è bene ricordare che il termine fascista, per l’uso perverso che ne facevano i “poteri popolari” in quel periodo, abbracciava larghissime fasce della popolazione giuliana, ovvero tutti gli italiani che avevano maturato una coscienza antifascista accompagnata dalla spontanea (e aggiungeremmo legittimissima [N.d.A.]) volontà di essere ricompresi nella stessa compagine statuale antebellica. Al cospetto di questa situazione, le autorità jugoslave si preoccuparono di attuare una repressione durissima, che se da una parte aveva lo scopo di eliminare tutti i potenziali avversari politici del MPL, dall’altra finì inevitabilmente per falcidiare la componente italiana in tutte le sue espressioni tangibili nella regione: amministrativa, civica, politica, economica, sociale, culturale e storica. Da ciò si può evincere senza vizio congetturale che quella attuata dagli jugoslavi nella Venezia Giulia fu un’epurazione politica con aggravanti pregiudiziali di ordine nazionale (anti-italiano). Il fatto che tali aggravanti derivassero anche dal clima di “resa dei conti” alimentato dal regime fascista durante il Ventennio, non avrebbe dovuto sfociare nella commistione di rancori e odi personali, mescolati a quell’ideologia rivoluzionaria che voleva capovolgere gli equilibri sociali della regione con l‘uso indiscriminato della violenza. In linea con questo ragionamento si colloca l’eliminazione di alcune migliaia di persone che furono barbaramente trucidate nelle foibe del Carso triestino e del Goriziano: Basovizza, abisso “Plutone”, Monte Nero, Tarnova e Gargaro sono le voragini carsiche che furono maggiormente utilizzate per liquidare un elevato numero di civili e militari, arrestati dalle autorità jugoslave a Trieste e a Gorizia durante l’occupazione titina delle due città giuliane. Nella foiba di Basovizza, che in realtà è un pozzo minerario, trovarono la morte centinaia di persone, tra cui uomini delle forze dell’ordine (Questurini, finanzieri e carabinieri), prelevate a Trieste nei primi giorni di maggio del ’45 dai reparti della IV Armata jugoslava.

L’OZNA e i “poteri popolari” ebbero il vantaggio di agire indisturbati: in quel momento non esisteva nel territorio giuliano un’autorità superpartes in grado di garantire la legalità procedurale degli eventi. Tale ruolo avrebbero potuto svolgerlo gli Alleati, che arrivarono soltanto ventiquattro ore dopo sia a Trieste che a Gorizia; purtroppo però, essi furono investiti da un immobilismo operativo che ancora oggi lascia molti “se” e molti “ma” sulla crisi giuliana del ’45. Un dato significativo: nelle settimane in cui gli jugoslavi occuparono tutta la Venezia Giulia furono arrestate circa diecimila persone solo tra Trieste e il Goriziano. L’ondata di violenze perpetrate ai danni dei civili seminò il terrore tra la popolazione giuliana, in maggioranza tra quella di sentimenti italiani. Ma ciò non suggerì alcuna riflessione ai vertici dei partiti comunisti sloveno e croato. Questi anzi corroborarono il proprio radicalismo ideologico con l’esigenza prioritaria di assumere il controllo territoriale, anche a costo di dover eliminare migliaia di persone, e così fu fatto.

Non bisogna dimenticare che l’ondata repressiva jugoslava di quelle settimane di maggio-giugno ’45 si abbatté su tutta la Venezia Giulia, Istria compresa: questa regione era stata appositamente aggirata dalle truppe jugoslave impegnate nella corsa per Trieste, e quindi venne occupata qualche giorno dopo. Il 5 maggio gli jugoslavi fecero il loro ingresso a Pola, e iniziarono a setacciare le ultime strenue resistenze delle forze italo-tedesche[62]. Nel frattempo entrava in funzione anche nel capoluogo istriano l’impianto repressivo poliziesco dell’OZNA, che riuscì a infiltrare tutti i settori della vita cittadina avvalendosi della connivenza fornita da alcuni informatori locali. Iniziarono le inquisizioni arbitrarie e le retate di massa ai danni dei polesani, completamente inermi al cospetto dei nuovi “poteri popolari”. Dalla città sparirono diverse centinaia di persone: fermate; interrogate con i “metodi persuasivi” degli emissari politici comunisti; accusate mendacemente con infamie di ogni tipo; deportate; processate e condannate da organi giudiziari “amatoriali” che si pronunciavano in nome del “popolo”; infine destinate a trascorrere lunghi periodi di prigionia o di lavori forzati nei campi-lager della Jugoslavia, dove si moriva di fame, di freddo, di malattie e infezioni che martoriavano i malcapitati giorno dopo giorno, senza le minime condizioni igienico-sanitarie per poter sopravvivere. Ovviamente il denominatore comune di tutte queste angherie era la degenerata violenza con cui i “drusi” si divertivano a sopraffare i prigionieri, portandoli spesso allo sfinimento psico-fisico. Tutto ciò appare chiaro anche dalla seguente testimonianza: “Si riempirono allora a Pola le carceri di Via Martiri di nuovi politici: centinaia di cittadini polesani rei di essere italiani, picchiati a sangue, legati col filo di ferro ai polsi, stipati come animali nelle celle”[63]. Avvennero anche alcuni infoibamenti ma in queste circostanze le notizie giunsero sempre molto in ritardo e in maniera confusionale. Il clima di proliferazione della violenza gettò nello sconforto i polesani, che mai prima d’ora avevano conosciuto un tale castigo come quello inferto dai nuovi poteri. Alle retate politiche seguirono sontuose manifestazioni di propaganda inscenate dai vertici comunisti, come racconta nel proprio vissuto di quei tempi cupi il sig. Cionci:

 

Cominciarono i festeggiamenti e i cortei, con gente mobilitata nel circondario, fatta affluire con camion e ogni altro mezzo di trasporto. Sfilavano [...] per la città con in una mano una borsa con le provviste per la giornata e nell’altra una bandiera con la stella rossa. Ai Giardini era stato eretto una specie di arco di trionfo, sovrastato da una stella rossa [...] L’UAIS, l’Unione Antifascista Italo-Slava, [...] poteva contare, in ogni momento, su un consistente numero di attivisti filoslavi a disposizione. Ogni occasione era buona per dimostrare efficienza e capacità organizzativa; si puntava molto sull’unità della classe lavoratrice, con il proposito di convogliare al più presto tutti i lavoratori nei “Sindacati Unici”, di marcato orientamento filoslavo.

 

Da queste righe emerge la laboriosità del progetto annessionistico jugoslavo a Pola, dove per realizzarlo erano necessarie due cose: epurazioni a tappeto e soprattutto un’ingente campagna di propaganda pro-Jugoslavia che potesse in qualche modo “rimpicciolire” l’indiscussa italianità del capoluogo istriano. Ovviamente la stessa ondata repressiva colpì anche le altre località istriane sparse nella penisola, in cui si perpetuarono le stesse violenze con pari metodi e strategie.

Per Pola, Gorizia e Trieste la fine di questa ordinaria illegalità sarebbe arrivata soltanto il 12 giugno 1945 con l’entrata in vigore dell’Accordo di Belgrado[64], mentre per il resto dell’area giuliana la crisi si sarebbe protratta ancora per molto, assumendo connotazioni sempre più tragiche per la popolazione italiana ivi residente. C’è poi da aggiungere che la sesta clausola dell’Accordo di Belgrado fu clamorosamente snobbata dalle autorità jugoslave: prevedeva l’obbligo della liberazione di tutte le persone che erano state arrestate e deportate e la restituzione di tutte le proprietà arbitrariamente sottratte durante l’occupazione della Venezia Giulia. Il governo jugoslavo si dichiarò completamente estraneo da questi fatti, compiuti “soltanto nei riguardi di fascisti e criminali di guerra”. In altri termini si scagionò unilateralmente dalle accuse attribuitegli, confermando l’evidente velleità con cui tentava di affermarsi al cospetto degli Alleati.

 

2.6 IL PROGETTO JUGOSLAVO NELLA VENEZIA GIULIA

Ai proclami unilaterali di annessione dell’Istria e del Litorale alla futura compagine statuale jugoslava del ‘43, seguirono ondate di arresti arbitrari perpetrati ai danni della popolazione civile giuliana e dalmata, che faticava a capire come potessero essere chiamati “liberatori” i partigiani di Tito. Questi si preoccuparono di instaurare fatiscenti “poteri popolari” e sedicenti “Tribunali del popolo” con lo scopo di processare ed eliminare i cosiddetti “nemici del popolo”. Ed è proprio qui che subentra la discriminante nazionale. Infatti, mentre venivano perseguitati anche sloveni e croati con l’accusa di collaborazionismo, agli italiani antifascisti bastava professare i propri sentimenti nazionali, legati alla Madrepatria, per essere bollati come reazionari, e quindi come “nemici del popolo”, poiché veniva a mancare quel requisito fondamentale che era la condivisione “fraterna” delle tesi rivoluzionarie jugoslave. In sintesi, fascista non era soltanto chi aveva militato attivamente negli anni del regime, bensì chi osava mettere in discussione la bontà del progetto di Tito. Sul piano politico ne consegue che l’intento era quello di trasformare l’identità nazionale italiana in connotato ideologico negativo, ovvero in grado di imputare capi d’accusa biasimevoli su larghe fasce di popolazione del tutto estranee a tali sottigliezze strumentali: non passava nessuna differenza tra una camicia nera e un antifascista moderato.

Secondo le tesi di Tito e del suo movimento, nemici del popolo erano da considerarsi coloro che non aderivano con spiccato entusiasmo alla venuta dei nuovi poteri, basati su due principi fondamentali: l’annessione integrale della Venezia Giulia alla nascente Jugoslavia comunista (mentre si dava già per assodata la sovranità statuale su Fiume e sul Quarnaro, sulla Dalmazia e su tutte le sue isole [N.d.A.]) doveva combinarsi all’edificazione del socialismo all’interno dei suoi nuovi confini territoriali, che stando alle prerogative del maresciallo e dei suoi fiancheggiatori si sarebbero dovuti protendere sino alla linea di demarcazione del fiume Tagliamento. 

Tuttavia non mancarono iniziative apparentemente contraddittorie con quanto detto finora, ma che in realtà si collocavano all’interno dello stesso disegno politico: ne costituisce un ottimo terreno probatorio la volontà di realizzare la “fratellanza italo-slava” nel contesto giuliano di quegli anni. Una linea politico-sociale che il nascente regime jugoslavo millantava orgogliosamente sotto la stella dell’internazionalismo proletario, consapevole di poter contare anche sull’appoggio del proletariato industriale del Monfalconese e di Trieste, come asserisce anche Pupo:

 

[...] La grande maggioranza della classe operaia di lingua italiana della regione era pronta ad accogliere l’annessione alla Jugoslavia come l’unica opportunità storicamente possibile per cominciare una nuova vita all’interno di uno stato socialista. [...] Una parte fortemente minoritaria della complessiva popolazione italiana, ma tutt’altro che trascurabile[65].

 

Il punto è che la linea della fratellanza italo-slava nasceva dalla volontà di distorcere il reale spessore socio-demografico che gli italiani avevano storicamente assunto nella Venezia Giulia, relegandoli subdolamente allo status di minoranza che non avevano mai avuto prima. Per farlo, i vertici jugoslavi elaborarono attentamente dei prerequisiti per l’accettazione dell’elemento italiano all’interno del costituendo stato comunista jugoslavo, in una logica che doveva frapporre uno sbarramento di partenza a tutti quegli italiani non conformi ai nuovi poteri. Nella rivoluzionaria nomenclatura contemplata dal nuovo modello di stato affratellante di Tito, si annoverava la categoria degli italiani “onesti e buoni”, alias “onesti antifascisti”. Per accedere a questo raggruppamento elitario si doveva anzitutto dimostrare la propria euforia socialista filo-sovietica (ovviamente fino al 1948), la propria avversione incondizionata nei riguardi del nascente sistema capitalistico occidentale e verso la Madrepatria. A questa etichetta si contrapponeva invece quella da affibbiare ai già menzionati nemici del popolo, alias reazionari, i quali andavano tuttalpiù perseguitati ed estromessi integralmente dalla vita pubblica e politica dello stato. E’ doveroso puntualizzare a questo proposito che, per quanto concerne gli italiani “onesti e buoni”, era sì riconosciuto il massimo grado di diritti nazionali, ma all’interno del nascente stato a guida comunista il destinatario di tali diritti civili e politici era il soggetto collettivo identificato nelle organizzazioni che il regime riconosceva, non il singolo cittadino, assolutamente vulnerabile al cospetto del sistema totalitario che andava affermandosi. Ne fornisce adeguata riprova l’istituzione dell’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume (UIIF), organizzazione sorta nel luglio ‘44 entro la quale Tito concesse lo sviluppo di un’italianità filo-jugoslava e menomata, i cui obiettivi erano soggetti alla censura dei vertici jugoslavi. In questo modo “la politica di occupazione oscillava contraddittoriamente fra repressione brutale e spregiudicata ricerca di consenso”[66].

Nulla avrebbe avuto da guadagnare l’italianità adriatica giuliana inserita nel progetto socialista jugoslavo, le cui prerogative economiche miravano anzitutto a colpire i ceti popolari e borghesi di cui essa si componeva: artigiani, commercianti, impiegati e liberi professionisti erano infatti rappresentativi di una classe dirigente i cui connotati erano indubbiamente italiani. Ma non finiva qui. C’era un’ulteriore scrematura riconducibile ai già ben noti progetti di ingegneria etnica che furono tenacemente sostenuti nella Venezia Giulia. Secondo le autorità jugoslave, non andava tenuto in considerazione il plurisecolare processo di assimilazione (che a parere nostro non si richiama né a nazionalismo né a snazionalizzazione) che aveva di fatto trasformato gli assetti sociolinguistici della popolazione giuliana, favorendo l’affermazione dell’italiano come lingua d’uso nei commerci, nella vita urbana delle città, e soprattutto, nel settore pubblico e istituzionale: la concezione etnicista della nazionalità spinse i nuovi poteri a distinguere gli italiani madrelingua dagli italiani assimilati, le cui origini più remote potevano ricondursi al ceppo slavo, nonostante questi professassero spontaneamente sentimenti italiani. E ancora, si rendeva necessario discriminare gli italiani regnicoli da quelli autoctoni; i primi erano giunti nell’area giuliana dopo il 1918, e pertanto si doveva favorire la loro espulsione. Anche grazie a questi cavillosi tatticismi le autorità jugoslave riconsegnarono all’opinione pubblica internazionale un’immagine capovolta e sofisticata della composizione etnica della Venezia Giulia, in cui la componente italiana sembrava essere una realtà del tutto marginale e ben poco influente se considerata al cospetto delle altre nazionalità presenti nella regione. Ecco perchè la politica della fratellanza, nei suoi laboriosi ingranaggi etnici, politici e sociali rivestiva un’importante funzione selettiva che autorizzava lo stato jugoslavo a soggiogare l’italianità adriatica.

Un progetto tanto folle quanto contraddittorio, dal momento che nel territorio che Tito rivendicava c’erano numerosi centri urbani dove l’egemonia italiana era stata fino a quel momento inoppugnabile, frutto di un lunghissimo processo di sedimentazione della latinità culminato con lo sviluppo dell’italianità adriatica in Istria, Quarnaro e Dalmazia nell’età contemporanea. Contraddittorio perchè il movimento nazional-comunista jugoslavo si camuffava molto bene con l’alibi dell’autodeterminazione dei popoli, pur sapendo che nell’area contesa (ma forse si dovrebbe dire pretesa) c’erano centinaia di migliaia di persone che potendo scegliere, avrebbero sicuramente optato per la difesa della loro identità nazionale italiana.

Inoltre, edificare il socialismo in uno stato a fortissima trazione centralista e con una draconiana impostazione monopartitica, non corrispondeva a quegli ideali di libertà e democrazia che venivamo continuamente osannati nelle manifestazioni di propaganda filo-jugoslava, inscenate ad arte dagli attivisti dell’Unione Antifascista Italo-Slava (UAIS). Questa organizzazione sorse soltanto nel 1945 come emanazione del MPL dopo l’occupazione jugoslava della Venezia Giulia; accoglieva nei suoi ranghi sia elementi italiani che slavi, e si proponeva nel panorama giuliano come organo della propaganda filo-jugoslava. Poteva vantare un’efficiente organizzazione e una capillare distribuzione sul territorio specie a Trieste, Gorizia e Pola, le uniche città rimaste sotto l’amministrazione degli Alleati dopo l’Accordo di Belgrado. Suo compito era appunto quello di manifestare pubblicamente a favore di Tito e della sua nascente Jugoslavia comunista, nel tentativo di profondere anche nelle masse italiane gli stessi sentimenti filo-jugoslavi. Spesso a sfilare nei cortei e nelle piazze erano persone reclutate dall’entroterra e dal mondo rurale giuliano in genere, che nulla avevano a che fare con la vita urbana in cui venivano inscenate tali azioni dimostrative. Tuttavia erano perfettamente equipaggiate con bandiere, drappi e quant’altro potesse essere utile per costruire sfarzose coreografie inneggianti la causa jugoslava. A riprova della tenacia e del fervore ideologico che animava tali manifestazioni, si riporta il seguente aneddoto: quando la Commissione Interalleata[67] si recò in Italia, si riunì a Milano, da dove avrebbe mosso verso la Venezia Giulia per svolgere i propri lavori. A quel punto però, fu bloccata da un imprevisto alquanto insolito. Alla stazione ferroviaria del capoluogo lombardo trovò ad attenderla un gruppo di agitatori dell’UAIS, i quali per l’occasione inscenarono un’agguerrita manifestazione pro-Jugoslavia, allo scopo di pregiudicare già in partenza l’orientamento della commissione stessa[68]. Il messaggio era chiaro: “Voi venite in Italia per analizzare la situazione della Venezia Giulia, noi vi lanciamo un forte monito circa le sue sorti, e lo facciamo a Milano, a centinaia di chilometri dall’area in questione, per ribadire inequivocabilmente le nostre rivendicazioni”.

Altra manipolazione strumentale fu quella di convogliare la Resistenza armata giuliana su altri fronti di guerra, cosicché fosse possibile rafforzare la leadership slovena e croata nell’ottica della futura annessione della regione. Così diversi partigiani italiani furono dirottati su fronti a loro del tutto avulsi, “spesso in luoghi anche parecchio distanti dalla Venezia Giulia, come in Slovenia, nella regione del Gorski Kotar ad est di Fiume, nella Croazia interna”[69]. Si arrivò poi a fagocitare intere unità partigiane italiane all’interno dei comandi dell’OF, come accadde alla brigata Garibaldi-Trieste che dopo aver interrotto i suoi rapporti con il CLN cittadino abbracciò le tesi annessionistiche dei titini. L’episodio più grave si verificò il 7 febbraio 1945 alle malghe di Porzus, giacché una formazione della brigata Garibaldi-Natisone, che nel frattempo aveva aderito alle direttive del IX Corpus sloveno,  trucidò i membri del comando della brigata Osoppo di orientamento democristiano, appartenenti peraltro alla medesima divisione unificata Garibaldi-Osoppo. Unica colpa dei partigiani osovani era quella di aver rifiutato le pressioni politiche slovene volte a ottenere il controllo del territorio sotto la loro supervisione.

Insomma, utilizzando poche parole, Tito stava cercando di vendere un regime totalitario spacciandolo per autodecisione dei popoli: un vero affare per l’uomo su cui Churchill aveva riposto tutta la sua fiducia a scapito di Mihajlovic, delegittimato e denigrato perchè accusato di collaborazionismo dagli Alleati. Ma come poteva essere collaborazionista l’Armata Nazionale jugoslava del generale Mihajlovic, che oltretutto rappresentava il braccio militare del governo monarchico jugoslavo, “parcheggiato” a Londra ormai da più di due anni? Probabilmente l’abilità di Tito fu innanzitutto quella di convincere gli Alleati che il Movimento Popolare di Liberazione fosse davvero la “volontà del popolo”, così come veniva ossessivamente invocata durante i comizi del PCJ.

Funzionò molto bene poi la tattica utilizzata dal maresciallo e dagli organi rappresentativi del MPL per avvalorare talune pretese territoriali sul suolo italiano. Con una sorta di gioco al rialzo nei negoziati con le grandi potenze (chiedere Trieste, Gorizia e Monfalcone) egli riuscì senza dubbio ad ottenere nella Venezia Giulia la fetta più grossa, grazie a una grande manovra che faceva leva su una propaganda capillare e sulla legittimazione politica delle sue richieste in seno ai vertici comunisti italiani.

A sostegno di questa posizione riportiamo di seguito una parte del testo di una lettera pubblicata dall’Azione del Popolo di Milano del 24 novembre - 1° dicembre 1945, anno II, n. 43, con cui i comunisti sloveni esprimevano le loro rivendicazioni territoriali ai comunisti italiani di Milano, secondo quell’ottica oltranzista ben radicata nella causa jugoslava:

 

 

 

Ai compagni italiani,

                                noi comunisti sloveni dell’OF e del PSNOJ, in occasione della conclusione dell’accordo tra il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia e l’OF vogliamo inviare il nostro saluto.

L’accordo con il quale il Comitato di Liberazione riconosce l’esistenza di un libero Stato sloveno e decide di restituire al momento della cacciata dell’oppressore nazi-fascista, le città ed i territori di Trieste, Gorizia, Fiume e Pola alla loro naturale pertinenza slovena, è di importanza storica. La rinuncia da parte slovena a far valere i propri diritti storici sui territori di Udine e Venezia dimostra la volontà di pace e di accordo che ci anima [...][70].

 

Riteniamo che quanto appena riportato non abbia bisogno di alcun commento aggiuntivo, giacché traspare in maniera ineccepibile l’intransigenza sciovinista con cui l’OF si poneva nell’ambito delle trattative inerenti la questione confinaria italo-jugoslava. Molto diverso era, a ragione di quanto detto, l’approccio che giustificava le pretese espansionistiche proprie della causa slava, in quanto secondo la concezione confinaria sostenuta da Tito, non erano le città e i centri urbani a fungere da punto di riferimento per il circondario rurale, bensì era la campagna stessa che doveva esercitare la propria sovrintendenza sulle rimanenti porzioni urbanizzate di territorio. Questa la spiegazione più tangibile circa le illegittime rivendicazioni della Jugoslavia su tutta la penisola istriana, comprendente le allora italianissime città costiere di Capodistria, Parenzo, Pola, Rovigno e molte altre.

Diedero infine un apporto rilevante al maturare degli eventi anche le uccisioni perpetrate ai danni degli italiani che abitavano nell’area giuliano-dalmata. Tali eccidi di cui i partigiani di Tito si resero barbari esecutori, innescarono una psicosi d’assedio che terrorizzò la popolazione civile, al punto da sospingerla alla tragica decisione di abbandonare definitivamente la propria residenza. Le stragi compiute dagli jugoslavi in quegli anni erano anch’esse riconducibili allo stesso disegno politico: da una parte, permettevano a Tito di implementare un’efficace strategia dissuasiva verso chi sperava ancora di vedere sventolare il Tricolore nelle piazze giuliane, istriane, quarnerine e dalmate; dall’altra, rappresentavano il metodo più veloce e sbrigativo per sbarazzarsi fisicamente e politicamente di tutti gli oppositori, reali e potenziali.


3. LE CONTROVERSIE DIPLOMATICHE NELLA CRISI GIULIANA

 

3.1 LA SVOLTA D’AUTUNNO E LE RESPONSABILITA’ DEL PCI

Un momento particolarmente amaro per la storia del confine nord-orientale italiano è individuabile nella tristemente nota “svolta d’autunno” del 1944, anno in cui le sorti della Venezia Giulia non erano ancora compromesse del tutto.

Come era ben noto, le tesi annessionistiche jugoslave, fatte proprie ad arte anche dall’OF, rivendicavano tutta la Venezia Giulia; a tali pretese si opponevano fermamente non soltanto i fascisti, ma anche tutti gli antifascisti moderati della regione, convinti che nella regione dovesse essere mantenuta la sovranità italiana, anche se dal punto di vista politico i progetti erano sicuramente diversi rispetto a quelli portati avanti durante il Ventennio. Era evidente dunque che tra le due esperienze resistenziali, italiana e slava, vi fossero dei punti di frizione irrisolvibili sulla concezione di lotta contro il nazifascismo: le unità partigiane italiane si impegnavano per liberare il territorio nazionale italiano dall’occupazione del nemico, mentre quelle slovene e croate miravano a estendere sulla Venezia Giulia il loro controllo territoriale, e di conseguenza anche politico.

Nelle intricate faccende resistenziali si inserì in modo determinante la posizione assunta dai rappresentanti del Partito Comunista Italiano a partire dal 1944. Costoro fino a quel momento avevano appoggiato con grande entusiasmo la lotta per l’autodeterminazione dei popoli slavi entro i territori in cui si trovavano i loro insediamenti storici, ma allo stesso tempo coglievano la differenza che separava l’italianità delle città giuliane (che riconoscevano) dalle rivendicazioni slave. Vi era poi un’ulteriore divaricazione ideologica tra comunisti italiani e slavi: i primi erano interpreti di quell’internazionalismo inteso come mezzo per la diffusione del socialismo in Europa, i secondi invece abbracciavano un comunismo che voleva essere partner indiscusso del fervore nazionalista che contraddistingueva il movimento jugoslavo. Inoltre, lo scenario che si stava affacciando lasciava trapelare che la collaborazione antifascista si stava dissolvendo, poiché iniziava a profilarsi la contrapposizione tra i due blocchi, quello capitalista e quello sovietico. Tuttavia le due visioni, seppur impostate marcatamente in modo differente, si potevano coalizzare ugualmente in nome della “grande alleanza” antinazista. Certo era sottinteso che la sconfitta militare dei nazisti apriva al mondo comunista una schiera di possibilità da sfruttare efficacemente, soprattutto sulla base dei vantaggi territoriali che essa poteva offrire.

Nell’estate del ’44 tuttavia cominciarono manifestarsi i primi sintomi di cambiamento; nei mesi di luglio e agosto, a Milano si tennero degli importanti incontri tra il CLNAI e i rappresentanti dell’OF, aventi lo scopo di individuare una linea d’intenti comune che non lasciasse spazio a eventuali equivoci: le parti stavano per convenire, nonostante l’atteggiamento intransigente dimostrato dai comunisti sloveni, alla stipula di un patto che impegnava entrambi i movimenti resistenziali a unirsi compattamente nella lotta antinazista, rimandando qualsiasi vertenza confinaria al termine del conflitto. Contemporaneamente però, mutò drasticamente la posizione del comitato centrale del KPS, che adottò una linea “dura” nei confronti dei negoziati in corso a Milano, rendendo note le proprie rivendicazioni territoriali considerate inoppugnabili e del tutto legittime: oltre a Lubiana anche Trieste, Gorizia e Klagenfurt, nonostante i loro diversi tessuti nazionali, erano considerate slovene, e pertanto in esse dovevano essere implementati dei piani politico-militari adeguati per la conquista del potere. Oltre a rifiutare il patto che si stava trattando a Milano, furono intensificate le azioni di pressione politica e proselitismo ideologico con cui i comunisti sloveni cercavano di persuadere quelli giuliani ad accettare la linea annessionistica jugoslava. L’esito più raccapricciante di questo complotto forzato si manifestò il 24 settembre 1944, allorché Vincenzo Bianco, rappresentante del PCI presso i vertici comunisti sloveni, firmò per conto del comitato centrale del PC d’Italia, un’inaccettabile circolare “riservatissima”, dopo essersi lasciato clamorosamente ammaliare dai compagni sloveni. Ciò che Bianco sottoscrisse senza troppi indugi, era un documento in cui le tesi annessionistiche jugoslave venivano avallate; atteggiamento questo, che oltre a denotare un’irresponsabile permeabilità politica del PCI nella questione confinaria riguardante il proprio Paese, poneva i comunisti italiani in posizione nettamente subalterna rispetto ai quadri jugoslavi. Il punto di appoggio che rese quanto mai convincenti le tesi jugoslave, fu individuato nella possibilità di “guadagnare posizioni in vista del futuro confronto con le potenze capitaliste e sembrava schiudere ai comunisti italiani [...] la possibilità di superare le limitazioni politiche altrimenti imposte dalla presenza anglo-americana”[71].

Per lenire la gravità dell’atteggiamento remissivo dimostrato da Bianco con il suo incauto comportamento, “La nostra lotta”[72] del 17 ottobre 1944 pubblicò un articolo intitolato “Saluto ai nostri amici ed alleati jugoslavi” che giudicava la venuta dei partigiani comunisti jugoslavi “come una grande fortuna per il nostro Paese” e suggeriva poi di “accogliere i soldati di Tito non solo come dei liberatori [...] ma come i fratelli maggiori che ci hanno indicato la via della rivolta [...] e come creatori di nuovi rapporti di convivenza e di fratellanza [...] tra tutti i popoli[73].

Sono parole che all’epoca forse potevano essere interpretate diversamente perché diverso e più intricato era il quadro politico nella Venezia Giulia, tuttavia oggi appaiono deliranti al cospetto di quello che hanno avuto a subire gli italiani giuliani e istriani che non hanno saputo “festeggiare” l’arrivo dell’esercito di Tito nelle loro città.

Anche il segretario del PCI Togliatti non fu esonerato dalla reticenza di partito che dilagava tra i quadri giuliani in quel momento; oscillava come un metronomo tra la strategia dell’unità nazionale con cui si presentava a Roma e l’occupazione jugoslava dei territori giuliani, che andava certamente sostenuta e incoraggiata senza “se” e senza “ma”. Quando però veniva posta la delicatissima questione dell’annessione della regione allo stato jugoslavo il metronomo togliattiano si immobilizzava come un ago della bilancia, emblema di un opportunismo politico che voleva trovare giovamento sia in Italia e sia agli occhi di Tito. Soltanto quando Stalin lasciò intuire di non voler insistere eccessivamente per Trieste (fine aprile 1945), il segretario del PCI poté condannare in pompa magna l’occupazione di Trieste da parte delle truppe jugoslave, ma ormai tale iniziativa assumeva i contorni di una grande beffa nei confronti della popolazione giuliana, caduta nelle mani degli occupatori titini nel maggio del ’45.

Oltre alla linea camaleontica di Togliatti pesò poi il fatto che tra agosto e novembre del ‘44 furono arrestati dai nazifascisti Luigi Frausin e Vincenzo Gigante, principali esponenti della federazione triestina del PCI, i quali avevano intelligentemente mantenuto le distanze dalla proposta di fondere il partito comunista italiano con quello sloveno, riconoscendo e avvalorando il ruolo di estrema importanza che poteva avere il CLN di Trieste in quel periodo. Orfano della sua solida dirigenza politica, il PCI triestino sbandò rovinosamente, venendo così fagocitato dall’ingerenza del partito comunista sloveno. Quest’ultimo ottenne il controllo delle strutture politico-militari del PCI già alla fine dell’anno, ben consapevole dell’appoggio incondizionato che avrebbe incassato anche da parte della classe operaia monfalconese e triestina.

Il proletariato industriale giuliano infatti, non poteva desiderare niente di meglio che vedere la propria area di residenza inclusa nel progetto socialista di Tito. A consolidare tale posizione ci pensavano poi la tradizione internazionalista della classe operaia giuliana e il mito della grande Jugoslavia, un paese che con invidiabile astuzia di propaganda si presentava come l’incarnazione del sogno di libertà di ogni uomo: lo stato plurinazionale socialista era un’immagine appetitosa che i vertici slavi seppero confezionare ad hoc. Tuttavia anche coloro che riposero grande fiducia ed entusiasmo in tale progetto si ricrederono in breve tempo: quella non era la realizzazione del sogno democratico, ma la mela avvelenata di un nascente regime a guida comunista.

Alla fine del 1944 il PCI triestino si sganciò dal CLN locale per sintonizzarsi politicamente con il MPL, intraprendendo così una resistenza filo-jugoslava che si allineava alle tesi annessionistiche del maresciallo Tito riguardanti la Venezia Giulia. Tale decisione determinò la spaccatura dell’esperienza resistenziale italiana nella regione, scissa al suo interno da discriminanti ideologiche che incideranno pesantemente sulle sorti del confine nord-orientale italiano.

 

3.2 LA CRISI GIULIANA NEL NUOVO CONTESTO INTERNAZIONALE

L’occupazione jugoslava dell’intera Venezia Giulia avvenuta nella primavera del 1945 innescò una spirale di violenza inaudita, che colpì senza fare sconti soprattutto la popolazione giuliana; l’espansionismo jugoslavo puntava a sviluppare una politica di potere infarcita di nazionalismo e di ideologie rivoluzionarie che avrebbero rovesciato rapidamente tutto il sistema politico-economico dell’area alto-adriatica.

Furono settimane di agonia per città come Trieste, Gorizia, Pola e Fiume, ma anche per tutte le altre zone poste sotto il diretto controllo delle autorità slave, inflessibili nell’applicare in modo maniacale le direttive che giungevano dai ranghi più alti del PCJ.

Nel caos totale diffuso tra la gente in quel periodo arrivò una boccata d’aria fresca quando fu siglato l’Accordo di Belgrado con cui la regione veniva sostanzialmente divisa in due: nella Zona A si insediò il GMA con sovranità su Gorizia, Trieste e Pola e nella Zona B si protrasse l’occupazione effettiva da parte di un governo militare jugoslavo: l’accordo tra alleati e jugoslavi entrò in vigore dal 12 giugno 1945. Nella zona in cui si confermava la sfera d’azione dell’esercito jugoslavo il filo conduttore dell’amministrazione titina restava inequivocabilmente quello della repressione, unico mezzo che poteva garantire l’affermazione del progetto annessionistico e l’instaurazione di un regime totalitario a guida comunista, in grado di non lasciare alcun spazio di manovra a eventuali progetti “collaterali”, che andavano troncati sul nascere. Per vero l’italianità adriatica giuliana e dalmata non erano assolutamente progetti inediti su quei territori, e questo i vertici jugoslavi lo sapevano bene: “se anche essere etnicamente italiani di per sé non veniva considerato una colpa, essere politicamente filoitaliani lo era senz’altro”[74], poiché implicava l’opposizione naturale alle pretese croate e slovene sulla Venezia Giulia.

Certo è che a sloveni e croati anticomunisti (e non ce n’erano pochi [N.d.A.]) non era riservato un trattamento più soft rispetto agli italiani che con loro condividevano l’avversione al nuovo ordine; ma ciò non può trascendere da una verità oggettiva, e cioè che ad essere perseguitate e successivamente eliminate nell’area giuliana furono in massima parte persone di sentimenti italiani, colpevoli di incarnare quell’italianità adriatica che nulla aveva a che vedere con la sardonica fratellanza italo-slava.

Intanto prendeva sempre più forma e sostanza in Europa il nuovo assetto geo-politico internazionale conteso tra Stati Uniti e URSS, tra capitalismo occidentale e comunismo sovietico, tra due blocchi contrapposti che finiranno per inghiottire anche la questione confinaria italo-slava nelle logiche della guerra fredda. Nella Venezia Giulia il 13 agosto1945 nacque il Partito Comunista della Regione Giulia (PCRG), la cui linea era di fatto pilotata dal KPS; non è un caso che il 24 settembre i vertici del nuovo partito si espressero favorevolmente per l’annessione dell’intera regione alla nascente Jugoslavia socialista. La politica annessionista jugoslava si perpetuò in tutta la zona di sua competenza, specie in Istria quando a novembre si svolsero le prime elezioni amministrative: qui le liste elettorali furono presentate in toto dall’UAIS, ed erano tutte di chiaro orientamento pro-jugoslavo.

3.3 I NEGOZIATI DI PACE E LA FIRMA DEL TRATTATO A PARIGI

La fine del secondo conflitto mondiale catapultò il problema della definizione del nuovo tracciato confinario italo-slavo sui tavoli delle trattative di pace a Parigi. Nell’Italia post-bellica stentava a realizzarsi la consapevolezza che la guerra era stata perduta, e che l’esperienza della Resistenza e della cobelligeranza con gli Alleati dopo l’8 settembre rappresentavano un fenomeno piuttosto circoscritto, con un significato più simbolico che concreto. Nella coscienza antifascista che andava affermandosi nelle istituzioni italiane del dopoguerra si pensava che le colpe del fascismo fossero state espiate dallo sforzo bellico invertito dopo l’armistizio; tuttavia ciò che non riusciva al ricostituendo stato italiano era comprendere più obiettivamente le tragiche conseguenze che sarebbero scaturite dalla sconfitta militare: le avventure belliche del fascismo italiano e gli errori commessi durante il conflitto si sarebbero ritorti  a tradimento contro la nuova realtà democratica del paese, come un boomerang scagliato con violenza che ritorna indietro e non trova più lo stesso padrone lì ad aspettarlo.

E’ per questo che il Trattato di Parigi altro non fu che “la conclusione della sconfitta”[75] iniziata a maturare con la “catastrofica avventura”[76] della guerra a fianco della Germania nazista. Peraltro il governo De Gasperi non poteva offrire nessuna contropartita nei negoziati, dal momento che l’Italia dopo l’8 settembre non costituiva più alcun soggetto di politica estera.

Dopo gli sconvolgimenti del Ventennio, l’incubo della guerra e l’occupazione jugoslava alla fine del conflitto, che avevano visto transitare nella Venezia Giulia una moltitudine di eserciti portatori di ideologie contrapposte, era evidente che tracciare un confine tra Italia e Jugoslavia in quel momento implicasse tutta una serie di complicazioni, prima fra tutte la distribuzione delle varie etnie sul territorio, tuttaltro che omogenea e lineare. Ecco perché il Consiglio dei ministri degli Esteri nominò la Commissione quadripartita (Francia, Gran Bretagna, USA e URSS) affinché svolgesse un’attenta attività di ricognizione nazionale all’interno della Venezia Giulia: lo scopo era quello di discernere il reale assetto demografico dei vari gruppi nazionali che vivevano sul territorio della regione, per poter poi congetturare delle soluzioni plausibili alla vertenza confinaria italo-slava.

Così tra marzo e aprile del 1946 la Commissione visitò la Venezia Giulia; se da una parte l’attività svolta sfiorò il grottesco (fu visitata persino Cividale, città italiana sin dal 1866), dall’altra innescò l’inasprimento delle violenze nei confronti della componente italiana che abitava i territori della Zona B sotto amministrazione jugoslava. Pressioni di ogni tipo, vessazioni, intimidazioni e soprattutto un’ulteriore ondata di violenza si abbatté sugli italiani della Zona B, ai quali fu tassativamente imposto il divieto di manifestare i propri sentimenti nazionali all’arrivo della Commissione. E’ difficile rendersi conto oggi, quanto compromettente potesse essere per una persona in quel frangente indossare un drappo tricolore, sventolare una bandiera, pronunciare i versi dell’inno di Mameli o più semplicemente manifestare spontaneamente la propria identità nazionale. Gesti così scontati oggi apparirebbero talvolta banali, forse anacronistici, del tutto innocui; ma in quel momento avrebbero compromesso l’incolumità stessa di chi si poneva inviso alle autorità jugoslave che presidiavano la Zona. Si intensificò inoltre la campagna di propaganda a favore dell’annessione di tutta la Venezia Giulia alla Jugoslavia, in un’atmosfera iniqua in cui soltanto un giocatore poteva muoversi liberamente nel campo, soggiogando di fatto le mosse dell’altro.

La soluzione di compromesso che ne uscì gettò nel panico totale la popolazione giuliana di sentimenti italiani: il 2 luglio 1946 vennero rese note le decisioni prese a Parigi dalle potenze alleate circa la nuova delimitazione dei confini italo-jugoslavi. Il verdetto fu una sorta di castigo per l’Italia, che perdeva la sua sovranità territoriale su gran parte della regione. L’Istria veniva praticamente ceduta in blocco alla Jugoslavia con l’aggiunta di Pola (città molto più italiana di Bolzano o Aosta [N.d.A.]); stessa sorte toccò al Quarnaro con le sue isole di Cherso e di Lussino, patrimonio inestimabile dell’italianità adriatica insieme alla città di Fiume, anch’essa passata sotto la Jugoslavia di Tito. Il nuovo confine aveva poi letteralmente falciato gli entroterra di Trieste e di Gorizia, non più appartenenti allo stato italiano. Per quanto riguarda Trieste, le trattative si impantanarono di fronte alle inamovibili pretese jugoslave sul capoluogo giuliano, nonostante fosse chiaro anche agli angloamericani che il ruolo della città e del suo litorale nell’Alto Adriatico era assolutamente strategico nel contesto geo-politico della “cortina di ferro”. Così fu escogitata l’internazionalizzazione dell’area attraverso la costituzione del Territorio Libero di Trieste (TLT), una porzione di territorio che comprendeva la città e una stretta fascia costiera compresa tra Duino e la linea di demarcazione del fiume Quieto. L’intento era quello di affidare la sua gestione alle Nazioni Unite per garantirvi un’adeguata tutela internazionale che tenesse a freno le smanie annessionistiche jugoslave, voracemente impegnate in un’irriducibile pressione diplomatica volta all’inglobamento della città nel nuovo sistema comunista slavo. Si tentò di nominare un Governatore neutrale per il TLT, ma il nascente bipolarismo internazionale rese sostanzialmente impossibile operare una scelta arbitraria, e quindi lo stato libero progettato rimase soltanto sulla carta.

All’Italia rimase ben poco; soltanto Gorizia e il Monfalconese furono restituite alla Madrepatria, in una logica di ripartizione territoriale che doveva in qualche modo riflettere l’operato bellico delle parti: nonostante la Resistenza e la cobelligeranza con gli Alleati degli ultimi mesi di guerra, l’Italia era considerata un paese “sconfitto e aggressore”, la nascente Jugoslavia era un paese “vittorioso e aggredito”, poco importava che per imporre la propria autorità il MPL di Tito aveva trascinato il Regno di Jugoslavia in una sanguinosa guerra civile in cui si affrontarono partigiani comunisti, cetnici, domobrani, belagardisti e ustascia; importava ancora meno che Tito avesse occupato alla fine della guerra tutta la Venezia Giulia, deportando e uccidendo barbaramente tutti i suoi oppositori, vittime di una feroce violenza politica impartita dall’alto. Insomma, ai tavoli delle trattative di pace si era imposto autorevolmente un approccio più dogmatico che diplomatico, in cui l’Italia non riuscì a rendere efficace la propria diplomazia, ininfluente al cospetto delle potenze vincitrici della II guerra mondiale, giudici supremi e inappellabili sulla questione giuliana.

Quando poi si pensò all’ipotesi di un plebiscito come consultazione democratica della popolazione giuliana affinché essa potesse esprimere liberamente la propria appartenenza statuale, si registrarono attriti da entrambe le parti. Gli jugoslavi protestarono vivacemente considerando il plebiscito elettorale come una formula di consultazione eccessivamente “borghese”, non idonea quindi al regime rivoluzionario di Tito; per questa ragione i vertici comunisti jugoslavi rigettarono la proposta contrapponendo ad essa il “plebiscito di sangue”: questa espressione voleva rivendicare l’allineamento di gran parte delle masse popolari che avevano infoltito la Resistenza giuliana al programma annessionistico del MPL, dimostrando perciò che un’ulteriore consultazione popolare non era necessaria. Ma neanche a Roma l’ipotesi del plebiscito venne accolta con euforia, visto che nell’area giuliana non era garantibile la legalità procedurale dell’eventuale consultazione, e quindi neanche il suo esito sarebbe stato scontato. L’autorizzazione a procedere avrebbe significato un’ulteriore recrudescenza delle violenze cui gli italiani erano sottoposti da parte jugoslava nei territori contesi. Insomma, per dirla con Pupo “vincolare la politica estera italiana alla logica del plebiscito avrebbe significato scontare una catastrofe certa in Alto Adige in cambio di un risultato incerto nella Venezia Giulia”[77]. Accantonata l’ipotesi del plebiscito, si arrivò così alla firma del Trattato di pace che avvenne a Parigi il 10 febbraio 1947. L’accordo sanciva la cessione delle intere province di Pola, Fiume e Zara, delle isole della costa dalmata e dell’arcipelago del Quarnaro, più l’entroterra delle città di Gorizia e Trieste. Per quest’ultima si sanzionò la costituzione del Territorio Libero di Trieste, con la “Zona A”[78] sotto amministrazione alleata e la “Zona B”[79] sotto il controllo dell’Armata jugoslava del maresciallo Tito.

In conseguenza della firma del Trattato di Parigi quasi tutta l’Istria veniva ceduta alla Jugoslavia, così come le importanti città di Pola e Fiume, principali capisaldi dell’italianità giuliana; Zara era già stata distrutta durante lo svolgersi del conflitto, con le famose 54 incursioni aeree degli Alleati che la ridussero a un cumulo di macerie (solo Dresda fu bombardata di più durante la II guerra mondiale). Forse, agli occhi delle grandi potenze mondiali un “neo” di indiscutibile italianità circondato da una fascia di territorio considerata già di pertinenza slava, risultava alquanto scomodo nella ridefinizione dei confini italo-jugoslavi, che si sarebbero spostati molto più a nord.

Come vedremo, centinaia di migliaia di italiani che abitavano nei territori ceduti alla Jugoslavia con il Trattato di pace, lasceranno per sempre la propria residenza, dando luogo a un esodo massiccio che si protrarrà per quasi dieci anni nella Venezia Giulia riverniciata in tinta jugoslava. La convenzione stipulata entrò a tutti gli effetti in vigore il 16 settembre 1947, data della proclamazione ufficiale dell’annessione alla Jugoslavia dei territori ceduti dall’Italia. Successivamente i nuovi “gestori” della vita pubblica in suddette zone vi applicarono le leggi jugoslave e recisero i nuovi confini, isolando completamente la popolazione italiana dalla Madrepatria. L’articolo 19 del trattato di pace prevedeva l’esercizio del diritto di opzione per la popolazione giuliana che si era ritrovata nello stato jugoslavo senza volerlo: si trattava di una clausola che offriva a coloro che lo volessero la possibilità di optare per la cittadinanza italiana trasferendosi nella Madrepatria, abbandonando beni e proprietà appartenute per generazioni.

 

3.4 LA GESTIONE JUGOSLAVA DELLA ZONA “B”

La firma del Trattato di Parigi inaugurò nell’area giuliana una nuova stagione di crisi dalle sembianze più politico-diplomatiche che militari: Trieste, perla dell’Adriatico e grande emporio marittimo, si ritrovò al centro di una fune, tirata a ovest dall’Italia che ne rivendicava la sua naturale pertinenza nazionale e ad est dalla neo-costituita Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia (RFPJ), che non aveva ancora rinunciato al coronamento del proprio sogno annessionistico intarsiato nel progetto rivoluzionario di Tito. Dopo i negoziati di pace non era stato possibile trovare un punto di contatto tra le pretese jugoslave e la linea di De Gasperi, per nulla intenzionato a decidere le sorti del Territorio Libero di Trieste secondo una logica di spartizione lungo la linea Morgan, ovvero di rinuncia da parte italiana alla sovranità territoriale sulla Zona B occupata dal Governo militare jugoslavo (VUJA) in cambio della contropartita sulla Zona A amministrata dal Governo militare alleato (GMA).

Oltretutto, a chi volesse credere che la violenza jugoslava della primavera del ’45 si fosse estinta con l’Accordo di Belgrado purtroppo è necessario ribadire il contrario. Vero è che nella Zona A si poté ripristinare una soglia minima di normalità con l’insediamento delle autorità alleate, permettendo alla popolazione civile di riprendersi dal trauma causato dai quaranta giorni di occupazione titina. Per contro, nella Zona B i “poteri popolari” continuarono a costruire le prerogative necessarie alla futura annessione di quei territori alla Jugoslavia. Le autorità civili jugoslave lavorarono alacremente sulla repressione di massa per ghermire sul piano politico un consenso popolare che non sarebbe mai arrivato, giacché la maggioranza schiacciante dei residenti italiani non abbandonò la speranza di poter, un giorno, riabbracciare l’Italia, almeno fino alla prima metà degli anni Cinquanta. A sostegno di questo dato si rammenti che tra agosto e settembre del ’45 le autorità jugoslave promossero sul territorio della Zona B una raccolta di firme in favore dell’annessione, rimediando un risultato davvero imbarazzante che ne comprovava la totale avversione da parte della cittadinanza in blocco: “Capodistria e Pirano sono chiaramente contro di noi, e il peggio sta nel fatto che il circondario sloveno non è abitato in maniera uniforme”[80]; questo commento restituisce inopinabilmente l’immagine agonizzante della Zona B: a Capodistria, Pirano, Umago, Isola e Cittanova si respirava il clima intimidatorio dei “poteri popolari” che tentavano instancabilmente di inculcare nella popolazione locale la linea annessionista, puntualmente rigettata nonostante l’esercizio della violenza sui residenti. Questa fu la strategia utilizzata anche a Capodistria quando il 30 ottobre 1945 fu proclamato lo sciopero generale a suffragio, per contestare l’introduzione nella Zona B della “Jugolira”, una nuova valuta che danneggiava gravemente l’economia locale e boicottava di fatto gli scambi commerciali con la Zona A. Rabbiosa la reazione dei vertici comunisti slavi, che per ripristinare la “volontà del popolo” mobilitarono il contado sloveno, facendolo affluire in città e aizzandolo strumentalmente contro i capodistriani per soffocare la protesta nel sangue. La repressione fu immediata e durissima, e non mancarono morti e feriti.

L’esasperato nazionalismo sloveno era ben conosciuto persino all’interno delle sezioni locali del PCRG, che furono adeguatamente purgate da tutti gli elementi che si opponevano all’annessione. Furono sciolte le sezioni di Buie, Capodistria e Pirano, suscitando lo sdegno degli stessi comunisti italiani. Quanto alla sistematica politica di epurazione, si può dire che i meccanismi di repressione erano stati studiati capillarmente per poter scovare anche la più latente forma di dissidenza contro i nuovi poteri: per essere fascisti era sufficiente aver “[...] operato contro il popolo svolgendo attività culturale, economica o di qualsiasi altro genere”[81]. Si trattava di un’epurazione senza precedenti che colpiva i ceti medi (commercianti, insegnanti, e impiegati) e addirittura il proletariato di ispirazione democratica: praticamente “si sparava sulla croce rossa”. Era evidentemente una strategia epurativa più politica che etnica, volta a eliminare la filo-italianità del territorio per assumerne definitivamente il controllo, ovvero la premessa sostanziale per l’annessione.

Ad acuire lo scontro politico contribuì l’arrivo della Commissione interalleata nella primavera del ’46; a quel punto la propaganda pro-Jugoslavia raggiunse toni solenni. i “poteri popolari” e i manifestanti filo-jugoslavi inscenarono azioni dimostrative falsate in partenza: innanzitutto era una sceneggiatura viziata dal fatto che alla componente italiana era vietata qualsiasi forma di manifestazione pubblica dei propri sentimenti nazionali; come se ciò non fosse già abbastanza determinante, si inneggiò alla contrapposizione ideologica tra le uniche due categorie politiche contemplate dagli occupatori: i “democratici”, ovvero i fiancheggiatori del regime jugoslavo, e i “fascisti”, le cui prerogative politiche non erano nemmeno prese in considerazione.

In effetti soltanto attraverso questi brogli e queste manomissioni i “poteri popolari” potevano mettere la museruola alla vocazione inequivocabilmente italiana della Zona B. Ci riuscirono con l’utilizzo combinato del terrore e della propaganda annessionista, unici strumenti in grado di generare artificialmente un consenso che nella realtà non sussisteva affatto. Ciò che invece trapelava dalle masse inermi di italiani era uno stato di frustrazione dovuto all’impossibilità di manifestare la propria inamovibile contrarietà all’annessione. Un’avversione più che giustificabile anche in base alle trasformazioni economiche che il regime jugoslavo stava implementando sul territorio: nel settore agricolo crebbe notevolmente il controllo e la gestione da parte dei nuovi poteri delle proprietà terriere, scaturendo la disapprovazione dei contadini istriani; anche nel mercato ittico e nell’industria conserviera aumentarono le limitazioni, danneggiando così l’impiego e riducendo gli scambi commerciali; nell’industria locale si verificò una crisi senza precedenti, con licenziamenti a tappeto degli operai e il trasferimento dei mezzi di produzione in Jugoslavia deciso dalle autorità. La crisi economica della Zona B dilagava e scontentava un po’ tutti, spingendo ad assumere “una posizione fortemente critica nei confronti della strategia attuata dalla dirigenza politica jugoslava”[82].

 

3.5 LA DIFFICILE SOLUZIONE DELLA CRISI PER TRIESTE

L’evoluzione della situazione geo-politica su scala mondiale ebbe la sua eco anche sulla crisi giuliana, che conobbe un prolungamento insperato per la sua soluzione finale. Nell’estate del 1946 si prospettò la nascita di uno stato cuscinetto che avrebbe dovuto frapporsi tra l’Italia e la Jugoslavia, abbracciando Trieste e la sua pertinenza costiera da Duino sino al fiume Quieto. Tuttavia, il mutare della situazione internazionale tra l’estate del ’46 e l’autunno del ’47 aveva compromesso irrimediabilmente la nascita del TLT, e la gestione del suo territorio mantenne l’assetto precedentemente stabilito: Zona A sotto amministrazione degli Alleati (GMA) e Zona B alle dipendenze del Governo militare jugoslavo (VUJA).

La guerra fredda era cominciata e la politica statunitense del containment faceva di Trieste un punto nevralgico di vitale importanza per gli equilibri geo-politici europei; intanto però la Jugoslavia non rimase certo a guardare, forte delle sue aspettative espansionistiche che avrebbero potuto trovare il massimo giovamento con l’annessione del capoluogo giuliano allo stato socialista. Di questo rischio erano consapevoli sia Washington che Londra, motivate a mantenere nell’Alto Adriatico la loro presenza militare e convinte della fragilità del TLT di fronte all’ingerenza sovietica nell’Europa centro-meridionale. Fu questo genere di preoccupazioni che spinse i governi angloamericani a bloccare la nascita del Territorio Libero sul finire del 1947, preferendo usare l’arma della prudenza con il mantenimento dello status quo. Il consolidamento della presenza alleata nella Zona A infatti garantiva un livello di impermeabilità sufficiente contro l’infiltrazionismo comunista jugoslavo, bramoso di rivolgere la propria influenza ad ovest, in particolare in Italia.

Per vanificare la costituzione dello Stato libero di Trieste, i governi di Stati Uniti e Gran Bretagna impedirono di fatto la nomina del suo governatore in seno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, inaugurando una politica estera piuttosto reticente nei confronti dell’Italia, completamente all’oscuro dell’iniziativa diplomatica angloamericana. Anche gli italiani della Zona B erano estranei ai giochi di potere messi in atto dalle due potenze occidentali, e continuarono ignari ad agognare l’internazionalizzazione dell’area, che perlomeno avrebbe messo fine alla violenza politica cui erano incessantemente sottoposti per mano dei “poteri popolari”.

In questo clima di tatticismi occulti si arrivò alla dichiarazione tripartita del 20 marzo 1948 con cui Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia annunciarono la loro intenzione di rimettere all’Italia la sovranità sull’intero Territorio Libero di Trieste, rimettendo in gioco anche le sorti della Zona B. Questa manovra rientrava negli obiettivi di politica estera del blocco occidentale e aveva dei propositi ben precisi: in primo luogo, un annuncio del genere espresso alla vigilia delle elezioni politiche italiane metteva un’ipoteca abbastanza preponderante sull’esito delle consultazioni del 18 aprile in Italia, incentivando la scelta occidentale dell’elettorato italiano e manifestando l’appoggio ai partiti di Governo. Inoltre la Nota Tripartita lanciava un segnale positivo all’Italia, facendo auspicare la scesa in campo delle potenze alleate per la difesa dei propri interessi nazionali nella Venezia Giulia; ma allo stesso tempo la Nota lanciava un altro tipo di segnale all’Unione Sovietica: questa non avrebbe avallato la proposta degli occidentali in quel momento, ma certo è che il rifiuto sovietico avrebbe consentito agli Alleati da una parte di confermare la propria presenza a Trieste secondo la logica del containment, dall’altra li avrebbe posti in una posizione negoziale superiore, rispetto all’avversario, nelle trattative ormai inevitabili per la spartizione territoriale del TLT. Infine, la dichiarazione tripartita faceva ben sperare il governo italiano circa la possibilità di rimettere mano al trattato di pace, in un’ottica di revisione dei negoziati e di rettifica dell’assetto confinario italo-jugoslavo. Sulla base di queste nuove aspettative della politica estera italiana si riattizzò la speranza che l’Istria sarebbe potuta tornare alla Madrepatria, invaghendo gli italiani ivi residenti a resistere stoicamente all’oppressione jugoslava, quasi si trattasse di un sacrificio degno della posta in gioco.

Durò davvero poco l’illusione, perchè la rottura tra Tito e Stalin avvenuta nel giugno dello stesso anno ebbe delle conseguenze molto rilevanti anche nella crisi giuliana: con la risoluzione del Cominform[83] il regime di Tito veniva accusato di deviazionismo ideologico dalle direttive generali del mondo internazionalista, e il PCJ fu espulso dall’assemblea dei partiti comunisti. Veniva meno dunque il temuto pericolo sovietico sul versante italiano, e questo determinò un cambiamento di rotta degli Alleati sulla questione del Territorio Libero.

Molti comunisti italiani e slavi che avevano in passato aderito alle tesi di Tito si allinearono prontamente con le direttive cominformiste di Stalin, generando un’altra ondata di repressione politica dall’alto verso i dissidenti al partito comunista jugoslavo. Furono arrestate migliaia di persone che finirono in campi di concentramento attrezzati per la “rieducazione persuasiva” alla linea nazional-comunista del maresciallo Tito; queste strutture non avevano proprio niente da invidiare ai lager nazisti quanto alle atrocità delle sevizie che subivano i malcapitati, soggetti a torture e angherie difficilmente riconducibili a una mente umana.

Sfumarono tutti i buoni propositi della Nota Tripartita, e la solidarietà anglo-americana verso le rivendicazioni italiane nell’area giuliana si sciolse come neve al sole. La posizione dell’Italia si complicava nuovamente di fronte alla frattura tra Jugoslavia e Unione Sovietica, mentre gli Alleati approntarono una politica estera volta alla riconciliazione tra Roma e Belgrado. Intanto andava peggiorando la situazione nella Zona B, dove l’azione snazionalizzatrice jugoslava verso gli italiani si intensificò con l’inasprimento della repressione, costringendo molte persone a lasciare la propria casa per cercare un riparo sicuro oltre la linea Morgan.

Diverse le vicissitudini della Zona A, dove nel giugno del 1949 si tennero le prime consultazioni elettorali cittadine autorizzate dal GMA; anche grazie all’appoggio di Roma le elezioni si conclusero con un “plebiscito di italianità”, ovvero con l’ottenimento della maggioranza assoluta dei partiti filoitaliani. La risposta jugoslava arrivò l’anno successivo, dopo che Tito ebbe consolidato il suo ruolo di guida assoluta nel paese. L’obiettivo da raggiungere era quello di controbilanciare i risultati elettorali della Zona A con un esito uguale e opposto nella Zona B, che avrebbe accresciuto la legittimazione delle autorità jugoslave sul territorio e accelerato il processo di annessione fredda dello stesso. Tastata la sostanziale indifferenza degli Alleati alle misure repressive jugoslave attuate nella Zona B, si cominciò nei primi mesi del 1950 a preparare l’evento plebiscitario con le ormai collaudate tecniche “persuasive”. La propaganda politica degli attivisti filo-jugoslavi cozzò contro la sostanziale indifferenza della popolazione, esasperata da ormai cinque anni di sofferenze ininterrotte. A quel punto la pressione politica deragliò prepotentemente in atteggiamenti vessatori e intimidazioni, minacce di ogni tipo, interrogatori indirizzati a determinate categorie di lavoratori considerate pericolose dai “poteri popolari”; si condannava l’astensionismo come “propaganda reazionaria” e si setacciavano le abitazioni dei cittadini per esercitare svariate forme di violenza psicologica e fisica su di loro; con la forza coercitiva della “difesa popolare” si ingiungeva alle persone l’obbligo di andare a votare.

In questa atmosfera infernale si giunse al giorno delle consultazioni elettorali nella Zona B: 16 aprile 1950. Era presente per l’occasione anche una delegazione di giornalisti per la stampa occidentale; sin dalle prime battute si constatò che l’elettorato locale, nonostante le intimidazioni subite, aveva deciso di esprimere il proprio diniego al sistema di cose imposto dai nuovi venuti con l’unica arma a sua disposizione, ovvero la mancata affluenza alle urne. Le autorità jugoslave, rendendosi conto della situazione, corsero subito ai ripari: numerosi addetti stampa furono assaliti, probabilmente perchè testimoni oculari del palese insuccesso delle consultazioni popolari jugoslave. Un volta messi in fuga i giornalisti che si ritirarono a Trieste, le autorità rastrellarono capillarmente tutta la Zona B per costringere gli istriani ad affluire ai seggi  con l’uso della forza. Ottennero così ciò che volevano: il Fronte Popolare Italo-Slavo si aggiudicò infatti l’89,29% dei suffragi; un risultato balordo raggiunto con la somministrazione di dosi spaventose di terrore tra la gente, che non poté fare altro che sottomettersi alla “volontà del popolo”. Era chiaro che rispetto alle elezioni tenutesi l’anno precedente nella Zona A queste consultazioni avevano un significato politico diametralmente opposto: se nella Zona A i cittadini avevano espresso la loro ferma volontà di essere ricompresi nella compagine statuale italiana, nella Zona B si riconfermò il binomio “rifiuto-repressione”[84] tra la popolazione civile e le autorità jugoslave che occupavano il territorio, impegnate a sopprimere sul nascere qualsiasi manifestazione di resistenza passiva da parte degli italiani della Zona B.

La politica di snazionalizzazione dei “poteri popolari” non solo causò la fuga di migliaia di persone terrorizzate dall’ingerenza dei vertici comunisti sloveni, ma attuò in misura sistematica una manovra correttiva sul riflusso di cittadini che abbandonavano le cittadine istriane: per riempire il vuoto lasciato dagli italiani si escogitò un ripopolamento integrale dell’area attraverso l’inserimento di elementi slavi provenienti all’entroterra della Jugoslavia; tale operazione mutò gli equilibri nazionali preesistenti nella Zona B, dove l’egemonia italiana aveva una tradizione ultracentenaria. Tale politica si incastrava perfettamente in un disegno che stava sconvolgendo la vocazione culturale, sociale ed economica dell’area, riuscendo addirittura a infondere nei residenti un senso di estraneità verso la loro terra, i cui connotati furono indelebilmente alterati dai poteri rivoluzionari jugoslavi.

Quanto alla politica di epurazione delle categorie professionali “reazionarie”, furono perseguitati in modo maniacale tutti gli insegnanti e il clero cattolico che professavano sentimenti di italianità, in quanto modelli esemplari di un modo di vivere e di sentire assolutamente non conforme alla “volontà del popolo”. Diversi furono i sacerdoti martiri di questa violenza punitiva che non s’impietosiva nemmeno dinnanzi alla figura mansueta del religioso, considerato anzi “nemico del popolo”. Destò particolarmente scalpore l’aggressione comminata nel giugno del ’47 a Monsignor Santin, vescovo di Capodistria ed emblema rappresentativo della lotta politica anticomunista a Trieste, nonché simbolo indiscusso dell’identità nazionale e religiosa degli italiani della Zona B. Molti altri sacerdoti ebbero a subire la rabbia acerba dei militanti comunisti, accanitamente impegnati nell’eliminazione integrale del clero italiano dal territorio. Una persecuzione che aveva anche l’obiettivo di intimare la scissione della diocesi di Trieste da quella di Capodistria, nell’ottica di una separazione ormai netta tra la Zona A e la Zona B del Territorio Libero. Per quanto riguarda l’intromissione dei “poteri popolari” sull’istruzione, un dato su tutti: tra il 1950 e il 1953 furono chiuse moltissime scuole italiane in osservanza di quei principi di stampo etnicista che discriminarono pesantemente la componente italiana; così con il famigerato decreto “Perusko” del 1952, tutti gli studenti il cui cognome poteva sottintendere anche lontanamente una qualche origine croata (magari soltanto perché la sua desinenza terminava in “ich” [N.d.A.]) furono trasferiti in blocco dalle scuole italiane a quelle croate. Ma il vero capro espiatorio nelle scuole della Zona B era la classe docente, letteralmente messa in ginocchio dalle minacce e dagli ultimatum delle autorità jugoslave. Gli insegnanti erano perlopiù contrari a trasformare le lezioni didattiche in una sorta di catechesi ideologica del regime nazional-comunista titino, e per questo furono quasi tutti defenestrati dai “poteri popolari”.

Unendo il puzzle di tutti questi provvedimenti snazionalizzanti e persecutori messi in atto dalle autorità jugoslave nei confronti della popolazione italiana residente nella Zona B, si può ineccepibilmente parlare di “assedio totalitario” dell’italianità giuliana, ormai fortemente compromessa e inibita dalla macchina repressiva slavo-comunista.

Con questi gravi handicap accumulati durante la dominazione del regime di Tito, le comunità italiane stanziate nella Zona B si avviavano verso l’ultima fase dell’annosa crisi giuliana, quella che a partire dalla seconda metà del 1953 avrebbe convogliato la vertenza diplomatica per Trieste verso la sua soluzione definitiva.

I primi sintomi di allerta si fecero sentire quando il 28 agosto 1953 la “United Press” diffuse un messaggio della “Jugopress” enfatizzandolo un po’ troppo rispetto all’originale: il comunicato annunciava che la Jugoslavia aveva “perso la pazienza” con l’Italia e che avrebbe avuto intenzione di andare fino in fondo per quanto concerneva l’annessione della Zona B. A quel punto il governo italiano reagì in maniera vibrante con una dichiarazione di Pella: il 29 agosto il premier italiano dichiarò che se queste erano le intenzioni di Belgrado, Roma avrebbe risposto subito con l’occupazione della Zona A. Non erano soltanto buoni propositi, poiché per dimostrare quanto l’Italia avesse preso sul serio il rischio dell’annessione della Zona B alla Jugoslavia, Pella ordinò lo spiegamento di alcuni reparti dell’esercito italiano in prossimità della linea confinaria. Lo stato di allerta era concreto, e fu elaborato un piano militare denominato “Operazione Delta”. Esso avrebbe dovuto consentire alle truppe italiane di entrare in possesso della Zona A sfruttando l’effetto sorpresa, ma senza spargimenti di sangue e senza l’uso della forza contro gli angloamericani, e soprattutto dando per scontato un dato che non lo era affatto, ovvero che l’esercito jugoslavo non sarebbe intervenuto. Il piano aveva esigue possibilità di funzionare, e venne accantonato per tre motivazioni sostanziali: le preoccupazioni dei vertici militari italiani non promettevano niente di buono in vista del blitz a Trieste; gli alleati, che intanto erano venuti a conoscenza del progetto, erano pronti a difendere l’integrità della Zona A; inoltre, da parte jugoslava arrivò la smentita circa la volontà di annettere la Zona B in quel momento, e tutto l’impianto di strategia militare elaborato da Roma sfumò già nei primi giorni di settembre.

Ma non era questo che contava, bensì il fatto che Roma avesse inviato un significativo segnale di discontinuità sulla politica estera italiana. La virata di Pella era funzionale al cambio di marcia nella partita per Trieste: ora l’Italia era fortemente intenzionata a concentrare i propri sforzi diplomatici sull’ottenimento dell’amministrazione della Zona A, sia per velocizzare la soluzione della vertenza confinaria con la Jugoslavia e sia per acquisire de facto la medesima posizione negoziale di Belgrado sul contenzioso, in quanto l’occupazione jugoslava della Zona B poneva forti limiti all’azione diplomatica italiana. Il messaggio di Pella raggiunse anche Washington e Londra, facendo capire chiaramente agli Alleati le intenzioni di Roma: procedere nella direzione della spartizione del Territorio Libero lungo la linea Morgan. In fondo, anche Gran Bretagna e Stati Uniti si erano già convinti di questa necessità; negli USA in particolare, con la nuova linea di Eisenhower agli inizi del 1953 si era affermata la volontà di eliminare tutti gli intoppi che potevano indebolire il containment americano in Europa. Includendo anche la Jugoslavia nel sistema difensivo occidentale si sarebbero rafforzati gli avamposti alleati contro il pericolo sovietico, ma per ottenere questo risultato era necessario prima stabilizzare la questione di Trieste lungo il confine di zona, e così fu inoltrata la proposta a Belgrado e a Roma. Per i vertici jugoslavi tutto ciò era contemplabile in ottemperanza a due condizioni: il carattere definitivo della soluzione confinaria e la sua regia esterna, perché né l’Italia né la Jugoslavia volevano assumersi la responsabilità della spartizione.

Il giorno 8 ottobre 1953 Stati Uniti e Gran Bretagna, con una Nota Bipartita convennero sui seguenti tre punti: porre fine al Governo militare alleato nella Zona A; ritirare le proprie truppe da Trieste; affidare al governo italiano l’amministrazione della Zona A, considerata la sua naturale pertinenza nazionale. Le reazioni furono molto disparate: mentre l’Italia esultava per il “successo diplomatico” derivante dalla sconfitta di Belgrado, il governo jugoslavo aveva forti dubbi sul carattere definitivo della Nota Bipartita che così si esprimeva: “[...] Tuttavia non verrà richiesto né al governo italiano né a quello jugoslavo di aderire formalmente a questa interpretazione”. Ne conseguì che Tito si oppose con fermezza al passaggio dell’amministrazione della Zona A all’Italia, minacciando addirittura l’intervento armato. A Belgrado e a Zagabria si registrarono manifestazioni di dissenso alla Nota Bipartita con attacchi alle sedi diplomatiche alleate e italiane; In un clima di grande livore nei confronti di “tutto ciò che è italiano” vennero eliminate tutte le scritte e le insegne bilingui a Pola e a Fiume, con immediata soppressione del bilinguismo e con l’entrata in vigore del divieto di utilizzo della lingua italiana sul posto di lavoro.

Anche in Istria le conseguenze della proclamazione della Nota Bipartita si fecero subito sentire: la regione fu investita da una nuova ondata di violenza nei confronti degli italiani, e la Zona B fu completamente isolata dalla Zona A con blocchi marittimi e terrestri. Nonostante ciò, si verificò un consistente afflusso di profughi oltre la linea Morgan già nelle prime settimane dopo l’esplosione della violenza. Del resto gli attivisti dell’UAIS fecero irruzione nelle abitazioni dei cittadini italiani per minacciarli e per intimare loro di lasciare la Zona B, pena la scomparsa coatta per mano degli stessi fanatici militanti comunisti che presidiavano il territorio. Tra “poteri popolari” e attivisti dell’UAIS vi era una sorta di doppio gioco: le autorità jugoslave infatti, non intervenivano esplicitamente sui cittadini accusati di sentimenti filo-italiani, poiché bastava sostenere che non era possibile opporsi alla “volontà del popolo”, ossia alla foga rivoluzionaria degli attivisti che terrorizzavano gli italiani prima di consegnarli alle autorità jugoslave; a queste ultime non rimaneva nient’altro che rilasciare ai disgraziati le “carte di emigrazione”. Sulla scorta di quanto detto diversi gruppi di italiani della Zona B furono costretti a esiliare. Il flusso delle partenze rallentò soltanto alla fine di ottobre, quando appariva evidente che gli Alleati avrebbero rinunciato all’applicazione della Nota Bipartita.

Frattanto, il sopraggiungere di tragici incidenti verificatisi a Trieste nei primi giorni di novembre innescò una nuova crisi. Durante le celebrazioni degli anniversari del 3 e del 4 novembre 1918, avvennero degli scontri tra la polizia civile agli ordini di ufficiali inglesi e l’enorme folla di manifestanti filo-italiani; il clima delle strade e delle piazze andò in escandescenza quando il giorno dopo, nel mezzo di un tripudio di italianità, le autorità alleate aprirono il fuoco sulla folla convinte che fosse in corso un’azione sovversiva contro l’amministrazione angloamericana: rimasero uccise due persone. Il giorno seguente la reazione popolare innescò un’ulteriore spirale di violenza che lasciò a terra altre quattro persone. Purtroppo l’eco degli eventi di Trieste non fece altro che impantanare ancora di più il processo di risoluzione per la spartizione del TLT, e produsse l’ennesima ondata repressiva sugli italiani della Zona B che si protrasse fino a dicembre in una continua escalation di violenza. Almeno 2750 persone furono costrette ad abbandonare il territorio sotto occupazione jugoslava, mentre la crisi economica non risparmiava praticamente nessuno.

Nel primo semestre del 1954 si aprì la falla più sconfortante: maturò la certezza che il Territorio Libero sarebbe stato spartito effettivamente lungo il confine di zona. Fu una doccia fredda per tutti gli italiani che fino a quel momento avevano resistito coraggiosamente alle sopraffazioni delle autorità jugoslave nella Zona B; questa adesso sembrava allontanarsi inesorabilmente sempre di più da Trieste e con soluzione definitiva. Tale convinzione ingrossò spaventosamente le fila dell’esodo istriano, che assunse quindi dimensioni di massa. Cominciava pertanto il “grande esodo” dalla Zona B che sarebbe rimasta alla Jugoslavia, mentre si profilava la conclusione dell’estenuante disputa italo-jugoslava per Trieste.

Il 5 ottobre 1954 a Londra fu sottoscritto un memorandum d’intesa tra i rappresentanti dell’Italia e della Jugoslavia, sotto la regia di Stati Uniti e Gran Bretagna. In realtà si trattava di un accordo pratico che contemplava il passaggio dell’amministrazione della Zona A dal GMA al governo italiano e di quella della Zona B dalla VUJA al governo jugoslavo; tuttavia non implicava necessariamente l’annessione delle rispettive zone al territorio nazionale dei due contraenti.

Ancora una volta dunque, la soluzione oscillava tra ambiguità e provvisorietà; erano almeno tre le buone ragioni per crederlo: l’Italia, da un punto di vista prettamente formale, poteva pur sempre sostenere che non vi era stata nessuna rinuncia sulla Zona B; la Jugoslavia invece, era stata rassicurata circa la definitività della soluzione con dei colloqui precedenti all’accordo; gli Alleati infine, dichiararono di non voler accogliere più eventuali rimostranze inerenti il “nuovo” tracciato confinario.

Nonostante la riconquista della città di Trieste, che poteva conferire all’accordo una qualche parvenza di successo diplomatico per l’Italia, dietro la stipula del memorandum si celava una beffa sconcertante per lo stato italiano; i suoi contenuti erano stati preliminarmente accordati con dei negoziati segreti avvenuti nei primi mesi dell’anno sempre a Londra tra le delegazioni delle tre potenze che occupavano il TLT: USA, Gran Bretagna e Jugoslavia. L’Italia era stata clamorosamente snobbata dalle trattative per il TLT, e quando i governi angloamericani presentarono il pacchetto negoziale già confezionato a Roma, il governo italiano si ritrovò spiazzato, e non poté fare altro che accettarlo.

L’opportunismo diplomatico jugoslavo invece sfruttò fino all’osso il suo potere contrattuale, ottenendo preziose rettifiche confinarie[85], garanzie di tutela per la comunità slovena destinata a restare in Italia, incentivi finanziari per rilanciare l’economia della Zona B e per costruire il porto di Capodistria.

Il memorandum d’intenti prevedeva una riapertura parziale del traffico locale di frontiera tra le due zone (art. 7), ma gli scambi rimasero sostanzialmente paralizzati. Inoltre, molto importante era lo statuto speciale allegato al memorandum per la tutela delle minoranze nazionali rimaste nelle due zone; il regime nazional-comunista di Tito però non si intenerì per niente, continuando a mantenere lo stesso atteggiamento denigratorio nei confronti degli istriani di nazionalità italiana rimasti nella Zona B. Dopo dieci anni di occupazione jugoslava, con la sua politica di trasformazione integrale di tutti gli aspetti della vita quotidiana, i cittadini italiani non riuscivano più a identificarsi in quel territorio, radicalmente capovolto e oramai ostile.

Quando si seppe che il termine di scadenza per l’esercizio del diritto di opzione era di un anno, aumentò bruscamente la volontà di partire e di trasferirsi in Italia con i beni mobili. A farlo furono moltissimi italiani ma anche diversi sloveni anticomunisti; entrambi i gruppi nazionali erano insofferenti allo stato di cose generato dai “poteri popolari” nell’area giuliana. L’unica alternativa alla sofferenza fu l’esodo, ovvero il prolungamento della sofferenza per chi ormai aveva imparato a conviverci durante l’occupazione jugoslava.

In realtà la questione di Trieste si risolse in via ufficiale soltanto molti anni dopo, quando il 10 novembre 1975 i governi di Italia e Jugoslavia siglarono il Trattato di Osimo. L’accordo rendeva effettiva la rinuncia implicita dell’Italia alla sovranità sulla Zona B del Territorio Libero di Trieste, scaturendo furiose proteste tra l’opinione pubblica giuliana. Questa, già fortemente provata da un lungo dopoguerra di violenze e iniquità verso la popolazione italiana dell’area, interiorizzò Osimo come il marchio a fuoco di un’agonia destinata a rimanere nella memoria collettiva. Il 3 aprile 1977 entrò in vigore l’accordo, ponendo così definitivamente fine all’odissea istriana, durata quasi trentacinque anni.

 

3.6 LA LUNGA DISPORA DEI GIULIANO-DALMATI

Il nodo più amaro della questione giuliano-dalmata probabilmente è identificabile nell’esodo massiccio degli italiani che ebbe inizio nel 1944 e si trascinò sino alla seconda metà degli anni Cinquanta, riflettendo tragicamente la delicata congiuntura diplomatico-militare che caratterizzò il lungo dopoguerra dell’Alto Adriatico. In questo arco di tempo furono circa 300.000 le persone costrette ad abbandonare i loro insediamenti storici in Dalmazia (soprattutto Zara), nel golfo del Quarnaro (Fiume, Cherso e Lussino) e nella Venezia Giulia (Istria, entroterra di Trieste e Gorizia), ovvero l’80-90% delle comunità italiane ivi residenti.

Esiste innanzitutto un legame forte tra questo fenomeno migratorio di massa e le stagioni di violenza cui erano state sottoposte le comunità italiane nell’autunno del ’43 e nella primavera del ’45: il ricordo delle foibe e di tutte le altre stragi jugoslave perpetrate nell’area giuliano-dalmata negli anni Quaranta innescò tra la gente una “psicosi d’assedio”, un pesante senso di precarietà, fisica e morale. Nella memoria collettiva sia le foibe che l’esodo appartengono a un unico processo di distruzione dell’italianità adriatica. Tuttavia è certamente l’esodo a possedere il maggior spessore storico nella questione giuliano-dalmata, poiché coinvolse moltissime persone e decretò l’espulsione del gruppo nazionale italiano dal territorio di sua pertinenza storica e culturale. Tale fenomeno causò una spaccatura nella storia dell’Alto Adriatico, e portò come soluzione finale alla quasi cancellazione di una presenza antichissima: umana, sociale, artistica e linguistica, patrimonio inestimabile di una civiltà che conobbe le sue prime vicissitudini attraverso la romanizzazione.

E’ importante sottolineare che questa tragedia non è stata esclusivamente il risultato dei conflitti nazionali esistenti tra slavi e italiani, c’è molto di più di questo: nell’area giuliano-dalmata si impose un processo di “semplificazione etnica” del territorio, dove multiculturalità e plurilinguismo cedettero il passo al sopraggiungere delle ideologie totalitarie del Novecento; l’affermarsi del comunismo nazionalista di Tito inghiottì voracemente secoli di civiltà latina lungo la sponda orientale dell’Adriatico, sottraendo a città intere la loro fisionomia e la loro intelaiatura sociale preesistenti.

Gli italiani giuliani, quarnerini e dalmati vennero espulsi da uno stato federale comunista, la Jugoslavia, le cui pulsioni nazionaliste sfociarono in un sovraccarico ideologico sorprendente. A fuggire dallo squilibrato progetto socialista jugoslavo fu pressoché un’intera comunità nazionale, e i 300.000 esuli italiani dispersi nella Madrepatria e nel resto del mondo[86] giustificano appieno la volontà di definire questa migrazione massiccia con l’espressione “esodo”, ovvero fuga di un popolo intero da una situazione di pericolo o da una calamità.

Prima di analizzare le fasi salienti dell’esodo giuliano-dalmata è opportuno prestare attenzione alle parole con cui Raoul Pupo definisce la portata del fenomeno:

 

Alla partenza in blocco degli italiani si saldò in maniera spesso indistinguibile quella di numerosi elementi sloveni e croati, esasperati dalla durezza del regime comunista jugoslavo e travolti dalla crisi in cui [...] precipitò l’intera economia istriana[87].

 

La partenza di genti slave ostili ai nuovi “poteri popolari” contribuì a rendere colossale il flusso emigratorio, un esodo che durò più di dieci anni perché “frutto di spinte fra loro assai simili ma impresse con ritmi diversi”[88]. La spinta fondamentale per le comunità italiane fu appunto quella di maturare la certezza della cessione delle loro terre alla Jugoslavia. In questo senso allora si potrebbe parlare anche di più esodi riconducibili allo stesso fenomeno migratorio che coinvolse tutta l’area giuliano-dalmata.

Il primo flusso migratorio avvenne nel 1944 da Zara, allorché dopo i pesanti bombardamenti aerei angloamenricani che distrussero la città dalmata furono sfollati via mare i suoi abitanti.

Nel dopoguerra la prima città che si svuotò fu Fiume, saldamente occupata sin dalla primavera del ’45 dagli slavo-comunisti, i quali attuarono una feroce politica persecutoria nei confronti degli italiani con arresti, deportazioni, uccisioni e confische di beni ad ampio raggio. Qui come altrove a fare la differenza fu l’ideologia comunista intrisa di nazionalismo croato, che scoraggiò persino la classe operaia italiana di orientamento comunista ad abbracciare la causa filo-jugoslava. Da Fiume si registrarono partenze di massa sin dal 1946, e dopo che il trattato di pace sancì l’effettivo passaggio della città alla Jugoslavia l’intera popolazione fu coinvolta nella fuga. Ma mentre le masse di fiumani si affrettavano a lasciare la loro città portandosi appresso poche masserizie, accadde un fatto del tutto singolare e in controtendenza rispetto agli eventi. Nei primi mesi del 1947 infatti, avvenne uno spostamento di persone nella direzione opposta: duemila operai dei cantieri navali di Monfalcone partirono per Fiume in cerca di un’occupazione, ma prima ancora vi andarono per fornire il loro apporto alla costruzione del socialismo in Jugoslavia. Pensavano che in fondo il socialismo slavo offrisse delle concrete opportunità di realizzazione personale, un futuro insomma. Fu un’esperienza terribilmente traumatica e umiliante, una parentesi drammatica che culminò quando, a seguito della rottura Tito-Stalin, furono perseguitati e rinchiusi in veri e propri “gulag”; la loro fede internazionalista li tradì amaramente, e chi riuscì a sopravvivere alle torture dei campi di concentramento di Tito[89] fece ritorno in Italia, dove subì la discriminazione dei connazionali indignati dalla scelta compiuta. Comunque, l’avventura di quei duemila comunisti monfalconesi è ricordata dalla storiografia con l’espressione piuttosto eloquente di “controesodo”.

Tornando invece all’esodo giuliano-dalmata, la città istriana che rappresentò per antonomasia la tragedia dei profughi italiani fu Pola. Il capoluogo istriano era rimasto sotto l’amministrazione alleata fino al 1947. Premesso che Pola era una città italianissima, quando il 2 luglio 1946 i negoziati in corso a Parigi lasciarono intendere la futura annessione della città alla Jugoslavia, molti dei suoi abitanti cominciarono a pensare alla soluzione dell’esilio. Occorse poi un fatto gravissimo, che fece maturare anche negli indecisi la convinzione di doverla abbandonare: il 18 agosto 1946, mentre numerosi bagnanti affollavano la spiaggia di Vergarolla nei pressi di Pola, la deflagrazione di 28 mine marine posizionate nelle immediate adiacenze provocò una strage inimmaginabile. 65 morti e 54 feriti. Da successive indagini condotte da una commissione militare britannica del GMA emerse che l’esplosione non poteva essere stata fortuita. Per i polesani il truce episodio fu come un segnale intimidatorio: andarsene, prima che sia troppo tardi. E infatti nel gennaio del 1947 ebbe inizio il trasferimento in massa della cittadinanza grazie a delle motonavi messe a disposizione dal governo italiano. Memorabili furono i viaggi del “Toscana” verso i porti di Ancona, Venezia e Trieste, mentre la città si svuotava sempre di più. Alla fine circa 29.000 polesani optarono per l’esilio, mentre soltanto 3.000 persone decisero di restare sotto la nuova amministrazione jugoslava.

Per quanto riguarda l’Istria orientale e meridionale e in particolare le cittadine di Parenzo, Rovigno e Albona, anche qui le fila dell’esodo si ingrossarono a dismisura.

In queste zone, già sottoposte all’occupazione titina, furono le stesse autorità jugoslave a cercare di attutire la gittata delle partenze con vessazioni, minacce e ritorsioni di ogni tipo nei confronti degli italiani: questi vennero espulsi dal posto di lavoro, sfrattati dalla propria residenza e soggetti a innumerevoli intimidazioni.

Gli jugoslavi frapposero formalmente una moltitudine di ostacoli burocratici alla presentazione delle domande di opzione, per poi respingerle pretestuosamente a loro discrezione. Il comportamento esoso delle autorità verso gli optanti rifletteva una preoccupazione di fondo: se ad andarsene era l’intero gruppo nazionale italiano, depositario di tutte le competenze professionali superiori, questo avrebbe danneggiato gravemente l’economia locale istriana. Tuttavia l’ostruzionismo dei “poteri popolari” non fece altro che esasperare ancor di più la popolazione italiana, innescando una reazione opposta a quella sperata: la gente fu sempre più motivata a partire per liberarsi dal senso di frustrazione e di insofferenza generato dai nuovi venuti.

La situazione appariva ancora più angosciosa per i cittadini italiani della Zona B nella fascia costiera nord-occidentale dell’Istria: Capodistria, Isola, Pirano, Buie, Cittanova e Umago. Qui nella seconda metà degli anni Quaranta a causa della durezza delle disposizioni del regime jugoslavo si verificò un flusso continuo di fughe verso la linea Morgan, e non mancarono episodi particolarmente drammatici: il 20 febbraio 1949 un gruppo di dodici giovani istriani stava cercando di varcare clandestinamente il confine di zona nei pressi di Piemonte d’Istria, ma una pattuglia della polizia segreta jugoslava intercettò i fuggiaschi e con alcune sventagliate di mitra li massacrò senza pietà. Nonostante il clima di terrore percepito, la maggioranza degli italiani tentò di resistere a oltranza alle angherie subite dall’occupatore, sperando che nel frattempo i negoziati per la sorte del TLT prendessero la piega giusta.

Intanto il 23 dicembre 1950 i governi di Roma e Belgrado sottoscrissero una serie di accordi bilaterali che sancivano la riapertura dei termini per l’esercizio del diritto di opzione per la cittadinanza italiana da parte dei residenti nei territori ceduti alla Jugoslavia. Così l’11 gennaio 1951 fu riaperta l’accettazione delle nuove domande di opzione; fino all’11 marzo seguente, termine fissato per la scadenza, vennero presentate migliaia di domande.

La svolta nella Zona B arrivò tra la fine del 1953 e l’inizio del 1954, quando fu chiaro che anche quel territorio sarebbe andato alla Jugoslavia: a quel punto venne presa la decisione collettiva di partire, che si consolidò con la stipula del Memorandum di Londra del 5 ottobre. Il termine di scadenza fissato per l’esercizio del diritto di opzione era di un anno, e questo scaturì un’ondata massiccia di partenze che in poco tempo lasciò nella più totale desolazione le cittadine italiane della Zona B. Partirono davvero tutti questa volta, persino i contadini istriani che mai avrebbero voluto abbandonare i loro appezzamenti terrieri: l’esodo ormai aveva raggiunto la sua dimensione integrale.

Il nodo dell’espulsione della componente italiana dall’Istria non è stato ancora risolto. Ancora oggi ci si chiede se alla base dei comportamenti persecutori delle autorità slavo-comuniste verso gli italiani ci fosse stato un preciso disegno di espulsione dal territorio di pertinenza. A smentire questa supposizione potrebbe essere eventualmente la linea della “fratellanza italo-slava”. Secondo questo approccio della questione, nell’immediato dopoguerra i poteri rivoluzionari si impegnarono “a integrare nel nuovo stato comunista jugoslavo un gruppo nazionale italiano”[90] avente delle caratteristiche assolutamente atipiche rispetto agli equilibri nazionali preesistenti nella Venezia Giulia: numericamente ridotto ai minimi termini, esautorato della sua egemonia economica nella regione e meticolosamente epurato sotto l’aspetto politico. In sostanza l’obiettivo dei vertici jugoslavi era quello di sterilizzare la compagine italiana presente sul territorio rendendola conforme all’orientamento nazional-comunista del regime jugoslavo. Per farlo era necessario “jugoslavizzare” il proletariato giuliano di orientamento socialista, ma dopo la rottura Tito-Stalin del 1948 anche i comunisti italiani dell’Istria, tradizionalmente di ispirazione internazionalista, si dissociarono dalla politica deviazionista di Tito.

Vero è che il regime comunista jugoslavo riuscì ad alterare irreparabilmente l’assetto etnico del territorio giuliano, grazie all’innesto artificiale di nuclei slavi provenienti dall’interno dei Balcani. Essi rinfoltirono la demografia della regione istriana secondo un progetto di ingegneria etnica congeniale alle esigenze espansionistiche dello stato jugoslavo.

L’esodo giuliano-dalmata produsse dunque uno svuotamento consistente di aree fino a quel momento molto popolate. Ma quale fu la spinta a livello personale che fece scattare la molla dell’esilio? Indubbiamente le motivazioni erano molteplici. In primo luogo un ruolo determinante lo giocò la paura: il ricordo delle foibe, degli eccidi e delle violenze subite innescò in molti una fobia da persecuzione, tanto morale quanto fisica; l’oppressione di un regime totalitario che invadeva il vissuto quotidiano della gente in maniera asfissiante; il capovolgimento dell’ordine socio-economico in Istria con la scompaginazione della classe dirigente italiana; il ribaltamento dei rapporti di potere tra mondo rurale e centri urbani nella regione; l’isolamento totale imposto dalle autorità; la chiusura dei rapporti con l’Italia e con Trieste; l’annullamento dei valori tradizionali e delle abitudini sedimentatesi da generazioni nell’area; l’introduzione di nuovi metodi per la misurazione del prestigio sociale e professionale; l’imposizione di nuove norme comportamentali; l’obbligo di usare una lingua sconosciuta nelle relazioni sociali e in pubblico e l’integrazione forzata all’interno di una cultura decisamente lontana da quella latina.

Tutto questo insieme di cose fece lievitare vertiginosamente il senso di estraneità degli italiani al cospetto di una realtà avulsa e trasformata. Pertanto, le comunità italiane storicamente insediate nell’area giuliano-dalmata giunsero alla stessa conclusione: l’impossibilità di preservare, tutelare ed esprimere la propria identità nazionale all’interno dello stato nazional-comunista jugoslavo.

L’esodo proseguì fino all’estate del 1956 con i profughi provenienti dall’ex Zona B, lasciandosi alle spalle anni di violenze e soprusi che hanno scavato un solco profondo nella memoria di chi ha vissuto in prima persona quell’esperienza dolorosa.

Tuttavia per gli esuli giuliano-dalmati che raggiunsero l’Italia le sofferenze non erano ancora terminate: il rientro in patria fu rocambolesco, traumatico, ancora una volta doloroso. L’Italia era in ginocchio dopo le disastrose avventure belliche che l’avevano ridotta a cumuli di macerie, e poi c’erano la fame e l’indigenza a complicare ulteriormente le cose. Tutto l’apparato produttivo italiano era praticamente fuori uso, e l’offerta di lavoro conseguentemente bloccata. Il Paese agonizzava nella totale desolazione; fu immensamente difficile avviare la sua ricostruzione. E soprattutto c’erano i morti, gli scomparsi, i deportati e i feriti a rammentare in ogni istante quanta vita era stata distrutta, quanto dolore consumato: la piaga della sconfitta ardeva come carne al fuoco sulla coscienza degli italiani.

Per molti esuli l’accoglienza fu la continuazione della sofferenza: venivano scambiati per fascisti nostalgici che sputavano sul piatto d’argento che Tito aveva loro offerto; nessuno si rendeva conto in quel frangente che quei profughi erano il prezzo pagato per rimanere italiani, per aver perduto la guerra, per aver accettato la sfida più amara: abbandonare la propria dimora per inseguire un sogno di libertà.

In Italia gli esuli furono accolti all’interno di circa centoventi campi profughi disseminati per il Paese, dove conobbero miseria, scarsa igiene, precarietà e mancanza di spazi intimi. Il disagio si protrasse per molti anni, e ancora nel 1960 si potevano contare dodicimila persone che vivevano all’interno di queste strutture carenti.

Il paradosso non era politico, bensì sostanziale: migliaia di persone avevano deciso di prendere la via dell’esilio per poter continuare a esprimere i propri sentimenti nazionali e per fuggire alle persecuzioni politiche in Jugoslavia; per contro, al loro arrivo in Italia furono esposti alle discriminazioni della sinistra radicale italiana fondate su un assurdo pregiudizio politico, e cioè che quella gente altro non era che un “residuo di fascismo” pericoloso per l’equilibrio del Paese. Soprattutto tra i quadri dirigenti del PCI serpeggiava la convinzione che gli esuli giuliano-dalmati erano dei nazionalisti “in fuga dal socialismo e pronti a fungere da massa di manovra per la reazione in Italia”[91]. Anche la stampa comunista contribuì a diffondere e radicare nell’opinione pubblica di sinistra lo stereotipo dell’esule-fascista.

Fu proprio l’atto dell’esodo a rafforzare tra le masse di profughi il senso di comune appartenenza; quasi subito sorse in Italia una rete di associazioni della diaspora con il compito di tutelare i diritti dei profughi e difendere i valori e le tradizioni delle comunità giuliane e dalmate in esilio. Nel febbraio del 1947 si costituì in Italia un Comitato nazionale per i rifugiati italiani che si occupò dell’inserimento dei profughi all’interno della società italiana, avvalendosi di una rete organizzativa estesa su tutto il territorio nazionale. Nell’anno seguente il comitato si trasformò nell’Opera per l’assistenza ai profughi giuliani e dalmati: furono così elargiti dei finanziamenti per interventi di ampio respiro come nuove urbanizzazioni popolari, scuole e ricreatori. Ne fornisce un esempio lampante la costruzione del villaggio giuliano-dalmata a Roma.

Lo sviluppo economico che investì la penisola negli anni Cinquanta offrì nuove possibilità agli esuli, accelerandone l’integrazione all’interno del tessuto sociale italiano. L’esodo non produsse quindi fenomeni di emarginazione sociale, nonostante le difficoltà d’inserimento iniziali. Probabilmente anche questo aspetto favorì col passare del tempo la rimozione delle vicende giuliano-dalmate dalla memoria collettiva nazionale.


4. DELLE FOIBE E DELL’ESODO: APPROCCI INTERPRETATIVI DIFFERENTI

 

4.1 LE DIFFICOLTA’ E LE TENTAZIONI

Sulle foibe e sull’esodo giuliano-dalmata intenso è stato il dibattito storiografico e talvolta incandescente il suo riversarsi nell’opinione pubblica; quest’ultima, qualora sia suggestionata da strumentalizzazioni fuorvianti, deraglierebbe il proprio focus argomentativo in un vicolo cieco, e cioè nell’impossibilità di confrontarsi obiettivamente con la storia della Venezia Giulia e della Dalmazia. A questo proposito risulta estremamente efficace il concetto di “strumentalizzazione” offertoci da Francesco Piazza, che parla di “sottomissione dell’intelligenza all’ideologia”[92] per asserire alla difficoltà iniziale dell’approccio interpretativo alla questione. Se si cedesse alle tentazioni messe in campo dalla politica probabilmente sulle foibe e sull’esodo potremmo collezionare un “bestiario delle faziosità”, e non di certo un quadro organico e ragionato in grado di fornire all’opinione pubblica stessa degli strumenti interpretativi idonei.

Vi è poi un’altra problematica legata alla memoria, dalla quale la storiografia può trarre degli spunti di ricerca quando questi siano resi compatibili con le metodologie di indagine e con le fonti a disposizione degli studiosi e degli storici.

L’intento dovrebbe essere quello di diminuire, e non accrescere, la forbice creatasi tra cultura storica diffusa e indagini storiche effettuate. La prima è stata ampiamente infiltrata dalla semplificazione storica divulgata dai mezzi di comunicazione di massa, attraverso la logica della spettacolarizzazione degli eventi. La ricerca storiografica per converso agisce mediante l’aggiornamento delle fonti reso possibile dalle acquisizioni degli anni Novanta, periodo in cui lo scenario delle indagini storiografiche si è arricchito grazie soprattutto all’apertura graduale degli archivi fino ad allora non accessibili dagli storici.

Il dibattito storiografico sulle foibe e sull’esodo per decenni è stato incentrato sul nodo della quantificazione piuttosto che su quello delle cause, delle responsabilità e delle dinamiche, in grado di restituire un’oggettività superiore per la comprensione delle stragi avvenute. Sarebbe un errore conferire arbitrariamente alle cifre la responsabilità storica di spiegare il senso, o forse il non senso, delle persecuzioni jugoslave ai danni della popolazione giuliano-dalmata, e in particolar modo ai danni della componente italiana che abitava quell’area prima di prendere la via dell’esilio.

Altra tentazione potrebbe essere quella di distorcere o enfatizzare gli accadimenti per il mero soddisfacimento di obiettivi propagandistici: adottare espressioni come “genocidio”, “pulizia etnica” e “olocausto” per trasferire il loro spessore semantico sulle foibe e sull’esodo risulta comunque un’operazione strumentale; veicolando una nomenclatura sensazionalista per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica si otterrebbe come risultante la mistificazione delle vicende e l’indebita alterazione dei fatti storici.

Dalle tentazioni si passa agli impedimenti che ancora oggi ostacolano la ricomposizione del mosaico storico giuliano-dalmata del Novecento: sulla questione delle persone scomparse dopo essere state tratte in arresto dalle autorità jugoslave purtroppo incide pesantemente l’occultazione documentaria di dati ritenuti fondamentali: attualmente nessuna ricerca è stata effettuata negli archivi anagrafici dei territori ceduti all’ex Jugoslavia, e sembra difficile rimuovere gli ultimi freni alle verità nascoste.

 

4.2 LA POSIZIONE DELLA CHIESA

Con riferimento specifico alle uccisioni avvenute in Istria nell’autunno del 1943 è interessante prendere in esame la posizione della Chiesa cattolica, deducibile in questa sede da un fondo apparso sul settimanale “Vita Nuova” del 4 marzo 1944[93] redatto dal direttore Giorgio Beari e intitolato La “foiba”. Il titolo dell’articolo può trarre un po’ in inganno: il testo è in realtà un saggio molto intenso da cui traspare limpidamente la volontà di condannare la violenza in toto, senza trasformarla in strumento di propaganda riciclabile all’occorrenza. Elevandosi a soggetto super partes, l’autore “denuncia ogni tipo di sopraffazione nazionale, razziale e ideologica”[94], senza discriminare tra nazismo e barbarie slava. Dopo aver fornito un esaustivo “decalogo della violenza” in cui trovano condanna i più disparati metodi di sopraffazione utilizzati dal genere umano, l’autore li sostanzia con parole che troverebbero anche oggi la loro legittimazione letteraria:

 

Tutte, insomma, le più sfacciate e arbitrarie violenze contro uomini e cose sono altrettanto tristissime realtà di cui è oggi intessuta la vita di popoli interi.

Tutto ciò dimostra che i seguaci di ideologie diverse – anche se in netta e spesso sanguinosa antitesi fra di loro nei principi, nelle finalità e negli interessi – s’incontrano invece in maniera sorprendente [...] in sistemi di vita che sembrano escludere a priori qualsiasi valutazione umana (non dico cristiana) dell’uomo[95].

 

Da queste righe emerge l’impostazione imparziale con cui l’autore riesce a sganciarsi da qualsiasi tentazione di schieramento; le foibe dunque, sono condannate perché espressione truculenta di una violenza di massa, non certo perché rappresentative di un’ideologia.

 

4.3 LE TESI CONFLITTUALISTE

Nel “bestiario delle faziosità” trovano pieno riconoscimento due orientamenti che si collocano tra loro agli antipodi, in quanto espressione di un antagonismo ideologico che produce una loro agevole confutabilità. Si tratta di due visioni aventi forza uguale e opposta, l’una di parte italiana, l’altra di parte jugoslava. Nonostante la loro effettiva fragilità scientifica, si riscontra ancora oggi una loro ampia diffusione, soprattutto negli ambienti politici e dell’opinione pubblica italiana e d’oltre confine.

Sono patrimonio esclusivo di una memoria settaria, che permette di riciclarle a oltranza quando l’uso che se ne vuole fare è sostanzialmente politico. Il loro approccio semplicistico alle questioni delle foibe e dell’esodo risulta assai congeniale anche per un loro utilizzo mass-mediatico.

In questa categoria periferica e politicamente impostata, che offre una rilettura a senso unico delle foibe e dell’esodo, si annoverano le tesi di “genocidio nazionale” e di “pulizia etnica”, proprie dell’estrema destra italiana, che le ha interiorizzate come strumento di legittimazione ideologica nel panorama politico nazionale. E’ evidente che esse amplifichino il fenomeno delle foibe come un premeditato progetto di eliminazione integrale dell’elemento italiano dall’area giuliano-dalmata, equivocando che esso fu uno degli aspetti specifici di una questione molto più complessa.

Quanto a quelle di pertinenza jugoslava, si può parlare di tesi “riduzioniste” quando esse circoscrivano la portata delle violenze slavo-comuniste soltanto ad una cerchia ristretta di categorie di persone: nazisti, fascisti (quelli veri [N.d.A.]), camice nere, criminali di guerra, collaborazionisti e delatori. In base a questa supposizione, le migliaia di civili deportati e fatti sparire per mano jugoslava dovrebbero corrispondere a qualche sparuto gruppetto di assassini sanguinari e spie; ovviamente anche questa interpretazione è frutto di una congettura faziosa che la rende assai poco difendibile. Assolutamente non argomentabili risultano invece le tesi “negazioniste”, proprie di un estremismo ideologico di segno opposto rispetto a quelle di avvocatura italiana: secondo questa linea interpretativa, le foibe non sono altro che un’invenzione della propaganda fascista, frutto di un’immaginazione politica volta a screditare le imprese belliche dei partigiani comunisti jugoslavi, considerati per la cronaca “liberatori”. Sulla stessa lunghezza d’onda si posiziona la tesi di Paolo Parovel, secondo il quale “[...] le cosiddette foibe sono le basi psicologiche e propagandistiche di un molto pericoloso razzismo nazionalistico antisloveno”[96]. Anche da questa dichiarazione traspare una cecità politica impressionante, in grado da sola di smontare anche la più lontana parvenza di criterio. In coda a queste tesi si posizionano anche quelle di “mistificazione storica”, lontanissime anch’esse da quell’oggettività richiesta dal dibattito storiografico. Quel che le rende sostanzialmente inaccettabili è il loro rifiuto aprioristico del dato storico: le foibe ci sono state; si sono effettuati numerosi recuperi e rinvenimenti di corpi e di resti umani, e ad alcuni di loro è stato possibile dare un volto e un nome; spesso si trattava di persone (soprattutto italiani, ma anche sloveni e croati) totalmente estranee dalla vita politica, e quindi arbitrariamente giustiziate dagli slavo-comunisti.

 

4.4 STORICIZZAZIONI DEL PASSATO

I primi studi riconducibili alla volontà di inquadrare le foibe in un nesso storico coerente risalgono agli anni Sessanta e Settanta. Gli esperimenti da cui provengono gli spunti più considerevoli sono quelli di Galliano Fogar, Bogdan Novak e Diego de Castro.

Fogar[97] si concentra soprattutto sulle uccisioni del ’43, restituendoci un’analisi più coraggiosa rispetto a quelle summenzionate:

 

[...] L’eccidio di alcune centinaia d’italiani che sono fucilati o scaraventati nelle voragini carsiche (“foibe”) dopo sommari processi, ha il carattere di una rappresaglia brutale. [...] E’ la lotta di classe identificata con quella nazionale per cui nazionalismo e socialismo diventano sinonimi nella guerra al nemico italiano. Uno degli obiettivi che alcuni dirigenti slavi vogliono conseguire, il più presto possibile, è la distruzione della classe dirigente istriana [...] in modo da assicurarsi il controllo totale del potere[98].

 

Dunque “rappresaglia brutale” e “lotta di classe” sembrano essere gli elementi fondanti dell’esplosione di violenza in Istria nell’autunno del 1943; interessante poi l’equazione “lotta di classe sta a lotta nazionale come socialismo sta a nazionalismo”, un aspetto questo, che troverà presto il suo riscontro nel nazional-comunismo di Tito. Per Fogar l’obiettivo dei quadri del PCC era la distruzione della borghesia italiana volta all’ottenimento del potere sull’intera regione.

Durante gli anni Settanta si sviluppò l’approccio interpretativo dell’eccesso di reazione, il cui assunto di base era fondato sulla convinzione che gli eccidi del ’43 e del ’45 erano il frutto acerbo di una più ampia stagione di violenza inaugurata durante il ventennio fascista con la politica di oppressione verso le minoranze slovena e croata. In particolare “le foibe si prestano a venir lette come un fenomeno di reazione, come una resa dei conti brutale e spesso indiscriminata compiuta da parte di popolazioni oppresse e stremate nei confronti dei loro persecutori”[99]. Tuttavia la volontà di porre l’accento sulla risposta per motivare le stragi jugoslave appare apprezzabilmente in difetto, giacché esclude a priori l’esistenza di un “qualsiasi disegno organico di persecuzione politica”[100], seppur dai contorni piuttosto incerti. Relativamente alla primavera del ’45, l’approccio dell’eccesso di reazione sembra intentare una minimizzazione della portata degli eccidi, relegandoli a fatti marginali rispetto all’affermarsi del progetto socialista jugoslavo nella Venezia Giulia. In questo caso però non siamo di fronte allo spontaneo divampare del furore popolare represso per lunghi anni, bensì al cospetto “di una ponderata strategia di annichilimento del dissenso”[101]. Concludendo, l’eccesso di reazione sembra non essere in grado di stabilire una connessione tra il fenomeno delle foibe e il contesto politico di riferimento nella Venezia Giulia di allora.

Passando a Novak[102] ci si accorge subito come cambi la sostanza dell’approccio alla questione:

 

La parola fascismo fu usata sia dagli jugoslavi sia dagli occidentali per intendere realtà profondamente diverse. Accettando l’interpretazione jugoslava, secondo la quale era fascista ogni virtuale avversario del comunismo, si possono meglio comprendere le persecuzioni compiute dagli jugoslavi nella Venezia Giulia. Quelli che a Cox e agli altri osservatori occidentali sembravano soltanto arresti ingiustificati, assumono l’aspetto di un coerente piano di persecuzione[103].

 

E’ evidente il cambio di rotta, il passaggio a un’interpretazione del fenomeno riconducibile anzitutto al suo nesso politico: la rivoluzione comunista jugoslava che spazza via i suoi oppositori attraverso l’esercizio della violenza di massa. Quanto alle tesi dell’opinione pubblica italiana dell’epoca, Novak contesta l’interpretazione dei fatti secondo un’ottica incentrata sulla persecuzione a sfondo etnico, rammentando invece l’incidenza di quella a sfondo politico:

 

Il punto debole di questa interpretazione italiana sta nell’attribuire tutta la colpa delle persecuzioni al nazionalismo sloveno e croato, trascurando invece il ruolo svolto dal comunismo. E’ vero che Tito aveva organizzato il movimento partigiano sfruttando i sentimenti nazionalistici di sloveni e croati. L’importanza del nazionalismo non può essere negata. A ogni modo, l’obiettivo primario dei partigiani di Tito era allora quello di ottenere il potere assoluto in Jugoslavia e di estendere il regime comunista il più possibile verso occidente[104].

 

Con queste righe Novak antepone la causa rivoluzionaria al sottofondo nazionalista croato e sloveno, pur non smentendo la concorrenza di quest’ultimo nella realizzazione del progetto comunista jugoslavo nella Venezia Giulia.

Infine con de Castro[105] sembrano definitivamente tramontare le tesi costruite esclusivamente su un impianto ideologico per fare spazio finalmente a un’analisi più accurata e più riflessiva degli eventi:

 

Noi italiani abbiamo sempre sostenuto che le uccisioni e le deportazioni servivano per cambiare la proporzione etnica nella Venezia Giulia. Certamente servivano anche a questo, ma lo scopo principale era quello di eliminare coloro che, per il loro passato, potevano essere ritenuti nemici del comunismo anche nel futuro. Così dal 24 al 31 maggio 1945 furono massacrati almeno diecimila jugoslavi (domobranzi e cetnici), senza processo, nella foresta di Kocevje, dopo che gli inglesi li avevano consegnati ai partigiani di Tito[106].

 

Dalla testimonianza autorevole di de Castro ci si può rendere conto delle assurde contraddizioni che soggiacevano all’affermarsi devastante dei nuovi poteri. Il progetto totalitario voluto da Tito non guardava in faccia a nessuno, tantomeno agli oppositori interni.

 

4.5 STORICIZZAZIONI DEL PRESENTE

La nuova storiografia ha prodotto i suoi risultati più apprezzabili a partire dalla fine degli anni Ottanta, ovvero quando il panorama europeo di riferimento iniziava a schiudere lentamente le sue trasformazioni politico-sociali, avviandosi verso l’attuale stagione della riconciliazione. Il lavoro storiografico nel frattempo si integrava grazie a importanti acquisizioni storico-documentarie, rese possibili dall’apertura degli archivi di stato e dall’innovazione delle pubblicazioni sull’argomento.

Uno studio che ha conseguito un ampio riconoscimento nella storiografia italiana contemporanea è certamente quello di Elio Apih. La tesi dell’epurazione preventiva, relativa alla primavera del 1945 nella Venezia Giulia, regge molto bene al vaglio della critica, e si sviluppa concettualmente nella distinzione tra “furor popolare” e “sostanza politica”: il primo da intendersi come scenario entro il quale i fatti di sangue dell’epoca si possono collocare, ma non di certo sostanziare; la seconda è espressione di una “volontà organizzata” ineccepibile che orienta l’esercizio della violenza contro gli oppositori reali e presunti, dando luogo a uccisioni sommarie, non ultime quelle avvenute nelle foibe del Carso per mano degli jugoslavi. A questo proposito Apih è molto chiaro: “Governa uno stato che attua una rivoluzione (l’azione di sangue, è noto, ci fu anche in larga parte della Jugoslavia) ed esso si afferma coi modi propri delle rivoluzioni”[107].

Anche il contributo di Roberto Spazzali risulta utile alla comprensione del fenomeno delle foibe, inserite nel contesto più organico delle stragi jugoslave. Di esse la storiografia italiana si è troppo spesso disinteressata, mentre frequente è stato il loro uso pubblico nella Venezia Giulia. Così ha prevalso l’incompatibilità interpretativa del fenomeno tra opinione pubblica e ricerca storica:

 

L’opinione pubblica raccoglie un sentimento comune diffuso, quello che la residua Venezia Giulia si trovi a pagare colpe non sue e a subire decisioni altrui, e in tutte queste occasioni il tema delle Foibe scandisce i momenti di dibattito ma anche di scontro, tra i più acuti, a dimostrazione di un passato per nulla interiorizzato da una parte della pubblica opinione e della classe politica [...][108].

 

Secondo Spazzali dunque, nell’opinione pubblica giuliana le foibe sono assurte a rappresentare lo strumento più doloroso di un ampio processo di snazionalizzazione, che trova la sua espressione congenita nel terrorismo jugoslavo; quest’ultimo in Istria avrebbe decretato l’esodo di massa della popolazione di sentimenti italiani, mentre a Trieste e Gorizia avrebbe lasciato profonde ferite nella memoria collettiva.

Un altro contributo interessante è quello fornito da Raoul Pupo nell’opera Matrici della violenza tra foibe e deportazioni[109]. L’autore invita a riflettere sulle foibe anche come fenomeno ascrivibile nella storia jugoslava: non va dimenticato il ruolo centrale che ebbe la violenza titina nell’esperienza della guerra civile jugoslava per la presa del potere e per il suo consolidamento nel dopoguerra. Ovviamente le foibe devono essere inserite a maggior ragione nel contesto della storia giuliana del Novecento: “[...] nella Venezia Giulia, vediamo all’opera una rivoluzione vittoriosa che si trasformava senza soluzione di continuità in un regime stalinista, capace di convertire la carica rivoluzionaria in violenza di stato”[110]. Per rapportare la tragedia delle foibe e delle violenze jugoslave al contesto mondiale dell’epoca, ricordiamo come abbia influito “[...] l’essere stata la Venezia Giulia terra di frontiera non solo fra etnie e stati, ma fra due mondi – quello occidentale e quello comunista – che in questa parte d’Europa erano già contrapposti”[111]. Questa attenta osservazione rammenta che all’origine del dramma consumatosi nella Venezia Giulia nel ’45 si inseriva a pieno titolo anche l’embrione del bipolarismo.

In linea con questi ragionamenti si colloca anche Foibe: l’eredità della sconfitta[112], di Giampaolo Valdevit, storico giuliano di ispirazione marxista. Nel suo saggio l’autore spiega come le violenze della primavera del 1945 siano il risultato dell’attuazione del progetto di presa del potere nella Venezia Giulia da parte del Partito comunista jugoslavo. Le foibe e le deportazioni avvenute nel biennio ’43-’45 possono essere considerate dunque come la conseguenza dell’affermazione di una violenza di stato, in un condensato di violenza che annovera tre elementi distintivi: totalitarismo, politica di potenza (nation building) e terrorismo. Altro spunto interessante di questa trattazione risulta essere quello relativo all’esistenza di un nesso specifico tra le deportazioni e le uccisioni avvenute nel ’45, come sostiene Valdevit:

 

La morte non viene affatto “messa in piazza”, al contrario la si occulta. E’ la deportazione invece che viene “messa in piazza”: nei primi giorni di maggio cortei di deportati percorrono la città prima di essere trasferiti altrove. C’è dunque una combinazione di esibizione-occultamento; ed è l’aura di mistero (quanto alla sorte dei deportati) che accompagna la loro ostentazione a massimizzare l’effetto deterrente che da essi, con ogni probabilità, si aspetta il regime che attua il communist take over, un regime che con la sua ferrea volontà di egemonia anticipa i tratti del totalitarismo[113].

 

Il binomio “esibizione-occultamento” sembra essere così una strategia mirata all’annichilimento della componente italiana, che si opponeva attivamente o passivamente all’instaurazione dei nuovi poteri nella regione. A corroborare la volontà annessionista dei “poteri popolari” provvide anche una forte dose di nazionalismo sloveno e croato, discioltosi all’interno della causa rivoluzionaria e quindi utile al conseguimento degli obiettivi prefissati dai vertici jugoslavi: l’ala nazionalista del movimento di Tito rivendicava che quasi tutti gli italiani della Venezia Giulia erano soltanto degli “ospiti non graditi” e non autoctoni, privi pertanto di quel diritto all’autodeterminazione che era invece patrimonio legittimo della componente slava ivi residente. Per i nazionalisti sloveni e croati era importante veicolare nella regione un messaggio preciso rivolto alla società giuliana di nazionalità italiana, ovvero palesare “la volontà di negare alla componente italiana un ruolo di soggetto dotato di identità autonoma sotto il profilo politico-istituzionale, e quindi di costringerla a una forma di presenza subalterna [...]”[114] nel territorio.

In ultima analisi è doveroso confrontarsi con la storiografia d’oltre confine, cercando di instaurare con essa un rapporto diverso rispetto a quello del passato; purtroppo sul tema delle foibe imperversa ancora un atteggiamento capzioso che stenta a riconoscere la configurazione del fenomeno dentro il proprio habitat di pertinenza. Parlare di foibe significa anzitutto parlare degli eccidi compiuti dagli jugoslavi nell’ultima fase cruenta del II conflitto mondiale e nell’immediato dopoguerra. Le foibe rientrano così nell’ambito delle stragi jugoslave perpetrate arbitrariamente contro un “nemico” che aveva colpe molto discutibili, contro alcune categorie di oppositori che oscillavano tra l’assurdo e il paradossale, contro un orizzonte di democrazia che era faticosamente affiorato sul finire della guerra, ma che fu stroncato sul nascere. Anche Nevenka Troha[115] offre un contributo interessante allo sforzo comune che si dovrebbe fare per condannare unanimemente una tragedia del passato, senza ritorcerla strumentalmente sulla costruzione di un futuro condivisibile:

 

Nella Venezia Giulia la cosiddetta “pulizia” veniva eseguita dalle autorità jugoslave (e anche in altre parti della Jugoslavia), con un ulteriore scopo: impedire al più presto il formarsi di una potenziale opposizione che potesse presentare un ostacolo alle nuove autorità comuniste e [...] contrastare anche chi era contro l’annessione alla Jugoslavia. Così gli arresti (e meno spesso le uccisioni) colpirono anche gli antifascisti. Alcune persone furono uccise per errore, altre per motivi di vendetta personale[116].

 

Da questo estratto si desume anche un fatto tutt’altro che circostanziale se inserito nel contesto bellico e post-bellico: la guerra, qualunque essa sia, lascia sempre fuoriuscire delle recrudescenze inspiegabili se sottoposte unicamente a un giudizio rigido e schematico dell’uomo. La nuova sfida dell’odierna storiografia è oggi, e sarà domani, quella di discernere dinamiche e fattori che hanno portato l’ingerenza del mondo della politica ad appropriarsi per sessant’anni di una tragedia così immane.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

POSTFAZIONE

 

La questione giuliano-dalmata dopo più di sessant’anni si presenta alla porta della memoria degli italiani chiedendo di poter entrare, definitivamente e a pieno titolo, nella coscienza nazionale del nostro Paese. Argomenti come “foibe”, “esodo”, e “confine orientale d’Italia” sono stati colpevolmente taciuti per più di mezzo secolo, e anche chi scrive si è chiesto per quale ragione. Un pezzo di storia che alla nostra Repubblica sta un po’ stretto, giacché mette giudiziosamente in discussione i suoi valori e soprattutto i suoi miti fondanti. Il mito della Resistenza e quello della “vittoriosa guerra di liberazione” hanno incessantemente cercato di sbarazzarsi della tragedia vissuta da nostri connazionali tra il 1943 e il 1956*, rifiutando a priori una revisione obiettiva di ciò che accadde; e cioè che la guerra fu persa, così come furono perdute consistenti porzioni di territorio che appartenevano allo stato italiano nell’area giuliano-dalmata. Migliaia di persone trovarono la morte in circostanze paradossali, e gli italiani che risiedevano in quelle zone da generazioni furono costretti ad abbandonare i loro insediamenti per sfuggire alla morsa di un regime.

Purtroppo, che piaccia o no, bisogna riconoscere che alla base di questi miti risiede un’incongruenza sostanziale con le atrocità consumatesi nell’Alto Adriatico, mentre il resto d’Italia si accingeva a celebrare la fine dell’incubo nazifascista. La primavera del 1945 ha significato molto per il nostro Paese, e nessuno potrebbe negare l’importanza del 25 aprile come passaggio storico alla libertà. Tuttavia è giunto finalmente il momento di restituire pari dignità a chi in quei giorni anzichè gioire veniva travolto da un’ondata di violenza impressionante: foibe, deportazioni, fosse comuni, uccisioni sommarie, campi di concentramento, eccidi di massa, stragi e, soprattutto, esilio come soluzione finale di un’escalation drammatica. Chi erano? Erano italiani, proprio come noi; avevano solo la sfortuna di essere italiani giuliani, istriani, fiumani, quarnerini e dalmati, ovvero coloro ai quali fu affibbiata l’infausta etichetta di capro espiatorio delle avventure belliche del nostro paese e dell’esito finale del conflitto. E ripetiamolo: l’Italia la guerra l’ha perduta, e l’esperienza della Resistenza dovrebbe essere levigata più accuratamente dall’opinione pubblica nazionale; un’esperienza intrisa di ambiguità, soprattutto per come operò nell’area nord-orientale della Penisola. Qui le contraddizioni del movimento resistenziale italiano ebbero la loro massima dilatazione, per culminare talvolta in scelte di campo inammissibili, che appoggiavano de facto le pretese espansionistiche jugoslave sul territorio italiano. Non si può e non si deve più nascondere che l’ala radicale rivoluzionaria della Resistenza giuliana a un certo punto si sottomise all’ingerenza della resistenza slovena e croata (con la famosa “svolta d’autunno” del 1944), determinando una spaccatura insanabile con il CLN della regione, espressione assoluta dell’antifascismo italiano. Crediamo che su questi temi “caldi” si debba avere il coraggio di voltare pagina sì, ma prima ancora di eliminare i vizi storici di quella precedente. Un segnale di forte discontinuità e di scostamento dai fantasmi del passato che non hanno più ragion d’essere e d’esistere nell’odierno contesto socio-politico europeo.

Ma torniamo alla tragedia dei giuliano-dalmati; sulle foibe e sull’esodo le definizioni coniate giustamente si sprecano: “oblio coatto”, “verità nascosta”, “verità sottaciuta”, “congiura del silenzio”, “memoria negata”, “rimozione storica”, “storia rimossa”, ecc.; il filo conduttore rimane comunque lo stesso, e cioè un escursus storico che si può articolare in tre stagioni storico-politiche fondamentali: il sipario della guerra fredda; il crollo del sistema bipolare e il disfacimento della Jugoslavia; la redenzione della memoria.

Nel primo sono intervenuti molteplici fattori che hanno inciso in maniera preponderante sulla volontà di accantonare una verità scomoda, imbarazzante e destabilizzante per la politica estera italiana e per gli equilibri geo-politici dell’Europa centro-orientale. Innanzitutto è bene precisare che l’Italia pagò pesantemente la sconfitta nella II guerra mondiale; la moneta con cui a Parigi dovette estinguere il proprio “debito” fu quella dei territori ceduti alla Jugoslavia nell’area giuliano-dalmata, territori dove la presenza italiana era un dato storico prima ancora che un dato di fatto, e le conseguenze del trattato di pace furono disastrose per gli italiani ivi residenti. Successivamente, nel nuovo contesto della “cortina di ferro”, la Jugoslavia non allineata di Tito diventava paradossalmente per lo stato italiano un importantissimo sbarramento, nell’ottica della non poco preoccupante minaccia sovietica. L’Italia era uscita stravolta dal conflitto: indebolita militarmente e ridimensionata sotto l’aspetto politico-diplomatico in Europa, non poteva fare altro che avviare una proficuo rapporto di “amicizia” col vicinato balcanico. La Jugoslavia si rivelò inoltre un ottimo partner economico, in grado di offrire condizioni vantaggiose alla politica estera italiana, impegnata a riconquistarsi un ruolo da protagonista nel panorama europeo post-bellico. Certo la vertenza confinaria italo-slava per la Zona B si trascinò fino alla fine degli anni Settanta, ma la sua risonanza su scala nazionale passò in secondo piano con i governi Moro e Andreotti, depositari di Osimo (nov. 1975) e della sua ratifica (apr. 1977). L’argomento delle foibe e dell’esodo venne messo da parte (ingiustamente [N.d.A.]) anche nelle logiche della politica interna italiana, considerato appunto destabilizzante per l’orientamento politico del paese, il cui baricentro oscillava tra democristiani, socialisti, socialdemocratici, liberali e repubblicani, con il PCI a fare da fanalino di coda. L’assetto era dunque proteso a sinistra, e certe verità avrebbero precluso a talune forze politiche (alias partiti [N.d.A.]) la loro legittimazione e la loro coerenza tanto in parlamento quanto al governo.

La seconda stagione per la questione giuliano-dalmata si sviluppa con delle tappe forzate a partire dagli anni Ottanta: proprio nel 1980 morì il maresciallo Josip Broz Tito, aprendo così una falla incolmabile nella Jugoslavia comunista; nel 1989 cadde il muro di Berlino; nel 1991 si dissolse il colosso sovietico; nel 1992 le spinte autonomiste delle repubbliche di Slovenia e Croazia portarono alla disgregazione dello stato jugoslavo e alla guerra civile a sfondo etnico all’interno del paese. In poco più di dieci anni si realizzò il sogno democratico dell’Europa dell’Est che culminò con il crollo dei regimi comunisti e con la fine della guerra fredda. Tutto questo ebbe delle ricadute positive a livello nazionale sulla questione giuliano-dalmata; l’apertura degli archivi di stato e delle frontiere incentivò da una parte l’iniziativa storiografica, dall’altra un atteggiamento più distensivo delle forze politiche italiane verso la problematica ancora irrisolta. Tuttavia con tangentopoli e mani pulite in Italia imperversò una gravissima crisi interna che sconvolse l’opinione pubblica del Paese nei primi anni Novanta: l’attenzione verso il disastrato mondo della politica interna italiana si appropriò dell’intera scena nazionale, che vedeva protagonista il tramonto della “prima Repubblica”.

Negli anni seguenti la lenta e difficoltosa ristabilizzazione degli equilibri interni ha inaugurato in Italia l’ultima stagione, quella della redenzione della memoria. La rimozione degli ultimi sigilli “politici” si è concretizzata proprio in questi ultimi anni e ha portato a termine un percorso di “purificazione della memoria nazionale”. Grazie all’avvenuta maturazione del tema delle foibe e dell’esodo all’interno della sinistra e alla concertazione con cui le forze politiche del nostro paese hanno gestito questa operazione è stato raggiunto un obiettivo importantissimo per la tragedia giuliano-dalmata: il suo riconoscimento ufficiale nella Repubblica Italiana. L’11 febbraio e il 16 marzo 2004, rispettivamente alla Camera e al Senato è stata sottoposta alle votazioni una legge che istituisce il Giorno del ricordo in memoria delle vittime delle Foibe, dell’Esodo giuliano-dalmata e delle vicende del confine orientale d’Italia. Per comprendere in maniera irreprensibile l’esito delle votazioni crediamo sia sufficiente fornire i dati della Camera dei deputati: 502 i voti favorevoli, 15 i contrari, 4 gli astenuti. Al Senato la legge ha bissato con il medesimo suffragio di voti a favore. Per dovere di cronaca si aggiunga che l’esiguo drappello di contrari rappresenta oggi in parlamento l’ala più radicale della sinistra, ancora allineata a un vetusto concetto ideologico della faccenda, mentre tutte le altre forze politiche di destra, di centro e di sinistra sono risultate in simbiosi perfetta tra di loro. La legge (detta anche “Legge Menia”) del 30 marzo 2004 n. 92 istituisce all’art. 3 il Giorno del ricordo, e conferisce ad esso la qualifica di solennità civile della Repubblica. Il giorno prescelto è stato il 10 febbraio, data della firma del Trattato di Parigi del 1947 che sancì ufficialmente l’inizio della diaspora giuliano-dalmata, anche se in realtà questa era già iniziata dal ’44. La Legge 92/2004 istituisce inoltre il conferimento della “Medaglia in memoria degli infoibati” ai congiunti delle vittime: coniugi, figli, nipoti e congiunti fino al sesto grado. Il 10 febbraio di quest’anno in tutta Italia hanno avuto luogo le manifestazioni per la celebrazione del Giorno del ricordo. A Trieste, ribattezzata “capitale morale dell’Esodo” in virtù del valore simbolico del capoluogo giuliano, hanno partecipato anche le autorità dello Stato, nelle persone di Gianfranco Fini, vicepresidente del Consiglio dei Ministri, e di Mirko Tremaglia, ministro per gli italiani nel mondo.

A conclusione di questo estenuante percorso storico-politico che ha portato dopo sessant’anni al riconoscimento ufficiale della tragedia dei giuliano-dalmati in Italia, ci sembra doveroso chiudere questa trattazione così complessa con la voce indubbiamente più autorevole: la voce dell’Esodo. Per questa ragione riportiamo con grande senso di solidarietà nazionale le parole di un’esule che ha trovato il proprio rifugio in Canada, ma che rappresenta la voce di tutti gli italiani giuliano-dalmati in esilio:

 

“La Patria è una realtà dello spirito con le sue misteriose leggi alle quali la nostra anima non potrà mai dar scacco”.

 Claudio Antonelli

 

CONCLUSIONI

 

Al termine di questo percorso di trattazione sulla storia giuliana e dalmata è doveroso tracciare le coordinate che hanno condotto all’individuazione di alcuni punti nevralgici tra storiografia, opinione pubblica e memoria.

Innanzitutto di che memoria si tratta? Anche in questo caso siamo di fronte ad una nomenclatura complessa, che può soggiogare facilmente le coscienze sacrificandole in nome di questa o quella ideologia: “memoria condivisa” oggettivamente sembra un’espressione che non soddisfa appieno i criteri di obiettività imposti dalla storiografia e dalla ricerca scientifica, poiché accomunerebbe vissuti drammatici tanto simili quanto opposti; non ci pare ragionevole poter mescolare delle storie che si contrappongono vicendevolmente sul palcoscenico della verità, o meglio delle verità. Sì, perchè nessuna verità può essere eletta suprema, assoluta e incontaminata, quando altre verità concorrono al soddisfacimento del bisogno di conoscenza dell’uomo e delle sue articolazioni sociali: la famiglia, la scuola, l’associazionismo, e la società stessa.

Progettare orizzonti culturali compatibili è possibile, e siamo tutti potenziali attori dello stesso processo: l’integrazione europea. La strada intrapresa ci permette di arricchire la nostra cittadinanza di valori che certamente trascendono dai rancori del passato e dalle remore ancora agganciate al nostro presente.

Recentemente il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha forgiato una definizione tanto semplice quanto efficace con espresso riferimento alla questione giuliano-dalmata; questa deve essere anzitutto “memoria unita”: in essa devono risiedere tutte le circostanze del caso, devono essere rimosse unilateralmente le amnesie dell’opportunismo politico, che per più di mezzo secolo hanno esiliato questo pezzo di storia nazionale italiana ai confini della ragione. E’ inammissibile che per sessant’anni siano venute prima le ragioni di stato e poi quelle della storia, e la storia si sa, la fanno gli uomini.

Invitiamo quindi la storiografia nazionale a confessarsi, a riflettere sui miti che l’hanno condizionata e accompagnata durante la “Prima Repubblica”, miti che hanno sepolto tra le macerie del nostro paese un barlume di verità, scomoda verità, destabilizzante verità.

Sulla questione giuliano-dalmata si può dire ancora molto, e questa volta possiamo farlo con la massima coralità, sfuggendo ai dogmi storici ancoratisi all’opinione pubblica italiana degli ultimi sessant’anni.

E’ possibile parlare di foibe e di Esodo senza considerare il “laboratorio della catastrofe” fascista nell’area giuliano-dalmata? Crediamo di no. Crediamo anche che si debba conoscere tutta la storia delle terre alto-adriatiche, che non inizia certo nel 1918 né tantomeno finisce nel 2005. C’è un “prima” a tutto questo, e non si tratta assolutamente di retorica. La civiltà giuliano-dalmata ha una storia plurimillenaria, i cui ritmi sono stati scanditi per secoli e secoli da popolazioni che hanno lasciato segni indelebili di cultura e costume. Prima i Romani e poi la Serenissima sono stati testimoni prestigiosi della latinità adriatica sviluppatasi lungo la costa dalmata e giuliana. Questa straordinaria civiltà ha rimesso poi all’italianità adriatica il compito di sospingerla verso la sfida più ardua: la sopravvivenza. Nell’ultimo passaggio, che l’ha condotta alla contemporaneità otto-novecentesca, la rotta di collisione con le popolazioni slave ha spezzato bruscamente il suo ancestrale retaggio storico. Non ha saputo reggere ai contraccolpi storico-politici causati dall’alternarsi della sovranità territoriale nell’Alto Adriatico: prima l’Impero asburgico, poi lo stato fascista italiano, e infine, il suo ultimo irriverente padrone jugoslavo, che se ne è sbarazzato agevolmente attraverso la sua politica sciovinista.

Riflettiamo anche noi, dunque, sulla rieducazione storica da incentivarsi nel nostro paese per evitare aberranti equivoci; per evitare ad esempio, che luoghi come Rovigno d’Istria, Pola, Cherso, e molti altri siano offerti nei pacchetti turistici dei tour operator italiani come “meravigliose perle croate”, delirante etichetta commerciale di una disinformazione di massa. Anche sulla Dalmazia si è fatta poca informazione culturale, nonostante essa rappresenti una pietra miliare della nostra antichissima civiltà latina, germogliata sulla costa dalmata più di duemila anni fa.

In sostanza, in una determinata area geografica una cosa è la sua gestione politico-amministrativa, un’altra è invece la sua pertinenza storico-culturale, frutto di tradizioni che si sono lentamente sedimentate nel tempo. Concludendo, il dato più profondamente tragico dell’esodo giuliano-dalmata non è tanto l’avvenuta perdita della sovranità statuale nelle terre alto-adriatiche, quanto piuttosto il fatto che circa 300.000 persone abbiano perduto per sempre tutto il loro vissuto d’origine, senza alcuna possibilità di poterlo riabbracciare.


APPENDICE:

TESTIMONIANZE DAL MONDO GIULIANO-DALMATA

 

 

Sig. Sergio Cionci (1922), residente a Gorizia, esule da Pola, ex dipendente del GMA a Pola

La grande massa di polesani iniziò a esodare già pochi giorni prima della firma dei trattati di pace di Parigi, e più precisamente il 2 febbraio 1947. E’ da notare che la città era popolata da circa 35.000 abitanti già nel ’41, la stragrande maggioranza italiani (circa l’80%). In più, nella piazzaforte di Pola ereditata dall’Impero asburgico si concentravano 5-10.000 militari interforze di stanza presso l’arsenale e la zona del porto.

Io ero un dipendente del GMA, ed è per questo che fui uno degli ultimi a lasciare Pola. Appartenevo a quel gruppo di persone (tutti italiani) che espletavano servizi vari nella Pubblica amministrazione, ed è proprio per questo che ci chiamavano “gli indispensabili”, coloro che contribuivano a mantenere efficiente l’autorità civile della città. Certo rimanere a Pola sino all’ultimo era un problema, tuttavia il GMA assicurava l’imbarco in ultima istanza per i dipendenti dell’amministrazione cittadina.

L’egemonia italiana a Pola era indiscussa. Soltanto lasciando la città e dirigendosi verso l’entroterra si sentiva parlare una lingua croata ben diversa da quella ufficiale, trattandosi di una parlata infarcita di parole venete: il cosiddetto “istro-veneto”.

Il GMA nominò nell’enclave di Pola una commissione di epurazione antifascista, i cui componenti erano designati da due distinti comitati: il primo, di estrazione filo-italiana, era identificato nel CLN; l’altro, con solide basi filo-jugoslave, era il CPL. Era evidente che tra i due comitati di designazione si apriva una falla sempre più profonda, determinata dalle diverse aspirazioni che li animavano: l’uno a favore dell’Italia che si sarebbe dovuta ricostruire con pazienza e lungimiranza, l’altro a sostegno delle tesi annessionistiche del nascente stato comunista jugoslavo. Anche la classe operaia era divisa in due distinti sindacati: il Sindacato italiano, pro-Italia, e i Sindacati Unici, pro-Jugoslavia.

Nonostante le controversie a sfondo ideologico la maggioranza della popolazione polesana rimaneva comunque favorevole alla riannessione allo stato italiano, mentre uno sparuto gruppo di comunisti cercava di incoraggiare l’arrivo delle autorità jugoslave. Nella primavera del ’45 Pola fu occupata da “truppe regolari”, ovvero da unità dell’Esercito popolare di liberazione jugoslavo. Da quel momento le bande partigiane di Tito, composte soprattutto da sloveni e croati, occuparono la penisola, instaurandovi organi di “potere del popolo” che dovevano ben radicare nell’Istria il nuovo ordine sociale e politico di riferimento. Gli screzi iniziarono ad appesantirsi quando nel giugno del ’45 l’Istria (ad eccezion fatta della stessa Pola) fu concessa in amministrazione militare agli jugoslavi. A Pola cominciarono così a confluire agitatori e propagandisti politici, con il preciso compito di sovvertire l’assetto dell’ordine pubblico, intimando ai cittadini polesani di aderire al nuovo progetto della Jugoslavia socialista.

Pola era un’isola rispetto a tutte le altre cittadine istriane occupate dagli jugoslavi, in quanto gli Alleati avrebbero dovuto occupare tutti i “principali ancoraggi” della costa occidentale istriana, anche se questo non fu mai fatto.

Nel 1944 i tedeschi commisero un grave errore emanando un bando di arruolamento coatto per le classi ’20, ’21, ’22 e ’23 della popolazione istriana, quando oramai i giochi erano fatti e cominciava a profilarsi la sconfitta del nazi-fascismo. Fu così che una parte degli italiani, posti dinnanzi all’ultimatum nazista, non potendo raggiungere i connazionali partigiani dell’Alta Italia, si organizzarono diversamente aggregandosi al battaglione “Pino Budicin”, stanziato appunto nell’entroterra istriano (nei boschi).

Sono convinto che il grande Esodo giuliano-dalmata fu lo strumento necessario per poter salvaguardare la propria identità nazionale, culturale, sociale e soprattutto fisica!

Una componente determinante fu senza dubbio la paura, suggestionata dalle ondate di violenza politica che nel frattempo si erano abbattute sull’Istria; in un certo senso si potrebbe anche parlare di violenza etnica se si considera come Milovan Gilas stesse cercando di ripulire tutta la penisola dalle “minoranze”, ovvero dalle popolazioni autoctone di etnia non slava che non piacevano per niente né a Tito né al nascente regime. Era importante eliminarle, per poter affermare irreprensibilmente la nuova identità etnico-politica voluta dal leader jugoslavo.

Nel ’45 a Pola c’erano due associazioni partigiane che si contendevano con rivalità la scena e il consenso nella città: l’ANPI (Associazione nazionale partigiani italiani), i cui componenti erano spesso anche membri dell’UAIS (Unione antifascista italo-slava), e l’API (Associazione partigiani italiani); la prima filo-comunista, la seconda filo-italiana. Quest’ultima aveva sede presso l’ex circolo sottufficiali della Marina militare italiana di Pola, e aveva il compito di proteggere la popolazione polesana dalle angherie dei partigiani comunisti jugoslavi.

La stessa contesa politico-nazionale veniva riproposta anche nella comunicazione di massa: fino all’arrivo degli occupatori jugoslavi il quotidiano d’informazione locale era “Il Corriere Istriano”; il giornale, diretto da Rodolfo Manzin, uscì anche durante il periodo di occupazione germanica. Successivamente, nel maggio del ’45 i partigiani comunisti jugoslavi si appropriarono della sua tipografia e iniziarono a pubblicare un altro quotidiano: “Il Nostro Giornale”. Ovviamente usciva in lingua italiana, ma il suo taglio editoriale era marcatamente filo-jugoslavo; era diretto dal professor Domenico Cernecca. In contrapposizione con la linea de “Il Nostro Giornale” cominciò a uscire successivamente “L’Arena di Pola”, che era anche organo del CLN; il direttore era il prof. Guido Miglia, e l’orientamento del quotidiano era chiaramente filo-italiano.

Oltre a questi prodotti editoriali c’erano anche dei settimanali: “La posta del lunedì”, ufficialmente neutrale ma tendenzialmente di sentimenti italiani, diretto dal prof. Pietro Sfiligoi; “Democrazia”, settimanale dei giovani di cui io ero direttamente responsabile, di orientamento indubitabilmente pro-Italia; “El Spin”, a vocazione satirica, sempre diretto dal giornalista dignanese Rodolfo Manzin. Infine, nel panorama editoriale istriano dell’epoca si annoverava anche un giornale edito a Udine: “Il grido dell’Istria”. Veniva diffuso clandestinamente nella Zona B, a Pola, Gorizia e Trieste; nella testata del giornale era scritto: “esce dove e quando può”.

 

 

Sig. Manzin (1920), agricoltore istriano di Dignano, “rimasto” e membro della comunità italiana locale

Sono rimasto a Dignano perché non volevo assolutamente abbandonare il mio paese, né tantomeno la mia attività di agricoltore nella zona, a cui ancora oggi mi dedico con passione.

Prima del “ribaltòn” del 1943 Dignano era popolata in massima parte da italiani, erano circa 5600 i residenti in paese, mentre di slavi se ne vedevano davvero pochi. Il mio cognome era uno dei più diffusi nel Dignanese, anche se poi le cose cominciarono a cambiare con l’arrivo delle autorità jugoslave.

Oggi per noi italiani “rimasti” la messa domenicale diventa sempre più un consueto punto di ritrovo, anche perché gli equilibri sociali del paese sono stati alterati dopo il Trattato di Parigi...e molti hanno preso la via dell’esilio anche da qui. Soprattutto dopo l’esercizio del diritto di opzione per la cittadinanza italiana del ’51 Dignano si svuotò quasi completamente, pochi decisero di restare.

Dopo l’instaurazione dei nuovi “poteri popolari” gli emissari del regime comunista venivano a farmi visita per persuadermi a collettivizzare le mie proprietà all’interno delle cooperative agricole “1° maggio”, ma grazie alla mia insistente opposizione sono riuscito a salvare le mie terre, che oggi ancora possiedo e coltivo.

Ricordo che furono prese di mira dai quadri molte categorie di persone: insegnanti, professori, dirigenti e tanta altra gente furono costretti ad iscriversi al PCJ. Anche la circolare “Perusko” ebbe i suoi effetti qui in paese: molti studenti italiani furono trasferiti nelle scuole croate forzatamente perché il loro cognome, terminando in “ich”, era considerato slavo; in conseguenza a questo fatto molte scuole italiane furono chiuse.

 

 

Sig. Bonassin (1938), poeta istro-romanzo (lingua in estinzione appartenente alla latinità istriana), residente a Dignano, “rimasto” e membro della comunità italiana locale

Sono rimasto a Dignano per scelta “ideale” di mio padre, impiegato come manovale nei dintorni. Ho svolto per molti anni l’attività di segretario in una scuola, esattamente per trentaquattro anni.

Ho molti ricordi della mia giovinezza...i primi risalgono ai tempi della scuola, quando ero soltanto uno studente. Ho frequentato la scuola superiore di economia a Pola, e purtroppo ricordo che la lingua italiana era inibita negli ambienti in cui ero inserito. Era frustrante, sia nell’ambito scolastico che in quello lavorativo era proibito parlare italiano, si doveva parlare obbligatoriamente croato. Quando frequentavo la scuola per apprendisti ricordo che a volte mi veniva spontaneo usare la mia lingua per scherzare con i miei compagni, per chiacchierare o più semplicemente per scambiare una battuta veloce nei brevi lassi di tempo che rimanevano. Ma dovevo stare attento a non farmi sentire, perché a controllarmi c’era sempre il mio ispettore referente personale, pronto a cogliermi in fragranza. Altro requisito indispensabile per svolgere la mia attività di segretario scolastico era la tessera del partito, che dovevo portare sempre con me.

 

 

Sig. Mate Milosevic (1919), istriano croato di Lisignano, piccolo centro nel circondario di Pola

Durante l’epoca fascista qui in Istria la gente riusciva ad andare d’accordo abbastanza tranquillamente, non c’era un astio forte tra italiani e croati, l’antagonismo veniva esasperato soltanto tra “stupidi di ideologia”.

Dopo l’8 settembre a Lisignano i partigiani comunisti riuscirono abilmente ad impossessarsi della scena locale, nessuno osava protestare o ribellarsi ai “poteri popolari”, poiché la paura di finire nel fondo di una foiba era sempre più grande. Un mio nipote era dei “domobranzi”, ed è per questo che fu arrestato e ucciso dai partigiani della zona. A Medolino furono prelevate e condotte alla foiba circa una decina di persone compromesse: avevano svolto incarichi statali durante il fascismo, poco importava che i ruoli che avevano avuto erano secondari; persino il vecchio sacrestano del paese non fu risparmiato, e nemmeno quello del villaggio di Sissano, infoibato insieme a due donne sue compaesane. Penso che sia giusto condannare ciò che fu fatto a queste persone e a molte altre, le foibe altro non erano che delle vere e proprie ingiustizie.

Per quanto riguarda l’Esodo, la decisione di partire maturata in molti italiani del posto fu condizionata da una serie di fattori: il sistema economico-produttivo era in ginocchio, l’Istria per l’Italia si allontanava ogni giorno sempre di più sui tavoli della diplomazia riunita a Parigi, dilagava l’incertezza, in tutti i sensi. Non va sottovalutato poi un altro aspetto: la tracotanza spietata di alcuni membri dei Comitati popolari era davvero indigesta per gli italiani, trattati molto male da individui spesso grezzi, rozzi e senza cuore. I sentimenti nazionalisti dei croati amplificavano la percezione della crisi, e a Sissano si verificò un esodo in blocco.

Sul tema della propaganda jugoslava c’è davvero poco da dire: quando la Commissione interalleata visitò questa zona agli italiani era proibito manifestare pubblicamente, dal momento che la propaganda pro-Italia era considerata propaganda reazionaria. Soltanto le manifestazioni pro-Jugoslavia ebbero luogo in un clima di tripudio rivoluzionario.

I nuovi poteri e il nuovo sistema di gestione dell’economia e del bene pubblico avevano delle contraddizioni assurde...il socialismo di Tito si preoccupava dell’operaio onesto ma incentivava anche l’ubriacone che non voleva andare a lavorare, e anche per questo ci fu molto assenteismo durante gli anni del regime. Si pensi solo al fatto che in Jugoslavia un operaio medio lavorava in un giorno soltanto tre ore e mezza! Io ero un economo e di queste cose ne ho viste davvero tante quando ero in servizio.

 

 

Dott. Gaetano Valenti (1946), sindaco di Gorizia per due mandati (dal 1994 al 2002), esule da Parenzo, Istria

Io e la mia famiglia decidemmo di abbandonare l’Istria nel periodo della firma del Trattato di Parigi, anche se già dopo i fatti dell’autunno del ’43 si viveva costantemente con la paura. Mio padre era stato prelevato dall’OZNA, e per sottrarsi al fermo poliziesco finse di essere un pazzo, così riuscì a tornare a casa. Era un repubblicano democratico e a Parenzo gestiva una barberia. Poi si decise di esercitare il diritto di opzione e con un viaggio rocambolesco riuscimmo a raggiungere Trieste, dove potemmo trovare rifugio per otto mesi da alcuni parenti. Poi ci trasferimmo alle casermette del ’15-’18 di Gorizia. Qui abitavamo in uno stanzone diviso in due parti da un telo: “reparto giorno” e “reparto notte”. Successivamente ci trasferimmo nel villaggio per gli esuli della Campagnuzza, dove non mancarono i contrasti, talvolta anche violenti, col vicinato sloveno di Sant’Andrea.

Penso che le foibe siano espressione di una cultura della guerra e della morte diversa, che contempla tuttalpiù pratiche di uccisione differenti; non mi risulta che all’interno delle popolazioni latine vi sia qualcosa di simile. Quanto al numero delle vittime, si dovrebbe parlare di “uccisioni” e di “sparizioni”, poiché in fondo hanno la stessa sostanza.

Chi ha avuto un rapporto diretto con la cruda realtà di quegli anni purtroppo porta con sé degli odi indelebili, sedimentati con le ingiustizie subite; la mia generazione in fondo è più possibilista, espressione di un vissuto limitato che tuttavia ha eretto ugualmente delle diffidenze reali, rimovibili solo attraverso una fatica intellettuale; c’è poi una terza fascia più giovane pronta a collaborare per migliorare i rapporti di vicinato tra Italia e Slovenia, pur mantenendo una discreta soglia di attenzione; l’ultima fascia, quella “giovane” per definizione, sta abbracciando la cittadinanza europea, e dunque riesce a porsi in modo svincolato rispetto al passato della Venezia Giulia.

Quanto agli esuli giuliani e dalmati, essi hanno pagato con il loro dolore e con i loro beni i danni di guerra dell’Italia alla fine del II conflitto mondiale. Le nuove repubbliche di Croazia e di Slovenia hanno ancora delle pendenze nei confronti degli esuli e degli italiani: i beni abbandonati con l’Esodo e l’accesso edilizio per gli italiani nel loro territorio nazionale, secondo un fondamentale principio di diritto europeo che ancora non è stato rispettato.

Le mie origini istriane mi rendono ambasciatore di una cultura che spero non sia in via di estinzione, in Italia e nel mondo. Purtroppo stiamo perdendo la generazione giuliano-dalmata dei nostri padri, quella che al suo rientro in Italia veniva discriminata secondo il consueto luogo comune del “fascista nostalgico”. Tuttavia oggi arrivano segnali di apertura interessanti anche da parte dei mezzi di comunicazione di massa, che stanno riscoprendo i patrimoni italiani dell’Istria e della Dalmazia. Ciò che dispiace è che per molti anni non c’è stata un’attenta difesa culturale dell’italianità giuliano-dalmata.

 

 

Dott. Claudio Rosolin (1942), docente di diritto ed economia politica in pensione, esule istriano da Pisino

 Io e la mia famiglia abbandonammo Pisino dopo l’8 settembre 1943, anche se il riconoscimento di “profughi” ci venne conferito soltanto nel ’46. Mio padre militava nella Guardia Nazionale Repubblicana.

Ero molto piccolo all’epoca dei fatti, ma grazie ai racconti dei miei genitori sono ancora oggi depositario della memoria di esule istriano. Ho rivissuto quel dramma quando mio padre, passati gli anni peggiori, mi riportò in Istria a visitare le nostre terre con nostalgia ma anche con un po’ di pragmatismo. Si diceva: «Persa la guerra, persa l’Istria...».

Le foibe sono state un metodo di rappresaglia contro molti italiani. Le colpe del fascismo sono state restituite ampiamente con gli interessi non ad uno stato, ma a un’intera comunità nazionale autoctona. L’Esodo ci ha portati qui, a Gorizia. Ricordo gli anni della gioventù: eravamo in tanti, noi esuli; c’era solidarietà da parte dei goriziani, anche se nella massa aleggiava talvolta un po’ di diffidenza nei nostri confronti...si pensava che potessimo “rubare” posti di lavoro, alloggi, ecc.

Sono contento del riconoscimento ufficiale che ci è stato dato con l’istituzione del Giorno del ricordo, meglio tardi che mai, come si suol dire...anche se confesso che mi sento un po’ come un cristiano uscito dalle catacombe dopo sessant’anni di indifferenza del paese in cui vivo! Tuttavia ai tempi della scuola ricevetti un riconoscimento modesto che mi lusingò parecchio: ero alle medie, e il preside della mia scuola volle che fossi citato in un articolo di quotidiano non soltanto come alunno diligente ma anche come “esule di Pisino”. Orgoglio istriano...si trattava di un articolo uscito su “Il Giornale di Trieste” del 7 giugno 1954.

 

 

Sig.ra Giuseppina Alesani, residente a Ponzano Veneto (TV), esule dalmata da Zara

Innanzitutto voglio premettere che sono nata da madre slava e da padre italiano, quindi ancora oggi conservo dentro di me una sorte di dualismo interno: sangue misto ma anima certamente italiana, questo sì lo posso dire. E’ difficile per noi che abbiamo sofferto così tanto mettere da parte i rancori, e ancora oggi ci sono molti contrasti di sentimento...personalmente con gli slavi ho un rapporto limitato, inevitabilmente viziato dal ricordo delle ingiustizie perpetrate ai danni degli italiani dalmati.

Con l’occupazione italiana della Dalmazia avvenuta nella primavera del 1941, gli italiani ivi residenti pensarono di aver finalmente ricevuto ciò che li spettava, ovvero un riconoscimento reale del loro status nazionale; poi arrivò l’8 settembre 1943, che segnò inevitabilmente il declino dello stato italiano e delle sue articolazioni sul territorio dalmata. I nostri soldati si ritirarono tutti allo sbando verso Zara, centro di italianità indiscussa lungo la costa della Dalmazia. Ma allo stesso tempo, i nazionalisti croati, alleati dell’Italia in guerra, premevano incessantemente per occupare la città; fu così che fu allestito in tempi brevissimi un cordone di presidio umano intorno agli otto chilometri di perimetro cittadino, per impedire che la città cadesse nelle mani dei croati. Tra gli zaratini v’era un grande spirito di solidarietà e compattezza, e di fronte alla minaccia croata essi accettarono molto più volentieri l’arrivo dei militari germanici, considerati paradossalmente quasi dei “liberatori”. In quella situazione estremamente delicata ci fu un uomo che diede l’anima per la nostra città, era il prefetto Serrentino, che aiutò moltissimo la popolazione zaratina.

Zara italiana fu bombardata per ben 54 volte dai raid aerei degli Alleati, che la distrussero quasi integralmente. Alla sua eroica vicenda di recente si voleva attribuirne il valore civile con il conferimento di una medaglia d’oro da parte del Presidente della Repubblica Ciampi. Tutto era già pronto per la cerimonia e la manifestazione pubblica, ma il governo croato si intromise con delle velleitarie rimostranze che impantanarono l’iniziativa.

La mia casa è stata distrutta con il bombardamento aereo del 16 dicembre 1943. Poi venne l’Esodo. Me lo ricordo molto bene il nostro esodo. Era il 30 dicembre 1943 quando salimmo a bordo della nave Sansego, ormeggiata nel porto cittadino. C’era una bora tremenda, nevicava e faceva freddissimo. Eravamo appena partiti quando il comandante della nave comunicò che non si poteva proseguire a causa del maltempo, così ritornammo verso la terraferma e trascorremmo la notte a bordo; la nave si sistemò a circa cinque chilometri dalla riva, in rada. L’indomani mattina era una bellissima giornata, e la nave questa volta partì veramente.

E’ passato tanto tempo, ma i sentimenti non sono cambiati. Mi sento dalmata perchè le mie origini sono dalmate e perchè sono cresciuta a Zara. Sento di essere di nazionalità italiana, perchè sono nata in Italia, anche se a volte faccio fatica a spiegare alla gente dove, quando e perchè.

Sull’argomento delle foibe a volte si è fatto un po’ di confusione. Nessuno può negare l’esistenza del fenomeno, che effettivamente fa parte sì della storia martoriata delle terre giuliano-dalmate, ma non la rappresenta in modo esaustivo. La nostra storia è molto più complessa, contorta e disconosciuta, le foibe rientrano a pieno titolo nella schiera dei torti e delle ingiustizie che abbiamo subito, anche se ve ne sono molti altri di spessore storico uguale o superiore.

 

 

F.G. (1943), esule fiumano residente a Gorizia, esodato il 24 dicembre 1949

Il mio ricordo di Fiume...la città in cui sono nato e in cui ho vissuto parte della mia infanzia è un ricordo effimero ma concreto. Della nostra tragedia ho un’opinione ben precisa: i croati hanno sempre avuto l’ambizione di annettersi Fiume, e la loro voglia di ripulire la città dagli italiani autoctoni si trasformò in realtà nel 1945.

Dell’Esodo ricordo dei momenti altamente significativi. La partenza: era l’alba della vigilia di Natale del 1949, mio padre baciò la porta di casa per l’ultima volta e scoppiò in lacrime. Poi l’arrivo a Trieste: una sosta di pochi giorni e via di nuovo. Udine, campo profughi, qui il ricordo si acuisce: si dormiva per terra, si piangeva in continuazione, sembrava quasi un lager. Passammo qualche giorno anche a Venzone, e subito dopo ci trasferimmo per dieci mesi al campo profughi di Novara, presso la caserma “Perrone”. Qui in un primo momento dormivamo in grandi camerate, poi ci spostarono nel carcere della caserma; comunque si stava meglio che a Udine. Infine Gorizia...dove ci siamo insediati definitivamente. Io tuttavia ho sempre avvertito di essere diverso agli occhi degli altri, perchè ero pur sempre un esule, strappato dalla propria terra.

Nonostante anni di residenza, non sono mai riuscito a fare di Gorizia “la mia città”, anche se riconosco che mi ha dato molto come cittadino.

 

Sig. Vladimiro Pierazzi (1917), esule fiumano residente a Gorizia, esodato nel 1950

Sono venuto via dopo, nel ’50 esattamente, perché mi hanno trattenuto in città, dove ero capo-ufficio spedizioni presso il consorzio macellerie di Fiume. La mia città...una città italianissima, soltanto nel circondario v’era una consistente presenza slava. Quando sono arrivati “loro”, i partigiani di Tito, nessuno sapeva cosa fare né come reagire. Era una situazione difficile, quasi tutti i fiumani erano contro i nuovi venuti.

Ricordo con nostalgia la bandiera fiumana del 1923, rosso-amaranto, gialla e blu. Fiume era una città molto aperta e cosmopolita, non c’era astio tra città e campagna, non c’era quel senso di superiorità nei confronti degli slavi. Nel centro della città era pieno di commercianti e affaristi, era scarsa la presenza operaia.

Dopo l’occupazione titina guardavamo la “Bocca Grande” tra Cherso e l’Istria sperando nell’arrivo degli Alleati, gli unici in grado di fermare l’ondata comunista che si era riversata sulla nostra città.

Personalmente ho rischiato più volte la vita; ero stato dapprima ammonito e poi minacciato dai “poteri popolari”, perchè non avevo peli sulla lingua. “Loro” venivano a fare riunioni e comizi nelle aziende, sempre durante l’orario lavorativo, interrompendo la produzione e disturbando i lavoratori. Era la loro propaganda, così facevano “loro”, perchè volevano che noi stessimo lì ad ascoltarli. Non avevano voglia di lavorare quelli là...i partigiani erano considerati degli straccioni dalla popolazione.

Alla fine ho deciso di partire anch’io, perchè volevo una vita differente da quella che loro cercavano di imporre: miseria, lingua sconosciuta, usi e costumi diversi, uffici pubblici slavizzati e altre cose. Io non ero in grado di andare avanti così, non concepivo di vivere con quei nuovi sistemi sociali e di comunicazione, e poi non sapevano lavorare, era un caos totale per davvero.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ALLEGATO:

ILLUSTRAZIONI

 

 

Figura 1: francobollo celebrativo dell’esodo giuliano-dalmata (facsimile)

 

 

Figura 2: manifesto del Giorno del ricordo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 3: altro manifesto del Giorno del ricordo a cura della RAI

 

 

 

Figura 4: profughi di Pola in partenza dalla città


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RIFERIMENTI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

PUBBLICISTICA:

 


SITOGRAFIA:

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FONTI ORALI:

 

Tutte le interviste sono state realizzate tra luglio e settembre 2005 nelle zone di Treviso, Gorizia e Pola. Le informazioni raccolte sono state successivamente riprodotte come testimonianze nell’appendice dell’elaborato.

 

 

 

 

 



[1] G. Crainz, Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa, Donzelli, Roma 2005, p. 99.

[2] A tal proposito si asserisce all’epoca dell’Impero asburgico e a quelle successive del fascismo italiano e del comunismo jugoslavo.

[3] Zara rappresentava la città dalmata italiana per antonomasia, ma oltre ad essa altri insediamenti italiani di origine romana e veneta erano presenti nelle città di Spalato, Sebenico, Traù, Ragusa, Cattaro e in alcune isole antistanti la costa della Dalmazia.

[4] F. Piazza, L’altra sponda adriatica. Trieste, Istria, Fiume, Dalmazia 1918-1998: storia di una tragedia annunciata, Cierre edizioni, Sommacampagna (VR) 2001. E’ significativo notare come il titolo di quest’opera si presti ottimamente alla questione giuliano-dalmata in chiave storica ed evocativa, con un’espressione (“L’altra sponda adriatica”), coniata dall’autore appunto, che sintetizza in modo congeniale il contesto di riferimento.

[5] AA.VV., Italia e Slovenia alla ricerca di un passato comune. Atti del seminario di studio sulla relazione finale della commissione storico-culturale italo-slovena su: i rapporti italo-sloveni 1880-1956, Gradisca d’Isonzo – Palazzo Torriani – 12 aprile 2002, introduzione di Corrado Belci, Istituto per gli incontri culturali mitteleuropei, Gorizia 2003, p. 12.

[6] Ibidem, p. 12.

[7] Liburnia era denominata quella regione adriatica che si estendeva dalla costa orientale istriana sino al golfo del Quarnaro con le sue isole e la città di Fiume con il suo circondario.

[8] Più precisamente si trattava dell’anno 998, quando una flotta veneziana al comando del doge Orseolo II approdò nelle cittadine istriane di Parenzo e di Pola, nel porto di Zara e negli altri centri minori della Dalmazia, raggiungendo anche l’isola di Arbe e Ossero. Dopo aver sconfitto dei pirati asserragliati alle foci della Narenta la spedizione toccò le isole di Cùrzola e Làgosta e le località di Traù (che fu sottomessa) e Ragusa.

[9] Era il 31 luglio 1409 quando i veneziani fecero la loro entrata ufficiale a Zara, accolti in festa dai cittadini dalmati che ricordarono l’evento come la “Santa Intrada”.

[10] Durante l’egemonia veneziana i dalmati furono così ribattezzati per sottolineare il ruolo di fondamentale importanza che espletarono nelle file delle Venete milizie oltremarine, in cui dimostrarono la loro destrezza e la loro abilità nei duelli navali. Ancora oggi, a Venezia, sono ricordati con una riva che conserva il loro nome: la Riva degli Schiavoni.

[11] Il suo ideatore si chiamava Ljudevit Gaj, secondo il quale il diritto storico delle popolazioni slave sui territori facenti parte dell’Impero derivava dalla credenza che gli Illiri, antica popolazione pre-romana delle terre alto-adriatiche, fossero di razza slava. Sulla base di questa congettura Gaj rivendicava la diretta consanguineità degli Illiri con le popolazioni slave arrivate nell’area giuliano-dalmata nell’Alto Medioevo, e perciò loro presunte eredi indiscusse.

[12] L’espressione “Venezia Giulia” fu coniata per la prima volta nel 1863 dal glottologo goriziano Graziadio Isaia Ascoli, che la utilizzò per riferirsi alle terre alto-adriatiche in cui si era sviluppata la parlata istro-veneta di ceppo romanzo.

[13] Durante il dominio asburgico nei territori adriatici, la regione Venezia Giulia era stata suddivisa in entità amministrative dette appunto “le province del Litorale”, articolate nei seguenti territori: a - Contea principesca di Gorizia e Gradisca d’Isonzo (comprendente anche Monfalcone, Sesana e Tolmino); b - Margraviato d’Istria (Parenzo, Capodistria, Lussino, Pisino, Pola, Veglia, Volosca-Abbazia); c - Città di Trieste (sede del Luogotenente del Litorale, massima carica istituzionale-amministrativa che rappresentava il Governo di Vienna). La città di Fiume invece, era amministrata da un governatore eletto da Budapest, in virtù dell’autonomia che la corona ungherese aveva ottenuto all’interno dell’Impero asburgico. Cfr. Piazza, op. cit., p. 11.

[14] Fu il partenopeo Matteo Renato Imbriani a inventare l’espressione “Irredentismo”, fondando nel 1877 l’Associazione per l’Italia irredenta e promuovendo iniziative anti-austriache in grado di attirare l’attenzione della stampa italiana e della politica. Cfr. Piazza, op. cit, p. 25.

[15] Raoul Pupo, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Rizzoli storica, Milano 2005, p. 77.

[16] Raoul Pupo, op. cit., p. 16.

[17] Il patto di Londra fu siglato il 26 aprile 1915 dopo che il governo italiano aveva condotto delle trattative segrete con le forze dell’Intesa: l’accordo prevedeva l’entrata in guerra dell’Italia a fianco di Inghilterra, Francia e Russia entro un mese dalla stipula dello stesso, e in caso di vittoria alla fine del conflitto all’Italia sarebbero stati assegnati i seguenti territori: Trentino, Tirolo meridionale fino al Brennero, l’Isontino, Gorizia, Trieste, l’Istria, parte della Dalmazia fino a Punta Planca, le isole del Dodecaneso e alcune colonie in Africa e nell’Asia minore. Non era contemplato invece nella posta in gioco Fiume e l’arcipelago del Quarnaro.

[18]Tra i famosi 14 punti del presidente americano Wilson si annoverava il diritto all’autodecisione dei popoli. Secondo tale principio, all’Italia vincitrice della I g.m. sarebbe dovuta andare anche la città di Fiume, compattamente italiana tra i suoi abitanti. Ma con la firma del trattato di pace tra Italia e Austria a Saint-Germain-en-Laye il 10 settembre 1919 non viene riconosciuta l’italianità della città.

[19] Fu soprattutto idea di Wilson, quella di appoggiare la nascita di uno stato degli Slavi del sud in nome della tanto osannata autodecisione dei popoli. Questo compromise e ostacolò le rivendicazioni italiane sulla Dalmazia, che si appellavano a quanto era stato promesso all’Italia nel precedente accordo pre-bellico siglato a Londra con gli Alleati.

[20] La corrente interventista si servì di questi miti per convincere le frange più caute dell’opinione pubblica a prendere una posizione filo-italiana nell’intricato contenzioso confinario che si era aperto dopo la dissoluzione dell’impero austro-ungarico nelle terre adriatiche.

[21] Il 20 luglio 1917, nell’isola neutrale di Corfù, si svolse un congresso tra rappresentanze serba, croata e slovena; le tre parti convennero sull’obiettivo principale da perseguire unanimemente: la creazione di un regno unitario degli Slavi del sud che di fatto doveva inglobare gli ex territori asburgici al Regno di Serbia. Questo fu inserito nel novero delle potenze vincitrici della Grande Guerra, nonostante fosse stato raso al suolo dall’esercito dell’Impero austro-ungarico. Per ottenere l’espansione confinaria necessaria alla realizzazione nazionale, furono costituiti dei Comitati Nazionali Jugoslavi con il preciso compito di esercitare pressioni diplomatiche in linea con il predetto progetto.

[22] Questa espressione ricorda con costernazione la tragica lotta fratricida iniziata a Fiume la vigilia di Natale del ’20 e protrattasi per cinque giorni, tra le unità del Regio Esercito e i legionari dannunziani. Il bilancio delle vittime fu molto pesante: cinquantatre militari e cinque civili morirono sotto il fuoco italiano che proveniva da ambo le parti.

[23] Marco Rossi, Istria riscoperta. Dal confine conteso alla nuova Europa, intervista a Galliano Fogar, Ediesse, Roma 2005, p. 37.

[24] Si rammenta che fino al 1941 l’Italia estendeva la propria sovranità nazionale sull’Isontino, sulle città di Gorizia e Trieste con i loro rispettivi entroterra, sull’Istria, sulle isole di Cherso e Lussino e, a partire dal 1924, anche sulla città di Fiume (Trattato di Roma).

[25] Piazza, op. cit., p. 33.

[26] Ervin Dolenc, Nasi Fasisti, in “Prispevki za novejso zgodovino”, XL (2000), n. 1, pp. 113-122; fonte citata in Pupo, op. cit., p. 42 e 272.

[27] Partito Nazionale Fascista.

[28] Carlo Schiffrer, Sguardo storico sui rapporti fra italiani e slavi nella Venezia Giulia, 2° ed. riveduta, Trieste 1946, p. 32.

[29] L’ORJUNA era un’organizzazione clandestina armata di ispirazione slavo-irredentista. Di matrice parafascista, si avvaleva soprattutto dei contatti stretti con i servizi segreti di Belgrado. Grazie a questi collegamenti riuscì svolgere abilmente attività di spionaggio e sabotaggio sul territorio italiano. Cfr. Pupo, op. cit., pp. 51-52.

[30] Questa organizzazione segreta era chiamata appunto TIGR (Trst-Istra-Gorica-Rijeka) nel Goriziano, mentre assumeva la denominazione BORBA (che significa “lotta”) a Trieste e in Istria, lo stesso nome dato al suo organo di stampa clandestina che diffondeva gli obiettivi strategici di questo movimento: lotta antifascista armata e annessione del Litorale e dell’Istria alla Jugoslavia. Ibid., pp. 52-53.

[31] Ibid., p. 52.

[32] Polizia fascista con funzioni investigative e repressive contro attività, manifestazioni e organizzazioni di matrice eversiva antifascista.

[33] Unione degli emigranti jugoslavi della Venezia Giulia; era fedele al regime jugoslavo e di ispirazione conservatrice, volta alla tutela delle minoranze slave ancora presenti in Italia.

[34] Traggo la citazione da Pupo, op. cit., p. 57.

[35] Il colpo di stato fu propiziato da un’èlite di ufficiali serbi, e anche in questo caso pare che fossero coinvolti i servizi segreti anglo-americani.

[36] Questa espressione connota il movimento ultra-nazionalista e filo-fascista che combattè a fianco dell’Asse fino alla fine della guerra; suo obiettivo principale era la bonifica etnica integrale dello stato nazionale croato a scapito di serbi ortodossi, ebrei e zingari che vivevano dentro i confini del nuovo stato indipendente. Alla fine del conflitto saranno quasi un milione le vittime degli eccidi di Pavelic.

[37] Comprendeva, oltre a Zara già italiana, le città di Spalato, Sebenico e Traù; le isole di Cùrzola, Lissa, Meleda e Solta; l’arcipelago antistante Zara più altre isole di dimensioni ridotte.

[38] Velivoli dell’aviazione germanica utilizzati nelle incursioni aeree che devastarono la città di Belgrado.

[39] Dal nome del portavoce e attivista comunista sloveno che diede il massimo apporto nella lotta clandestina sul finire degli anni Trenta.

[40] Pupo, op. cit., p. 58.

[41] Partito Comunista Croato.

[42] Con questa emblematica espressione si allude all’estemporanea conquista del potere da parte del Movimento popolare di liberazione, avvenuta in Istria subito dopo il collasso degli organismi civili e militari italiani.

[43] Acronimo di Comitato Popolare di Liberazione, ovvero l’organo del MPL che si insediava nelle località istriane dopo l’8 settembre: si trattava di una parvenza di autorità locale, spesso improvvisata, i cui membri erano perlopiù persone incompetenti per il funzionamento della pubblica amministrazione nei luoghi preposti.

[44] Vedi pp. 16-17.

[45] Partito Comunista Sloveno.

[46] Guido Rumici, Infoibati (1943-1945). I nomi, i luoghi, i testimoni, i documenti, Mursia, Milano 2002, pp. 77-78.

[47] Raoul Pupo – Roberto Spazzali, Foibe, Bruno Mondadori Editore, Milano 2003, p. 6.

[48] Foiba: dal latino fovea, che significa fossa, abisso; cavità carsiche, talvolta vere e proprie voragini di roccia a forma di imbuto, tipiche del paesaggio giuliano. Cfr. Rumici, op. cit., pp. 9-11.

[49] Rumici, op. cit., p. 90.

[50] Tristemente noti sono i campi di Borovnica, Maribor, Prestrane, Maresego, Crikvenica, Martinscica, Pecine, Leskovac, Grobnico, Dol, Popovaca, Polonka, Mitrovica, Precko, Markovici, Zemun, Curzola, Teodo, Ragusa, Visoko, Banovici, Banatski Karlovac, Vrsac, Bor e Petrovaradin. Altrettanto celebri sono poi alcune strutture carcerarie che funzionarono nelle seguenti città: Lubiana, Kocevije, Sisak, Belgrado, Stara Gradiska e Lepoglava. Cfr. Ibidem, p. 244.

[51] Questa parola appartiene alla lingua slava e significa “soldati”; in questo caso ci si riferisce alle bande di partigiani comunisti che costituivano il braccio armato del movimento di Tito.

[52] A tale proposito consiglio la lettura della storia di Norma Cossetto, dettagliatamente narrata in Rumici, op. cit., pp. 124-132. Anche altre donne conobbero le stesse sorti, a riprova del gusto per il macabro diffuso tra talune orde di partigiani di Tito, che concepivano il divertimento in un modo davvero blasfemo, ovvero quello di seviziare il corpo ancora vivo delle sventurate approfittandone anche sessualmente.

[53] A proposito del recupero dei corpi, per dover di cronaca vanno ricordate le imprese compiute dalle squadre dei Vigili del Fuoco di Pola capitanate dal maresciallo Harzarich, che tra il 16 ottobre e il 12 dicembre effettuarono 31 esplorazioni all’interno di foibe e cavità artificiali che riportarono alla luce 217 salme di militari e civili. Cfr. Pupo – Spazzali, op. cit., pp. 26-27.

[54] Rumici, op. cit., p. 97.

[55] Pupo – Spazzali, op. cit., p. 49.

[56] Traggo la cit. da Rumici, op. cit., p. 185. Cfr. Oddone Talpo, Le terre adriatiche nel dramma delle due guerre mondiali, in: AA.VV., I dalmati per Trieste. Storia del ’900 nell’area dell’Adriatico orientale, Libero Comune di Zara in Esilio, Trieste 2001, p. 43.

[57] Rumici, op. cit., p. 189.

[58] Ibid., p. 189.

[59] Traggo la citazione da: Pupo, op. cit., p. 89. Cfr. al riguardo il dispaccio del comitato centrale del KPS al comitato per il Litorale sloveno n. 89 del 29 aprile 1945, in AS, AZKS, CK KPS 2, ae 91; cfr. anche le direttive contenute nei messaggi di Boris Kraigher al comitato centrale del KPS, in AS, AZKS, CK KPS 2, ae 90.

[60] Acronimo di Odjel za Zastitu Naroda, che tradotto significa “Sezione per la difesa del Popolo”. Tale organo era stato investito delle sue funzioni dai vertici del KPS, a partire dall’autunno del 1944. Cfr. Pupo – Spazzali, op. cit., p. 19.

[61] Pier Antonio Quarantotti Gambini, Primavera a Trieste, Mondadori, Milano 1951, p. 99.

[62] Gli ultimi reparti tedeschi si trincerarono nella zona fortificata di Fisella sperando nella venuta degli Alleati, ai quali si sarebbero voluti arrendere per evitare di consegnarsi all’esercito partigiano di Tito; tuttavia il 7 maggio la Germania sottoscrisse la sua resa incondizionata in Europa, e così pure l’ammiraglio tedesco Waue firmò il giorno seguente la resa degli ultimi militari germanici a Pola. Quanto ai combattenti italiani della RSI, questi si arresero già il giorno 6 maggio, dopo essere stati completamente accerchiati dalle unità partigiane comuniste e dopo aver riportato pesanti perdite negli ultimi disperati combattimenti.

[63] Traggo la citazione da Rumici, op. cit., p. 242; Cfr. Lino Vivoda, L’esodo da Pola. Agonia e morte di una città italiana, Nuova Litoeffe, Piacenza 1989, p. 47.

[64] L’Accordo di Belgrado fu stipulato il 9 giugno 1945 tra Angloamericani e Jugoslavia; sanciva la divisione temporanea della Venezia Giulia in due zone: la Zona “A” sotto l’amministrazione del Governo Militare Alleato (GMA), che comprendeva le città di Trieste e Gorizia e l’enclave di Pola; la Zona “B”, sotto il controllo del Governo Militare Jugoslavo (GMJ), che si estendeva in tutta la rimanente parte della regione, ovvero tutta l’Istria e gli entroterra di Trieste e Gorizia. La linea di demarcazione delle due zone fu denominata “Linea Morgan”.

[65] Pupo, op. cit., p. 105.

[66] Pupo, op. cit., p. 108.

[67] Era stata istituita dal Consiglio dei Ministri degli Esteri riunitosi a Londra per la trattativa riguardante il confine italo-jugoslavo nel settembre 1945; dopo aver riscontrato l’inconciliabilità delle posizioni dei due paesi, il Consiglio nominò una commissione quadripartita (Francia, Inghilterra, URSS e USA) da inviare nella Venezia Giulia per constatare l’assetto etnico del territorio e per formulare delle congrue proposte di soluzione alla vertenza confinaria: dal 9 marzo al 5 aprile 1946 la Commissione visitò l’area contesa.

[68] Testimonianza rilasciata da Sergio Cionci all’autore in data 28 settembre 2005 a Gorizia.

[69] Guido Rumici, Infoibati (1943-1945). I nomi, i luoghi, i testimoni, i documenti, Mursia, Milano 2002, pp. 172-173.

[70] Traggo la citazione dalla Relazione di Luigi Tomaz per il giorno del ricordo 2005, supplemento n. 2 di Comunità Chersina, n. 73, aprile 2005, p. 7. Il testo della lettera è stato precedentemente pubblicato dalla rivista Fiume - rivista di studi fiumani, anno VI, aprile 1986, n. 11, pp. 14-15.

[71] Pupo, op. cit., p. 83.

[72] Organo di stampa del PCI giuliano.

[73] Traggo la citazione da Rumici, op. cit., p. 179; cfr. l’Archivio IRSMLFVG di Trieste, Fondo Venezia Giulia, b. IV, doc. n. 337.

[74] Pupo, op. cit., p. 102.

[75] Pupo, op. cit., p. 113.

[76] Ibid., p. 113.

[77] Pupo, op. cit., p. 120.

[78] La Zona A si estendeva da Duino fino alla città di Trieste compreso il suo centro urbano e l’immediata periferia a sud del capoluogo giuliano.

[79] La Zona B aveva una superficie maggiore rispetto alla Zona A, e si estendeva lungo la penisola istriana nella parte nord-occidentale di essa.

[80] Le parole si riferiscono a una dichiarazione scritta di Boris Kidric, esponente sloveno dell’epoca; traggo la citazione da Pupo, op. cit., pp. 155-156.

[81] Traggo la citazione da Pupo, op. cit., p. 154; cfr. Ordinanza n. 29, in “Bollettino ufficiale della Delegazione del Comitato Regionale di Liberazione Nazionale per il Litorale sloveno”, I (1946), n. 4, 14 gennaio 1946.

[82] Pupo, op. cit., p. 158.

[83] Il Cominform rappresentava la struttura che accoglieva tutti i partiti comunisti d’Europa in un unico ufficio di consultazione, monitorato e presieduto dall’Unione Sovietica che impartiva le linee guida di riferimento da osservare.

[84] Pupo, op. cit., p. 167.

[85] Albaro Vescovà, Ceroi, Crevatini, Elleri e altri villaggi del Muggiano già appartenenti alla Zona A furono ceduti alla Zona B.

[86] L’esodo giuliano-dalmata si disseminò nelle Americhe, in Oceania, e addirittura in Sudafrica, oltre che in Italia.

[87] Pupo – Spazzali, op. cit., p. 219.

[88] Ibid., p. 219.

[89] Erano le strutture preposte alla “rieducazione politica” dei comunisti cominformisti, ovvero dei comunisti fedeli alla linea internazionalista di Stalin; il più famigerato era il campo di Goli Otok, ove si consumarono innumerevoli atrocità che di “umano” avevano soltanto il mandante, ovvero il maresciallo Tito. Per un accurato approfondimento del tema si veda: Giampaolo Pansa, Prigionieri del silenzio. Una storia che la sinistra ha sepolto, Sperling & Kupfer Editori, Milano 2004.

[90] Pupo – Spazzali, op. cit., pp. 221-222.

[91] Traggo la citazione da Pupo, op. cit., p. 206; cfr. Giani Stuparich, Trieste emigra, in “Il Lavoratore”, 1° agosto 1955.

[92] Piazza, op. cit., p. 46.

[93] Traggo questo spunto da una citazione contenuta in: Pupo – Spazzali, op. cit., pp. 61-63. Si veda inoltre: G. Beari, La “foiba”, in “Vita Nuova”, settimanale della diocesi di Trieste, 4 marzo 1944.

[94] Ibid., p. 61.

[95] Ibid., p. 62.

[96] Traggo la citazione da Pupo – Spazzali, op. cit., p. 135. L’estratto appartiene ad un art. uscito in “Primorskij Dnevnik” del 17 agosto 1989.

[97] Galliano Fogar è uno storico triestino e studioso della Venezia Giulia del Novecento. Ricopre inoltre l’incarico di segretario dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli – Venezia Giulia.

[98] Pupo - Spazzali, op. cit., pp. 138-139.

[99] Pupo – Spazzali, op. cit., p. 141.

[100] Ibid., p. 142.

[101] Ibid., p. 142.

[102] Bogdan Novak è uno studioso sloveno anticomunista che per ovvie ragioni fu costretto all’esilio negli Stati Uniti, dove poté dedicarsi allo studio della questione di Trieste e delle foibe della primavera del 1945, considerate come la conseguenza della vittoriosa conclusione della rivoluzione comunista jugoslava; le sue tesi saranno successivamente riprese anche dalla storiografia slovena degli anni Novanta. Cfr. Ibidem, p. 155.

[103] Traggo questo estratto da: Pupo – Spazzali, op. cit., pp. 158-159. L’opera di riferimento è: B. Novak, Trieste 1941-1954. La lotta politica, etnica e ideologica, Mursia, Milano 1973.

[104] Ibid., p. 159.

[105] Diego de Castro negli anni Cinquanta adempì al delicato ruolo di consigliere politico italiano presso il Governo militare alleato della Zona A. Cfr. Ibid., p. 160.

[106] Traggo questo estratto da: Ibid., p. 161. L’opera di riferimento è: D. de Castro, La questione di Trieste. L’azione politica e diplomatica italiana dal 1943 al 1954, Lint, Trieste 1981, vol. I, p. 212, nota 445.

[107] Traggo la citazione da Pupo – Spazzali, op. cit., p. 167. Cfr. Elio Apih, Trieste, in “Storia delle città italiane”, Laterza, 1988, pp. 165-167.

[108] Traggo questo estratto da: Ibid., p. 169. L’opera di riferimento è: Roberto Spazzali, Foibe: un dibattito ancora aperto. Tesi politica e storiografica giuliana tra scontro e confronto, Editrice Lega Nazionale, Trieste 1990, p. 640.

[109] Raoul Pupo, Matrici della violenza tra foibe e deportazioni, in F. Dolinar e L. Tavano (a cura di), Chiesa e società nel Goriziano fra guerra e movimenti di liberazione, Istituto di storia sociale e religiosa, Gorizia 1997.

[110] Traggo la citazione da Pupo – Spazzali, op. cit., p. 172. Cfr. Ibidem, p. 242.

[111] Ibid., p. 172.

[112] Giampaolo Valdevit, Foibe: l’eredità della sconfitta, in Id. (a cura di), Foibe, il peso del passato. Venezia Giulia 1943-1945, Marsilio, Venezia 1997.

[113] Traggo questo estratto da: Pupo – Spazzali, op. cit., p. 175. L’opera di riferimento è: Ibid., pp. 23-31.

[114] Traggo la citazione da Ibid., p. 176.

[115] Nevenka Troha è considerata dagli addetti ai lavori una delle voci più attendibili della storiografia slovena; è docente di storia contemporanea presso l’Università di Lubiana e ha fatto parte della commissione storico-culturale italo-slovena che ha lavorato alla stesura della relazione Rapporti italo-sloveni 1880-1956, in “Italia e Slovenia alla ricerca di un passato comune”, op. cit., pp. 71-97.

[116] Traggo questo estratto da: Pupo – Spazzali, op. cit., pp. 194-195. L’opera di riferimento è: Nevenka Troha, Fra liquidazione del passato e costruzione del futuro. Le foibe e l’occupazione jugoslava della Venezia Giulia, in G. Valdevit (a cura di), op. cit., p. 95.

* Per quanto riguarda le vicissitudini subite dagli italiani giuliano-dalmati, va detto che in questa sede si considerano come estremi di riferimento l’autunno del 1943 (primi infoibamenti) e il 1956 (conclusione dell’esodo di massa degli ultimi italiani della Zona B); tuttavia è doveroso ricordare che la questione giuliano-dalmata si è successivamente protratta fino ad oggi, poiché vi sono ancora dei contenziosi da sanare tra Italia, Slovenia e Croazia sulla questione dei beni abbandonati dagli esuli italiani e su altre vertenze giuridico-amministrative di vario tipo.

* u.c. = ultima consultazione