UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI UDINE
FACOLTA’ DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE
CORSO DI
LAUREA IN RELAZIONI PUBBLICHE
TESI DI LAUREA
LA QUESTIONE GIULIANO-DALMATA:
STORIOGRAFIA, OPINIONE PUBBLICA E MEMORIA
DI UN PASSATO ANCORA PRESENTE
Relatore
Laureando
Ch.
mo prof. Fulvio Salimbeni Marco Piccoli
Anno
accademico 2004 - 2005
L'uscire
d'un paese che abitavasi,
o avevasi diritto di abitare;
uscirne senza poterne o volerne ritornarci mai,
o per alcun tempo indeterminato.
Esilio è per lo più la Condanna,
ma può essere volontario,
per evitare male morale
e civile maggiore.
Nicolò Tommaseo
(Sebenico 1802 - Firenze 1874)
Dizionario della lingua italiana
Questo lavoro, per quanto modesto sia, non avrebbe
mai potuto essere realizzato senza l’appoggio, la collaborazione e il sostegno
costante di Laura Crotti e Gilberto Piccoli.
Ci sono poi altre persone che hanno
contribuito in varia misura al raggiungimento di questo obiettivo, e le vorrei
ricordare:i miei fratelli Davide e Pietro, i miei “vecchi” materni e paterni,
Enrico, Simone, Lorenzo, Emiliano, Marco, compagni e compagne di università,
tutti gli amici di Gorizia, e i docenti Todd, Londero, Lahey, Pocecco, Sacco e
Ricci per aver stimolato il mio entusiasmo accademico.
Questa esperienza è
dedicata a tutti quelli che non smetteranno di credere nella propria leggenda
personale
INDICE
PREFAZIONE p.
9
Capitolo
1
LA
DIFFICILE COLLOCAZIONE DELLA QUESTIONE GIULIANO-DALMATA
1.1 Premessa p.
13
1.2 Le origini della civiltà
giuliano-dalmata p.
15
1.3 L’area giuliano-dalmata verso la
crisi p.
17
1.4 L’area giuliano-dalmata durante
l’epoca fascista p.
24
Capitolo
2
LA
FASE CALDA: CADUTA DEL FASCISMO E FINE DELLA GUERRA
2.1 Il prologo della tragedia p.
35
2.2 Le uccisioni del ’43 p.
37
2.3 La parentesi nazista p.
42
2.4 L’epilogo della tragedia p.
46
2.5 Gli eccidi della primavera del ’45 p.
47
2.6 Il progetto jugoslavo nella Venezia
Giulia p.
53
Capitolo
3
LE
CONTROVERSIE DIPLOMATICHE NELLA CRISI GIULIANA
3.1 La “svolta d’autunno” e le
responsabilità del PCI p.
60
3.2 La crisi giuliana nel nuovo
contesto internazionale p. 63
3.3 I negoziati di pace e la firma del
trattato a Parigi p.
65
3.4 La gestione jugoslava della Zona
“B” p. 69
3.5 La difficile soluzione della crisi
per Trieste p.
71
3.6 La lunga diaspora dei
giuliano-dalmati p.
81
Capitolo
4
DELLE
FOIBE E DELL’ESODO: APPROCCI INTERPRETATIVI DIFFERENTI
4.1 Le difficoltà e le tentazioni p.
89
4.2 La posizione della Chiesa p.
90
4.3 Le tesi conflittualiste p.
91
4.4 Storicizzazioni del passato p.
92
4.5 Storicizzazioni del presente p.
95
POSTFAZIONE p.
101
CONCLUSIONI p.
105
APPENDICE: TESTIMONIANZE DAL MONDO
GIULIANO-DALMATA p. 107
ALLEGATO: ILLUSTRAZIONI p.
115
RIFERIMENTI p.
117
PREFAZIONE
In una società
post-contemporanea a vocazione multiculturale come quella occidentale, si sta
gradualmente rafforzando un’identità pluralista fondata sul dialogo tra le
diversità e sulla condivisione di valori universali tra i popoli e le nazioni.
Ma l’Europa di
oggi non può e non deve rimuovere le smagliature che hanno accompagnato il
secolo delle guerre e delle masse, dove numerosi e dolorosi sono stati i drammi
che esse hanno prodotto: alcuni assurti a modelli rappresentativi di ciò che non
dovrebbe accadere mai più; altri misteriosamente vittime di un oblìo anomalo,
forse rei di aver diviso profondamente l’opinione pubblica, la storiografia, e
soprattutto la memoria.
Ecco che
allora il retaggio storico può ancora scuotere le coscienze, agitare gli animi,
talvolta sobillare nostalgie recondite tra chi ha sofferto da una parte e chi
dall’altra. Appare arduo tuttavia riuscire a fondere il mosaico di microstorie
europee in un’unica soluzione indolore, capace di mettere definitivamente i
sigilli alle pagine più indigeste del secondo dopoguerra europeo.
Si stima che
la ridefinizione dei confini tra stati vincitori e stati vinti alla fine della
II guerra mondiale abbia prodotto nel vecchio continente il trasferimento
forzato di quindici milioni di persone[1].
L’affermarsi inesorabile degli stati nazionali ha lasciato segni indelebili
soprattutto tra la popolazione civile, improvvisamente privata della propria
patria e impotente al cospetto delle volontà espresse sui tavoli della
diplomazia internazionale.
Paradossalmente
per molti europei la firma dei trattati di pace sancì l’inizio di un incubo
fatto di privazioni, sopraffazioni, violenze, espulsioni; per altri decretò il
coronamento di un sogno che si materializzava nella possibilità di esprimere liberamente
la propria coscienza nazionale.
In questa
cornice intrisa di memorie contrapposte si colloca la questione giuliano-dalmata, che di queste vicende rappresenta nello
specifico lo stillicidio di conflitti e di violenze creatosi sul confine nord-orientale
italiano tra i diversi gruppi nazionali che da secoli abitano questa regione
mistilingue.
La Venezia
Giulia di oggi è impegnata a superare le barricate erette negli ultimi due
secoli attraverso guerre e aspre contese[2].
Un periodo questo, in cui la regione ha conosciuto tutte le stagioni politiche
nella sua lenta maturazione sociale, culturale, ed economica.
Da quando
l’Impero asburgico soppiantò i fasti della Serenissima, nelle terre
alto-adriatiche si susseguirono irredentismi, nazionalismi, sciovinismi, guerre
di eserciti, occupazioni, deportazioni, resistenze e guerriglie partigiane,
eccidi, revanscismi, lotte per il potere, regimi totalitari, crisi diplomatiche
con ripercussioni internazionali.
Alla fine di
questa virulenta proliferazione di conflitti tra popoli e ideologie
contrapposte, l’area giuliano-dalmata raggiunse il parossismo della sua agonia
con l’esodo massiccio della comunità italiana che risiedeva da secoli in
quest’area: Istria; arcipelago del Quarnaro, comprendente le isole di Cherso e
Lussino e la città di Fiume; Dalmazia, in particolare la città di Zara[3].
Tale fenomeno
ha profondamente alterato gli assetti socio-demografici di queste terre: La
componente italiana fu sostanzialmente debellata ed estromessa dal suo ruolo di
protagonista nella vita pubblica con il sovvertimento dell’ordine politico,
sociale ed economico. Chi consapevolmente voleva salvaguardare la propria
identità nazionale dovette prendere la via dell’esilio e dell’incertezza di
fronte a un cambiamento così radicale.
Ma allora
viene da chiedersi quale sia stato il filo conduttore capace di convogliare
l’intricato Novecento giuliano verso un momento storico più fiducioso come
quello odierno: quali sono le dinamiche comunicative che hanno portato
storiografia, pubblicistica, opinione pubblica e informazione a inaugurare
negli ultimi due decenni il cantiere della riconciliazione. Qual è il percorso
negoziale in atto, in cui tentano di confluire le diverse linee interpretative
che hanno animato il dibattito per più di sessant’anni. E prima di tutto,
perché questa storia, la storia del travagliato confine nord-orientale
italiano, è rimasta per così tanto tempo soltanto la storia di pochi.
Il terreno da
sondare non è stato ancora sminato del tutto dalle strumentalizzazioni del
passato, e si presenta ricolmo di attriti e di resistenze provenienti da ambiti
forse incompatibili come il mondo della politica e quello della nostra società,
così radicalmente mutata nel contesto globale di oggi.
Nel panorama
giuliano-dalmata odierno esiste un mondo che stoicamente sopravvive sotto
l’egida della memoria, nonostante le sue vicissitudini drammatiche lo abbiano
diviso in due metà e in due scelte: la prima è rappresentata dalla comunità
italiana della Venezia Giulia e della Dalmazia in esilio, che ha voluto
custodire gelosamente i propri sentimenti nazionali grazie al ricordo di anni
terribili, nonché alla lungimiranza con cui i suoi membri hanno saputo
affrontare il cambiamento storico. La seconda è invece costituita dalle
comunità italiane dei “rimasti”, ovvero da coloro che per ragioni molteplici
hanno continuato a vivere nei territori ceduti alla Jugoslavia dopo i trattati
di pace.
Vivere oggi in
ciò che resta della Venezia Giulia italiana può suggerire delle interessanti
riflessioni sugli errori del passato e sulle prospettive per il futuro di
quest’area.
Che eredità ci
lasciano le spoglie di un vissuto non ancora nitido? Una cosa è certa: il
passato resta dietro l’angolo, in tutte le sue sfaccettature sedimentatesi nel
secolo scorso. Fino a qualche lustro fa, questo passato è stato scagliato con
ardore contro il passato degli altri, contribuendo a incrinare i già precari
equilibri esistenti tra i diversi segmenti dell’opinione pubblica giuliana e
nazionale.
Ma se davvero
il processo di unificazione europea sta trasformando i valichi di frontiera in
ponti di accesso all’integrazione socio-culturale, non si deve certo
trascendere dall’effettiva incapacità, da parte di chi ha vissuto e
interiorizzato il significato di quei confini, di accettare tutto questo
placidamente: impossibile. Lungo la linea confinaria che per diversi decenni ha
diviso e spaccato mentalità, stili di vita, e nondimeno concezioni
diametralmente opposte dell’organizzazione statuale, non si può pretendere che
tutto questo si amalgami in un indistinto calderone di massa.
Rievocare i
fasti e il prestigio della civiltà prima romana e poi veneta dell’altra sponda
adriatica[4]
potrebbe essere un buon punto di ripartenza per progettare una Venezia Giulia
più ambiziosa, a patto che non si dimentichi né si semplifichi una storia
complessa, che non si calpesti il vissuto degli altri e soprattutto, che non si
mascheri davvero nulla di quel teatro di ingiustizie che fu il secondo
dopoguerra nell’Alto Adriatico.
Anche Gorizia,
che fu la “Nizza austriaca”, porta ancora con sé i segni di quelle lacerazioni
confinarie che la esautorarono del ruolo di grande provincia che ebbe in
passato. Oggi però, grazie al suo apprezzabile rilancio sostenuto dalla realtà
universitaria e dal fiorente turismo culturale nell’Isontino, sembra
riappropriarsi gradualmente dello splendore di un tempo.
La sensazione
di estraneità dalle vicende nazionali dell’area giuliano-dalmata mi hanno
indotto ad avvicinarmi al suo tormentato passato, cercando di evincerne una
chiave di lettura per il presente. Il focus della mia analisi e delle mie
ricerche sarà concentrato sul rapporto tra storiografia, opinione pubblica e
memoria: tre interlocutori difficilmente convergenti sui nodi interpretativi
della questione. Cercherò così di fornirne un’inquadratura trasparente,
prendendo in esame anche le interferenze degli ambienti politici e i tentativi
di strumentalizzazione che si sono addensati sull’impegnativa storicizzazione
degli avvenimenti.
L’indagine che
mi propongo di compiere è metodologicamente impostata su una pluralità di fonti
che consentano di confrontare le diverse angolature con cui si è svolto il
dibattito fino a oggi: dalla bibliografia di base alla pubblicistica e alla
letteratura specifica; dall’analisi dell’approccio mass-mediatico alle
interviste di testimoni, studiosi dell’argomento, rappresentanti delle
associazioni e opinion leader; e infine, fonte ormai imprescindibile, dalla
consultazione della sitografia di interesse.
L’intento è
quello di desumere dalle mie ricerche le principali linee argomentative
necessarie per elaborare delle formulazioni coerenti: assumere dunque una
posizione critica ma ponderata sull’annosa questione giuliano-dalmata.
La congiuntura
odierna non dovrebbe più fomentare i contrasti, bensì suggerire una riflessione
ragionata sulle conseguenze disastrose di taluni progetti politici del passato.
Essi, anziché risolvere le tensioni sociali tra diversi gruppi nazionali, hanno
prodotto la loro più totale degenerazione, sfociata nell’assoluta impossibilità
di raccontare l’Ottocento e il Novecento della Venezia Giulia e della Dalmazia
a senso unico.
Il punto è che
nel Novecento europeo in quest’area si sono consumati diversi drammi, ciascuno
dei quali con le proprie ripercussioni sulla popolazione civile. Sarebbe
deleterio non riconoscere unanimemente lo spessore storico di quelli più
scomodi e delicati da raccontare. Non ultimi quelli che simboleggiano per
antonomasia un autentico sacrificio nazionale, quello di chi ha pagato con
l’esilio i debiti di guerra del proprio paese, uscito vinto e ridimensionato
dall’ultimo conflitto mondiale.
1. LA
DIFFICILE COLLOCAZIONE DELLA QUESTIONE GIULIANO-DALMATA
1.1 PREMESSA
Sulla questione giuliano-dalmata molto si
è scritto e molto si è pubblicato, nel tentativo di fornire un quadro di
riferimento universale, in grado di mettere d’accordo storici e studiosi
dell’argomento. Ma perchè tutto questo si è reso necessario? Quale ragione
essenziale ha costretto gli esperti a condurre ricerche, consultare fonti
documentarie, raccogliere testimonianze, elaborare informazioni, formulare,
argomentare e confutare congetture in grado di reggere ai criteri di
oggettività richiesti per diventare tesi sostenibili? Esiste un motivo
sostanziale che ridotto ai minimi termini può sostantivarsi nella questione giuliano-dalmata? Ma
soprattutto, di che questione si tratta?
Tutte queste domande raggiungono lo
stesso epicentro storico in un’unica risposta: i confini di oggi sono lo
spettro degli errori del passato. Errori non interpretabili soltanto secondo
mera consequenzialità cronologica, bensì analizzabili con un approccio diverso,
basato su un’intelaiatura malleabile delle vicende che caratterizzano la
contemporaneità dell’Alto Adriatico.
Prima di ogni considerazione
interpretativa è opportuno stabilire che la questione giuliano-dalmata si
inserisce nel contesto europeo con grande attualità, poiché oggi Italia,
Slovenia e Croazia (le entità statuali presenti nell’area della Venezia Giulia
e della Dalmazia) cercano di riproporre nei termini del dialogo interculturale
quello che fino al secolo scorso poteva essere considerato più facilmente uno
scontro etnico tra la civiltà latina e quella slava.
Esiste dunque una questione giuliano-dalmata
perchè quest’area è stata per molto tempo oggetto di contesa tra i popoli che
l’hanno abitata, in una disputa continua sui tracciati confinari che
decretavano la sovranità di imperi, regni, repubbliche e stati che in essa si
affermavano. La sommatoria di questi avvicendamenti politico-territoriali è, in
chiave odierna, la volontà di trasformare le diversità e le divisioni dei
secoli scorsi in opportunità condivisibili nel nuovo millennio. In altri
termini, rompere con la cultura delle discriminazioni pregiudiziali e affidarsi
alle possibilità che offre una cooperazione a lungo termine, basata
sull’esecrazione di quegli stessi errori che hanno restituito soprattutto odi e
rancori lungo i confini. Nella Venezia Giulia contemporanea del secolo scorso,
più che circoscrivere identità nazionali compatte e aggregate, le vertenze
confinarie hanno prodotto forzature ineluttabili nella popolazione mistilingue
che vive da generazioni in questi territori.
Lo spettro del passato allora è ben
rappresentato dalla volontà di fagocitare delle realtà autoctone indiscutibili
all’interno di progetti politici aberranti, rei di aver falcidiato il retaggio
di civiltà millenarie con cinica insensibilità e con pesanti responsabilità
storiche. Ecco perchè i confini di oggi possono essere considerati non tanto
come la sedimentazione spontanea di una cultura all’interno del suo habitat
socio-demografico, quanto piuttosto l’emblema della forza coercitiva esercitata
dai totalitarismi del Novecento sulle masse, inculcate di ideali biechi presto
diventati pura esasperazione ideologica.
Ciò che distingue un ideale da
un’ideologia è presto noto: l’ideale sorge da un desiderio di libertà dell’uomo
che sente propria l’esigenza di esprimerlo nel rispetto della libertà altrui;
l’ideologia, esula da qualsiasi etica del rispetto dei singoli, e si innesca
attraverso la volontà di affermazione di un pensiero. Questo, mediante
un’accurata sofisticazione in cui la propaganda ne accresce il suo peso
specifico, assurge a principio indiscutibile per entità sociali superiori che
ne veicolano i suoi contenuti.
Il risultato inesorabile di taluni
progetti politici sono state le profonde lacerazioni generate dai nazionalismi
di massa. Ideologie, penetrate visceralmente nelle ignare menti umane di chi
credeva di combattere per i propri ideali, aderendo a queste subdole correnti
che incarnavano un pensiero politico degno soltanto della sua bassezza.
Non c’è da stupirsi se ancora oggi è
arduo pensare di poter scrivere questa storia con una sola mano, capace di
esprimere ricordi e memorie condivise, unanimi. Tuttavia è necessario provarci,
seguendo la strada abilmente suggerita da Corrado Belci, che a questo proposito
parla di “purificazione della memoria”[5],
ossia “riconoscere, senza deformazioni, [...] la consistenza e lo spessore
degli eventi, la loro natura, la loro qualificazione”[6].
Insomma, i confini non si possono
cambiare ma la storia che li ha determinati non deve più godere di immunità
faziose e non deve più nascondere scheletri nell’armadio.
1.2 LE ORIGINI DELLA CIVILTA’ GIULIANO-DALMATA
Quando si tenta di stabilire un prima e
un dopo al solo scopo di rivendicare diritti storici sul territorio
giuliano-dalmata, si corre il rischio di retrodatare a oltranza la venuta e
l’insediamento in quest’area di popoli espressione, come abbiamo visto, di
orizzonti culturali profondamente diversi sul piano etnico, sociale e
linguistico.
Potremmo dire ad esempio, che prima
dell’arrivo dei Romani la Venezia Giulia era abitata da un popolo, gli illiri,
considerati dalle popolazioni slave loro antichi consanguinei e antenati
storici. Continuando su questa linea si potrebbe aggiungere che l’arrivo dei
Romani sulla sponda orientale dell’Adriatico risale a 21 secoli fa, quando la
latinità allo stato primordiale toccò la costa dalmata nel 219 a.C., la
penisola istriana nel 178-77 a.C., e la Liburnia[7]
nel 129 a.C.
Tornando agli illiri, potremmo anche
appuntare che la ricerca archeologica e storico-linguistica ha smentito la
credenza secondo cui esisterebbe un legame significativo tra questo popolo
arcaico e le popolazioni slave provenienti dall’area carpatico-caucasica,
spintesi verso l’Adriatico durante le invasioni barbariche alto-medioevali.
Una data indicativa per risalire la china
della millenaria storia giuliano-dalmata potrebbe essere l’anno 480, quando a
Salona, antica città edificata con la romanizzazione della Dalmazia, nel
palazzo di Diocleziano morì Giulio Nepote, ultimo imperatore dalmata
riconosciuto anche dall’Impero d’Oriente.
Soltanto dopo la riunificazione formale
dell’Impero, giunsero da oltre il Danubio gli Slavi, trascinati dagli Avari a
ridosso delle terre istro-dalmate. Ma questo avvenne molti anni dopo: a partire
dal 550 i primi nuclei di proto-sloveni si stabilirono nella Carinzia, mentre
tra l’800 e l’810 Pipino, figlio di Carlo Magno, consentì ai Croati di
attraversare il Danubio.
Altra data da ricordare sarebbe l’anno
614, in cui gli Slavi distrussero Salona. I salonitani, barricati all’interno
del palazzo castrense, fondarono Spalato, che resse sotto Ravenna esarcale fino
all’arrivo di Venezia, avvenuto già nell’anno 1000[8].
Nei quattro secoli successivi la Dalmazia
fu contesa tra ungheresi, croati e veneziani, e soltanto nel 1409 il dominio
della Serenissima si estese stabilmente in quest’area[9].
Da qui in avanti la sovranità di Venezia resisterà fino al fatidico 1797, anno
in cui le sorti dei “fedelissimi Schiavoni”[10]
subirono il pesante contraccolpo del trattato di Campoformido.
Durante l’epoca veneziana l’area
giuliano-dalmata conobbe una grande prosperità, caratterizzata dal fiorire
delle arti e degli scambi culturali e
commerciali, soprattutto nel periodo rinascimentale.
Questo escursus storico della civiltà giuliano-dalmata sarebbe del tutto
inutile se non si facessero delle osservazioni metodologiche a riguardo: a ben
vedere stiamo parlando di una civiltà millenaria in cui si sono affermate due
etnie. Quella latina, decisamente lineare, la cui eredità è passata prima per i
Romani e poi per Venezia, e su cui è germogliata successivamente l’italianità
adriatica contemporanea; quella slava, invece, dalle sfaccettature più
eterogenee, che con andamento meno continuo ha convogliato nei suoi binari
popoli diversi come gli antichi illiri o gli slavi indistinti delle invasioni
barbariche alto-medioevali.
Ma la logica del prima e del dopo, oltre
a liquidare troppo sbrigativamente un problema ancora attuale, sottovaluta due aspetti fondamentali alla comprensione
della genesi storico-culturale di queste terre: in primo luogo andare alla
ricerca dell’origine della civiltà giuliano-dalmata non significa affatto dare
nuova linfa a rivendicazioni territoriali che oggi, apparirebbero fuorvianti e
anacronistiche al cospetto del processo di integrazione che l’Europa sta sostenendo.
Inoltre, nella civiltà giuliano-dalmata è opportuno esaminare con attenzione
l’influenza, l’impatto culturale e lo spessore storico che quelle etnie e quei
popoli hanno avuto fino all’arrivo della contemporaneità; come vedremo,
l’irrompere delle ideologie nell’area alto-adriatica ha prodotto delle
alterazioni politico-sociali, sfociate nello sconvolgimento degli assetti
statuali e delle linee confinarie.
1.3 L’AREA GIULIANO-DALMATA VERSO LA CRISI
Alla luce di quanto detto finora sulla
questione giuliano-dalmata, sarebbe interessante interpretare quei meccanismi
che hanno trasformato una rivalità storica (tra popolazioni latine e slave) in
un conflitto etnico su base nazionale. Tale scontro conobbe la sua maturazione
in epoca asburgica: è in questo periodo infatti che cominciarono a guadagnare
un apprezzabile consenso alcune tesi destabilizzanti per la convivenza delle
diverse identità nazionali all’interno dell’Impero austro-ungarico.
C’è un passaggio fondamentale che può
aiutare a comprendere meglio la proliferazione dei contrasti tra italiani e
slavi dentro l’Impero: in questa fase a mutare è l’atteggiamento di fondo
dell’opinione pubblica, abilmente persuasa dalla propaganda politica a
trasformare la propria cultura della nazione in ideologia nazionale, per non
dire semplicemente nazionalismo di massa.
Le prime spinte eversive affiorarono
nella prima metà del XIX secolo, quando tra il 1830 e il 1848 dentro i confini
dell’Impero si diffuse l’illirismo[11].
Questo movimento si fece portavoce del diritto storico delle nazionalità slave
di ottenere l’autonomia all’interno dei territori asburgici. Tuttavia,
l’impulso autonomista slavo comprendeva anche il litorale dalmata, liburnico,
istriano, Triestino e Goriziano, tutte zone in cui forte e rigogliosa era la
presenza italiana, soprattutto nei centri urbani e costieri in cui fiorenti
erano le attività commerciali e marittimo-portuali.
Non ci volle molto tempo per
strumentalizzare l’esperienza dell’illirismo, che nelle fasi successive della
storia giuliano-dalmata del Novecento fu pretestuosamente incarnato nel
nazionalismo slavo di stampo etnicista. Il mondo slavo guardava con voluttà al
diffondersi di un’ideologia che avrebbe costituito il perno centrale delle
rivendicazioni politiche e territoriali sulla Venezia Giulia[12]
alla fine della II guerra mondiale, dopo che il fascismo aveva compromesso
irrimediabilmente la posizione dell’Italia sui tavoli delle trattative di pace
di Parigi.
Ma asserire che la conflittualità
italo-slava abbia avuto la sua origine alla fine della I guerra mondiale con lo
sfacelo dell’Impero austro-ungarico significherebbe dare adito a un dogma
storico privo di fondamento: primo perchè l’esperienza risorgimentale italiana
fece sentire i suoi effetti anche in Venezia Giulia e Dalmazia, secondo, e
fatale, perchè il governo imperiale di Vienna mutò drasticamente il suo
atteggiamento nei confronti dei sudditi di nazionalità italiana dopo la
costituzione del Regno d’Italia nel 1861.
Frattanto si può aggiungere che il problema
tra italiani, croati e sloveni all’interno delle province del Litorale[13]
si inserisce a pieno titolo nella cornice mitteleuropea ormai in crisi, in
cui il rapporto conflittuale tra le varie nazionalità stava per raggiungere la
sua massima agonia. Nell’intricato puzzle
asburgico numerosi erano i dissidi tra i gruppi nazionali presenti entro i
confini dell’Impero, soprattutto tra cechi e tedeschi in Boemia e Moravia,
polacchi e ucraini in Galizia, romeni e magiari in Transilvania; anche nel
Tirolo la tensione aumentò fra i trentini di lingua italiana che si sentivano
impotenti di fronte all’egemonia tedesca.
A questo contesto si associa anche il
riscatto del Veneto ottenuto dal Regno d’Italia nel 1866, che estromise quasi
del tutto la presenza austriaca dalla penisola: nell’euforia risorgimentale
italiana si identificarono anche istriani e dalmati, instancabili testimoni
dell’eredità di Venezia; A Trieste tuttavia si respirava un clima un po’
diverso, dovuto soprattutto al timore della classe dirigente italiana di
perdere tutti quei privilegi e benefici ottenuti sotto l’egida dell’Impero,
capace di trasformare la città in uno dei più prestigiosi porti del
Mediterraneo.
Nel frattempo però, cominciarono a mutare
gli assetti politico-sociali in tutta la Venezia Giulia e la Dalmazia, e negli
ultimi decenni dell’Ottocento la svolta destabilizzante nei rapporti
italo-slavi dentro l’Impero assunse le sue sembianze più concrete. La nascita
del Regno d’Italia e la successiva conquista di Roma avevano scaturito l’accanimento
delle autorità asburgiche contro la componente italiana: per tutta la seconda
metà del XIX secolo il governo di Vienna si fece prodigo di una politica ostile
all’italianità adriatica cercando di indebolirla, se non di danneggiarla con
provvedimenti iniqui e misure restrittive di vario tipo. Ad esempio,
introducendo il bilinguismo in Istria e modificando i collegi elettorali in
Dalmazia per impedire l’elezione di rappresentanti italiani al parlamento di
Vienna, in un’ottica filo-croata che consegnasse in breve tempo tutte le
amministrazioni comunali alla componente slava. Destò scalpore poi il
perentorio diniego con cui l’Impero boicottò l’istituzione dell’università a
Trieste, considerata come una pericolosa fucina di idee in cui avrebbe potuto fermentare
il sentimento italiano.
Nel capoluogo giuliano inoltre, fu
proibito al comune di conferire licenze industriali per l’implementazione di
progetti di ampio respiro, mentre parallelamente si incentivò l’imprenditoria
slovena con misure e concessioni che ne corroborassero la presenza e il peso
nella città. Il quadro fu completato con il licenziamento dei dipendenti regnicoli dell’amministrazione comunale,
andando così a colpire l’italianità nel cuore delle istituzioni locali, in cui
essa occupava tradizionalmente un ruolo egemone.
Da non trascurare poi, l’importanza di
altri tre fattori che hanno dato il loro apporto all’inasprimento della crisi
giuliana: a vantaggio della componente slava, che in città avvalorava la sua
presenza grazie alla nascita di una borghesia slovena determinata a rivendicare
i diritti nazionali nell’Impero, si schieravano i socialisti, da sempre in
prima linea per la questione sociale, ovvero per la tutela del proletariato
urbano nelle cui fila era dominante la presenza slava.
La superiorità economica e culturale
degli italiani a Trieste fu poi osteggiata dall’alleanza che Vienna strinse con
l’elemento sloveno sul finire del secolo: se da una parte la compagine slava si
era sempre comportata in modo leale nei confronti della corona, salvo rimarcare
puntualmente il proprio desiderio di emancipazione, dall’altra è altrettanto
vero che dopo la beffarda sconfitta del 1866 gli Asburgo si guardavano bene dal
Regno d’Italia, consci che Trento e Trieste da lì in avanti avrebbero costituito
gli avamposti del loro impero. In più va detto che la politica austriaca
filo-slovena rientrava in un disegno di ribilanciamento delle realtà nazionali
dell’Impero, presupposto imprescindibile per la sua stessa sopravvivenza. Ecco
perchè così tanta attenzione per la vocazione cosmopolita di Trieste.
Il clero slavo infine, fu l’elemento
precursore di quel credo anti-italiano che trovava la sua massima espressione
in azioni di proselitismo a sfondo ideologico; con sorprendente abilità
dialettica esso profuse sentimenti italofobi soprattutto tra i ceti contadini
dell’entroterra istriano, dove forte era la presenza croata di confessione
cattolica. L’ancoraggio dei sacerdoti spesso consisteva nello screditare
l’immagine del neo-costituito stato italiano attraverso ammalianti omelie che
denunciavano il presunto, deplorevole comportamento delle istituzioni italiane,
ree di tenere in ostaggio il Papa a Roma.
Fu quindi l’imperversare di una
connivenza strategica tra le autorità dell’Impero e la causa slava ad aggravare
la situazione nella Venezia Giulia: la politica asburgica che tendeva sia a
favorire l’elemento sloveno e croato, sia a far presagire una congiura
austro-slava contro l’italianità adriatica, innescò nell’opinione pubblica
italiana una radicale scesa di campo in difesa delle proprie posizioni, oramai
rese inconciliabili con quelle dell’Impero e tuttalpiù decisa a schierarsi a
favore dell’annessione al Regno d’Italia. Nasceva così l’irredentismo adriatico[14],
il cui obiettivo era appunto la realizzazione integrale dell’identità
nazionale. Per portarla a compimento si mise in moto una propaganda
filo-italiana che fino a quel momento era stata patrimonio di pochi, e che ora
diventava lo strumento politico per la difesa dell’italianità adriatica, in
contrasto con le spinte autonomiste delle popolazioni slave.
L’impeto irredentista italiano si fece
sentire inevitabilmente anche lungo la costa dalmata, dove la popolazione
italiana veniva sempre più esautorata dei propri diritti sul piano
politico-economico e fagocitata dalla forte componente croata che avanzava
dall’entroterra verso il mare. Si trattò di un processo di snazionalizzazione
graduale ma efficace che si protrasse fino alla II guerra mondiale. A quel
punto l’attenzione per le sorti dei dalmati scemò, visto che la città di Zara,
principale e compatto caposaldo dell’italianità dalmata, fu completamente rasa
al suolo dai bombardamenti degli Alleati: “fra il 2 novembre 1943 e il 31
ottobre 1944 cinquantaquattro incursioni aeree colpirono la città, uccidendo circa
2000 dei suoi 22.000 abitanti”[15].
I rapporti tra Regno d’Italia e Impero
austro-ungarico riuscirono tuttavia a non deteriorarsi ulteriormente grazie
agli accordi in materia di politica estera. L’alleanza difensiva con la
Germania e l’Austria siglata nel 1882 stemperò temporaneamente i fervori
nazionalisti in un clima che rimase però di grande incertezza.
Nel panorama politico giuliano intanto,
si preparava la strada per lo sganciamento effettivo dall’Impero asburgico
della componente italiana, giocoforza convinta di dover ribadire tenacemente il
ruolo egemone che aveva avuto e consolidato prima con la civilizzazione romana,
poi con la continuazione della tradizione latina in seno alla repubblica di
Venezia.
Ciò che era cambiato rispetto
all’esperienza risorgimentale mazziniana e garibaldina di estrazione
democratica era indubbiamente il contesto in cui l’irredentismo adriatico
affondò le sue radici: i tempi non erano più quelli dei nobili ideali di
libertà dell’uomo e rispetto tra le nazioni.
Nel primo ventennio del Novecento i
conflitti nazionali in Europa strariparono, confluendo nell’ideologia
nazionalista per antonomasia, basata su quanto di più antidemocratico potesse
essa contemplare: politica di potenza, espansione confinaria e concezione
statuale esclusivista, ovvero intolleranza verso le minoranze e costruzione
degli stati nazionali.
Nelle terre alto-adriatiche il precario
equilibrio su cui si reggeva in piedi l’Impero austro-ungarico cominciava a
incrinarsi, mentre la nazionalizzazione delle masse aveva prodotto al suo
interno la “formazione di società nazionali separate e antagoniste”[16].
A questo proposito è meglio precisare che mentre per gli italiani della Venezia
Giulia e della Dalmazia l’idea di nazione rappresentava una scelta volontarista, il criterio di adesione ad
un movimento nazionale per gli slavi era invece frutto di una concezione di
stampo etnicista, basata
esclusivamente sull’appartenenza razziale.
Allo scoppio della Grande Guerra la causa
irredentista italiana aveva sposato quella interventista, e dopo l’ingannevole
patto di Londra[17] e le
radiose giornate di maggio del ’15 l’Italia riuscì a redimere la Venezia Giulia
e qualche scheggia della Dalmazia al termine di una guerra rocambolesca, anche
nei trattati di pace[18].
La fine del primo conflitto mondiale,
oltre a trascinare con sé morte e distruzione, decretò il tracollo dell’impero
austro-ungarico, spingendo la questione giuliano-dalmata in un vicolo cieco:
nelle terre alto-adriatiche infatti, si insediarono il Regno d’Italia e il Regno
dei Serbi, Croati e Sloveni, l’uno accanto all’altro ed entrambi intenzionati
ad affermare le proprie rivendicazioni territoriali per far coincidere i
confini di stato con i propri confini nazionali.
Secondo gli addetti ai lavori fu proprio
la crisi generata dalla dissoluzione dell’Impero a esacerbare la conflittualità
italo-slava: nascevano due stati nazionali, anche se tale definizione potrebbe
essere equivoca, considerando che dentro i confini di questi stati rimasero
comunque ingabbiate delle minoranze “non redente”. Questi nuovi stati erano
concepiti come proprietà esclusiva della maggioranza che li aveva eretti, e
politicamente orientati all’assimilazione, spontanea o coatta, dei gruppi
nazionali minori. Essi venivano percepiti come uno scomodo intralcio, satelliti
del loro stato nazionale di riferimento.
Con il cambio delle sovranità nell’area
giuliano-dalmata furono anche ridefiniti gli obiettivi da perseguire nel
conflitto nazionale italo-slavo; se nella cornice dell’Impero asburgico lo
scontro nazionale si traduceva precipuamente in una lotta per il potere locale,
ora diveniva un’improba prova di forza per entrare a far parte di un solido
stato nazionale a carattere esclusivista, in grado di scompaginare il nemico
storico.
Si apriva pertanto nell’Alto Adriatico
una lunga stagione di crisi, che dopo il ventennio fascista avrebbe conosciuto
un’altra guerra e le lacerazioni confinarie e umane che ne derivarono, per
culminare in un esodo di massa che in queste terre non conosceva precedenti di
una tale portata.
I primi scricchiolii in Italia si
avvertirono dopo che la delegazione italiana presieduta da Vittorio Emanuele
Orlando, recatasi a Versailles (1919) per negoziare le trattative di pace con
gli altri paesi vincitori della guerra, abbandonò i lavori prima della loro
conclusione ufficiale. Tale scelta suscitò una pioggia di polemiche
nell’opinione pubblica italiana, la quale ebbe così un altro pretesto per
screditare l’atteggiamento remissivo tenuto dallo stato liberale, mentre esso
si apprestava ad entrare in una fase di declino inarrestabile.
La questione di Fiume irredenta e dei
territori della Dalmazia non riconosciuti all’Italia dalle potenze vincitrici
durante i negoziati[19],
divenne così il cavallo di battaglia della propaganda nazionalista italiana
post-bellica, che trovò nuova linfa nei miti della Vittoria mutilata e del Fiumanesimo
dannunziano[20].
L’impresa di D’Annunzio e dei suoi legionari acuì la tensione interna in Italia
tra interventisti e oppositori, ma al contempo divaricò i consensi a Fiume,
dove la maggioranza della popolazione italiana che abitava la città riponeva la
propria fiducia nel movimento autonomista di Riccardo Zanella.
La campagna di Fiume scosse l’opinione
pubblica a livello internazionale, soprattutto a Parigi e a Londra, dove molto
operosi e ben organizzati erano i Comitati Nazionali Jugoslavi[21].
Essi stigmatizzarono l’impresa di D’Annunzio come un atto di imperialismo,
sostenendo l’annessione di Fiume al costituendo Regno dei Serbi, Croati e
Sloveni.
L’avventura di D’Annunzio si concluse con
il fatidico Natale di sangue[22],
a conclusione di una recidiva resistenza al governo Giolitti che gli aveva
ripetutamente intimato di desistere in virtù del trattato di Rapallo. L’accordo
italo-slavo, sottoscritto dalle parti il 12 novembre 1920, prevedeva
l’istituzione dello Stato libero di Fiume,
mentre all’Italia andavano Zara, le isole quarnerine di Cherso e Lussino e
l’isolotto di Làgosta. Dopo le cannonate del Regio esercito i legionari
abbandonarono Fiume, e anche l’avventura dannunziana volse al termine,
lasciando l’amaro in bocca al movimento che l’aveva intrapresa e sostenuta.
Una cosa è certa: se il progetto-utopia
di D’Annunzio fallì nel giro di sedici mesi (settembre ‘19 – dicembre ’20) non
bisogna sottovalutare l’elevato simbolismo che trapelava dal singolare eroismo
patriottico del poeta soldato. Egli aveva lanciato un forte monito all’Italia e
agli italiani sulle sorti di una città che si sentiva evidentemente italiana,
nonostante le decisioni prese a Versailles fossero contraddittorie ai principi
di Wilson. Il punto era che in base all’autodecisione dei popoli Fiume doveva
essere assegnata all’Italia, ma così non fu perché la città non faceva parte
della posta in gioco pattuita con l’accordo segreto di Londra. Lo stesso
accordo però assegnava la Dalmazia all’Italia, che non riuscì ad ottenerla in
virtù della teoria wilsoniana: oltre al danno (Fiume irredenta), la beffa (i
territori dalmati inglobati nel regno degli Slavi del sud). Risulta
comprensibile quindi un irrigidimento dell’irredentismo adriatico, che cercava
di difendere disperatamente l’italianità di città come Spalato, Sebenico, Traù
e Ragusa, clamorosamente fagocitate all’interno del nuovo stato slavo. Iniziò
così un processo di assimilazione che stritolerà i dalmati intorno all’ultimo
baluardo di italianità lungo la costa: Zara.
Di lì a poco però, sarebbe stato il
fascismo a raccogliere la causa irredentista, e mentre si assisteva
all’inesorabile collasso della classe liberale italiana, nell’area
giuliano-dalmata lievitavano le inimicizie tra i vari gruppi nazionali,
sospinti da una grande propaganda ideologica che propinava loro la bontà di un
atteggiamento denigratorio da assumere verso l’altro.
1.4 L’AREA GIULIANO DALMATA DURANTE L’EPOCA FASCISTA
Il periodo 1919-1940 è stato definito
intelligentemente da Galliano Fogar come “il laboratorio della catastrofe”[23],
in quanto se è vero che la crisi giuliano-dalmata era già iniziata sul finire
dell’epoca asburgica, assumendo le sembianze di uno scontro tra italianità
adriatica ed espansione confinaria slava volta alla legittimazione delle
proprie rivendicazioni nazionali, è certo che il regime fascista adottò nella
Venezia Giulia una politica repressiva e nazionalista.
A confermarlo, anzitutto, le parole con
cui Benito Mussolini si espresse a Trieste nel settembre del 1920 in occasione
di una sua visita al capoluogo giuliano: “Contro la razza slava non si deve
usare la politica dello zuccherino, bensì quella del bastone!”. Un biglietto da
visita irreprensibile, che rifletteva la caparbietà e l’alacrità con cui egli
intendeva difendere l’italianità nelle terre alto-adriatiche.
Fu proprio nell’area giuliano-dalmata[24]
che la politica fascista ebbe i suoi effetti più negativi. A cominciare dal
programma di italianizzazione della regione che prevedeva la modifica dei
toponimi e dei cognomi non espressamente italiani, la chiusura di scuole,
associazioni, circoli e organizzazioni culturali croate e slovene, la
soppressione delle iniziative editoriali in lingua slava, tutto secondo
copione. Il risultato fu fallimentare, in quanto tali misure repressive
generarono una “profonda lacerazione psicologico-morale all’interno del tessuto
sociale”[25]
giuliano-dalmata, che ne risentì subito: la popolazione di etnia slava infatti
cominciò a covare un odio viscerale non tanto verso il fascismo in sé, quanto
piuttosto verso tutto ciò che era italiano.
Si fece sentire poi l’esosa politica
fiscale nei confronti dei contadini e dei piccoli proprietari, dato che il
mondo rurale giuliano dell’entroterra era prevalentemente di etnia slava. Non
bisogna infatti dimenticare che nella Venezia Giulia la componente autoctona
italiana si era insediata soprattutto nei centri urbani della costa, viceversa,
più ci si addentrava e più andava via via diminuendo la sua presenza.
L’apparato statale fascista si comportò
spesso in modo intransigente e intollerante nei confronti delle minoranze slave
che furono bollate come “alloglotte” o “allogene”, in quanto facenti parte di
uno stato nazionale.
In realtà ciò che colpisce davvero fu che
“la vita quotidiana sotto il fascismo italiano, se si esclude l’oppressione
nazionalista (linguistica), non subiva un sovraccarico ideologico”[26]:
in sostanza, la politica anti-slava era certamente vessatoria, tuttavia non
esercitava una pressione invasiva nei rapporti sociali e nelle relazioni
private tra le diverse componenti nazionali; non aveva dunque una capacità di
penetrazione sociale così profonda nel quotidiano, dove alcuni spazi rimanevano
incontaminati dalla politica fascista.
C’è poi un’altra considerazione
interessante a tale proposito che merita di essere menzionata: nel ventennio la vita politica italiana
contrapponeva “fascisti” e “antifascisti”, ma tra la gente era molto più comune
imbattersi in “afascisti”, ovvero persone assolutamente non coinvolte né
compromesse con incarichi all’interno del PNF[27],
né tantomeno interessate al mondo della politica stessa. Il fatto che poi
fossero obbligate a custodire nel taccuino la tessera fascista costituiva
purtroppo il “marchio discriminante” che le rendeva automaticamente passibili
di un giudizio negativo da parte di chi, per colpa del regime fascista, stava
veramente subendo delle sopraffazioni di ordine sociale, culturale o
linguistico. Anche da queste situazioni si propagò dirompente un odio che era
allo stesso tempo di tipo nazionale e politico, in quanto per sloveni e croati
l’elemento italiano costituiva a priori l’icona fascista per antonomasia, il
nemico in carne ed ossa: tale equivoco come vedremo sarà letale per moltissimi
italiani durante e alla fine della II guerra mondiale.
In compenso quello che lo stato fascista
non riusciva o non voleva spingersi a fare veniva sistematicamente portato a
compimento dallo squadrismo delle
camice nere, in un clima costantemente intriso di azioni dimostrative
intimidatorie e violente con cui si portava all’esasperazione l’astio tra slavi
e italiani.
Sul finire degli anni ’20 il regime
fascista aveva ottenuto due risultati molto importanti: sul piano politico,
Mussolini era riuscito a estendere la sovranità del Regno anche sulla città di
Fiume, grazie al Trattato di Roma siglato nel 1924; sul piano della repressione
delle minoranze, la strategia fascista volta alla scompaginazione dell’elemento
socio-culturale slavo aveva fatto sì che alla fine del decennio le classi
croate e slovene fossero praticamente scomparse, con conseguente perdita del
posto di lavoro di molti insegnanti madrelingua.
La politica del regime aveva poi
estromesso dal loro ruolo impiegatizio intellettuali, piccola borghesia
imprenditoriale e quadri delle organizzazioni politiche slave che avevano
cessato di esistere dal 1927. L’effetto che si produsse fu quello di un aumento
della disoccupazione nelle file slovene e croate, tanto da produrre tra le due
guerre flussi migratori dalla Venezia Giulia verso i territori del Regno
jugoslavo e verso altre destinazioni, anche oltreoceano. Sulle cifre di tale
fenomeno è opportuno ragionare con cautela per le seguenti ragioni: molti slavi
della regione erano stati trapiantati artificialmente dalla Carniola per
volontà dell’impero austro-ungarico fino al 1914, quindi non erano giuliani
autoctoni; parte di questi flussi migratori erano avvenuti nella totale
clandestinità, perciò risulterebbe alquanto ardua una quantificazione precisa e
attendibile. Ciò nonostante è indubbio l’emigrazione non italiana dalla Venezia
Giulia tra le due guerre ha riguardato alcune decine di migliaia di persone,
soprattutto sloveni e croati, sospinti da un insieme di motivazioni
politico-economiche relazionabili alla politica esclusivista fascista. In
compenso il governo di Belgrado riuscì a impiegare il riflusso di emigrati
dall’Istria e dal litorale per nazionalizzare alcune zone comprese nei nuovi
confini del Regno jugoslavo, come accadde nel Prekmurje ungherese e nella
Stiria meridionale, abitata da comunità tedesche fino al crollo dell’Impero.
Tali interventi erano riconducibili al sovente ricorso a progetti di ingegneria etnica che si erano profilati
in Europa come strumento di aggregazione nazionale all’interno degli stati.
Quanto all’assetto demografico dell’area
giuliana preso in esame con il criterio dell’appartenenza nazionale, vale lo
stesso discorso; avventurarsi in calcoli congetturali non risulterebbe certo
utile in questa sede, anche se l’ipotesi avanzata da Carlo Schiffrer potrebbe
rivelare una certa plausibilità alla luce di quanto detto: pare che nel 1939
nella Venezia Giulia la compagine italiana ammontasse a circa 550.000
residenti, mentre quella slava raggiungeva le 400-430.000 unità[28],
in una sorta di ripartizione bilanciata che lasciava intuire tuttavia
un’apprezzabile scostamento del dato a favore dell’italianità. Comunque,
valutata la confutabilità dell’ipotesi di Schiffrer, si può annotare una
certezza inattaccabile: se i due gruppi nazionali erano entrambi molto diffusi
nella demografia giuliana, quello italiano era storicamente egemone e
maggioritario a Gorizia, Trieste e Fiume, nonché lungo tutta la parte
occidentale della penisola istriana, specialmente nella fascia costiera, dove rappresentava
anche la classe dirigente nei principali centri urbani come Capodistria,
Pirano, Isola, Umago, Cittanova, Parenzo, Rovigno, Pola, ecc.
Nel clima di tensione alimentato
soprattutto dalle violenze squadriste e dalla persecuzione di antifascisti,
repubblicani e personaggi politici del mondo slavo, purtroppo si deteriorarono
anche i rapporti umani tra italiani, croati e sloveni, in un’atmosfera
irreversibile di reciproca incomprensione.
Alla campagna massiccia di
snazionalizzazione e fascistizzazione imposta autorevolmente dallo stato
italiano nella Venezia Giulia seguirono tentativi di reazione da parte slava:
si costituì clandestinamente un fronte slavo antifascista che cercò di opporsi
al regime con i mezzi più disparati come scritte murali, volantinaggio di
propaganda, spionaggio politico e azioni terroristiche dimostrative. La rete
cospirativa slava si sviluppò oltre confine con la nascita dell’ORJUNA[29] e all’interno del territorio italiano con
l’organizzazione segreta TIGR[30].
Questa fu attivissima nell’area giuliana con “un’intensa campagna
propagandistica e intimidatoria, [...] l’incendio di asili, scuole e ricreatori
italiani, considerati simbolo della politica di snazionalizzazione in area
slava”[31].
Ciò che rendeva ancora più efficiente l’assetto organizzativo del TIGR erano i
contatti che aveva stretto con Giustizia
e Libertà, il movimento antifascista italiano in esilio a Parigi.
Le azioni “tigoriste” più esemplari
furono gli attentati al Faro della Vittoria a Trieste e alla sede del quotidiano
Il Popolo di Trieste, nonché gli
assalti alle scuole di Sgonico e Cattinara. Tali azioni irritarono non poco le
autorità fasciste, e propiziarono un intervento tenacemente repressivo
dell’OVRA[32] e del
Tribunale speciale per la sicurezza dello Stato, che comminò anche quattro pene
capitali.
Altra forza molto combattiva contro il
regime fascista fu la Zveza
jugoslovanskih emigrantov iz Julijske Krajine[33],
fondata nel ’31 dopo che il TIGR cessò le sue attività terroristiche. Questa
organizzazione sostenuta anche da Belgrado, su dedicò alla propaganda
antifascista jugoslava cercando di coinvolgere ampi settori dell’opinione
pubblica internazionale. Pubblicazioni di materiale informativo edito in inglese
e francese ebbero l’avveduto scopo di stimolare l’attenzione sulla questione
giuliano-dalmata in chiave filo-jugoslava, ovvero mettere in risalto
soprattutto i soprusi fascisti nell’area giuliana piuttosto che le ingiustizie
subite dagli italiani dalmati rimasti inglobati all’interno dei territori
divenuti jugoslavi alla fine della prima guerra mondiale.
Quando i rapporti diplomatici
italo-jugoslavi si ricomposero con l’accordo Ciano-Stojadinovic del ’37,
l’orbita del TIGR si spostò verso i servizi segreti francesi e britannici, in
grado di fornire una collaborazione più sensibile alla causa slava. Tale
collusione si rivelò utile alla ripresa delle attività terroristiche in Italia
e in Carinzia sul finire del decennio. La connivenza anglo-jugoslava a sfondo
sovversivo forse poteva essere interpretata, sul piano internazionale, come una
strategia deterrente sul sorgere del secondo conflitto mondiale. Il governo
italiano dal canto suo esercitò una forte pressione su quello jugoslavo
fintantoché nel ’40 quest’ultimo sciogliesse la Sveza, anche perché Belgrado
paventava una ripercussione dentro i propri confini della guerra che l’Italia
aveva già iniziato contro l’Inghilterra. Era chiaro che Belgrado non fosse
quasi più in grado di sostenere a livello internazionale un rapporto
trasparente e neutrale da ambo le parti, anche perché dentro le istituzioni
dilagava l’incertezza al cospetto dei delicati equilibri che lo stato stava
cercando disperatamente di salvaguardare con l’Italia e la Germania, già
predisposte in assetto bellico.
Intanto erano anche stati siglati degli
accordi che saranno determinanti nella fase finale della guerra nella Venezia
Giulia: nel 1934 i partiti comunisti italiano, jugoslavo e austriaco si
pronunciarono esplicitamente disposti a sostenere il diritto all’autodecisione dei popoli, mentre due anni più tardi il
PCI siglò un patto d’azione con il movimento nazionale rivoluzionario degli
sloveni e dei croati della Venezia Giulia, il cui contenuto era assolutamente
compromettente per le sorti della regione:
La federazione comunista
della Venezia Giulia e il partito comunista italiano lottano e lotteranno ogni
momento, per il riconoscimento e l’applicazione del diritto di autodecisione
delle popolazioni slave della Venezia Giulia, compreso quello della separazione
dallo stato italiano[34].
Come vedremo l’ambiguità interpretativa
di questa dichiarazione creerà non pochi dissidi tra le varie forze della
Resistenza giuliana, e a pagarne il prezzo sarà proprio l’integrità confinaria
della regione.
A buttare benzina sul fuoco ci pensò poi
l’aggressione congiunta del regno jugoslavo da parte della Germania di Hitler e
dell’Italia, coadiuvate da Bulgaria e Ungheria nell’aprile del ’41. Questa
decisione era scaturita dopo che il colpo di stato del 27 marzo 1941[35]
aveva fatto abdicare il sovrano jugoslavo Paolo a favore di Re Pietro II, con
l’appoggio di Churchill e Stalin al nuovo governo appena insediato. Il movente
era fin troppo scontato: due giorni prima lo stato jugoslavo, in un clima di
fervore diplomatico insostenibile, aveva forzatamente firmato a Vienna il Patto
Tripartito che l’avrebbe legato militarmente a Germania, Giappone e Italia,
sospinto anche dal fatto che Ungheria, Romania e Bulgaria, tutti paesi
limitrofi, vi avevano già aderito.
Nell’aprile ’41 il territorio jugoslavo
fu smembrato e la Croazia ustascia[36]
di Ante Pavelic si dichiarò indipendente. La Germania riannesse all’Austria
le ex province asburgiche della Stiria e della Carinzia, instaurò un rigido
regime militare in Serbia e assunse il controllo del Banato orientale.
L’Ungheria si rimpossessò della Voivodina, a maggioranza magiara, già
appartenuta alla corona ungherese fino al 1918. La Bulgaria incorporò quasi
tutta la Macedonia e alcune porzioni di territori serbi.
Quanto all’Italia, l’errore madornale fu
sicuramente quello di occupare la porzione meridionale del territorio sloveno,
comprendente la città di Lubiana, e di eleggerlo a provincia del Regno. Anche
Fiume si vide ingrandita, con l’annessione dei distretti di Castua e Sussak e delle
isole Arbe e Veglia. Il Montenegro divenne Stato indipendente sotto il
protettorato italiano.
Un discorso a parte deve essere fatto per
l’area dalmata con la sua costa e le sue isole. Questa regione adriatica, come
abbiamo visto, era appartenuta per secoli alla Repubblica di Venezia, che
l’aveva arricchita e sviluppata sulla scia degli antichissimi insediamenti
romani, emblema di una tradizione latina plurimillenaria e mai interrotta.
Successivamente la Dalmazia aveva conosciuto l’esperienza dell’Impero asburgico
che nella sua fase di declino aveva minato l’italianità della regione con una
politica sentitamente filo-croata, fatta di oppressioni, ostruzionismo,
discriminazioni e manovre volte a un graduale sconvolgimento degli equilibri
pre-esistenti. Fu per questo che la popolazione dalmata di sentimenti italiani
gridò alla congiura austro-slava, ravvisando che la propria identità nazionale
era gravemente compromessa sotto l’Impero. A quel punto gli esiti della I
guerra mondiale illusero i dalmati che la loro agonia sarebbe presto terminata,
quando invece le decisioni prese a Versailles (28 VI 1919),
Saint-Germain-en-Laye (10 IX 1919), e Rapallo (12 XI 1920), li condannarono
all’ingiusto status di minoranza nazionale (e quindi al ruolo di “cavie”)
all’interno del Regno degli Slavi del sud, entità statuale sorta ipso facto unendo l’ex Regno di Serbia
agli ex territori dell’Impero austro-ungarico. Per difendere quell’italianità
dalmata, così autentica e così autoctona, la risposta fu appunto l’irredentismo
adriatico; questo movimento, ricordiamolo, sorse come espressione della
contrarietà con cui gli italiani della Dalmazia venivano progressivamente
fagocitati e risucchiati dai nuovi venuti, nonché come la manifesta volontà di
rivendicare la propria cultura, la propria lingua, le proprie tradizioni, e le
proprie origini, in una parola, la propria storia.
Ritornando indietro dopo questo
necessario inciso storico, aggiungeremo che la costituzione del Governatorato
della Dalmazia[37] e del distretto
delle Bocche di Cattaro poi elevato a provincia, furono sentite come un ritorno
in patria dagli italiani dell’altra sponda adriatica, come l’ultimo atto che
portava a compimento l’auspicato disegno di redenzione nel segno dell’eredità
di Venezia.
Detto questo, è indiscutibile condannare
l’aggressione a Lubiana e ai territori del suo circondario, dove non si poneva
neppure il problema nazionale, visto che gli abitanti di quella zona erano
compattamente di lingua e cultura slovena. L’Italia pagherà un dazio
salatissimo per quella irresponsabile avventura militare. C’è poi un fatto che
ha del paradossale: le autorità italiane insediatesi nella nuova provincia del
Regno, consce delle difficoltà di gestione di un territorio così diverso sotto
il profilo etnico-linguistico, intentarono di applicarvi un’amministrazione
meno ferrea di quella in vigore nell’area slovena occupata dai nazisti, con il
preciso scopo di non apparire troppo invisi agli occhi della popolazione
locale. Ma questo atteggiamento, unito all’errore di principio di occupare un
territorio completamente estraneo alla questione giuliano-dalmata, contribuì in
maniera determinante a ridestare negli slavi della Venezia Giulia
quell’identità nazionale che il fascismo aveva a lungo inibito. Il fatto di non
aver intaccato le istituzioni locali e le scuole in lingua slovena nel
circondario di Lubiana quindi, scatenò le proteste di sloveni e croati che dopo
il ’27 si sentirono emarginati e discriminati dalla politica fascista nell’area
giuliana.
Il 17 aprile 1941 Belgrado firmò la resa
incondizionata e Re Pietro II fuggì in esilio con il suo governo a Londra, dopo
che gli Stuka[38]
tedeschi avevano compiuto numerose incursioni sulla città, quasi fosse una
vendetta personale che Hitler aveva serbato all’alleato-lampo, reo di aver
disertato gli impegni assunti formalmente col Patto Tripartito quarantotto ore
prima del colpo di stato.
Intanto a Lubiana, già alla fine di
aprile si costituì l’Osvobodilna Fronta
(O.F.), il primo nucleo di resistenza anti-italiana che accoglieva comunisti
sloveni e italiani, ma anche agguerriti nazionalisti, bramosi di riscattare il
torto subito dallo stato italiano. Ma la causa resistenziale slava si riversò
ben presto anche all’interno dei confini del Regno d’Italia, e più precisamente
nell’area giuliana orientale. Qui tra la fine del ’41 e l’inizio del ’42
tornarono a farsi sentire il TIGR e l’Orjuna, coadiuvate dai servizi segreti
jugoslavi e inglesi.
La proliferazione delle cellule di
resistenza slave sul territorio e il susseguirsi di attentati, imboscate, e
atti terroristici a scopo dimostrativo-propagandistico innescò l’inasprimento
della macchina repressiva fascista. Nel dicembre del ’41 a Trieste si tenne il
cosiddetto “processo Tomazic”[39]
per conto del Tribunale speciale per la sicurezza dello stato. Furono
processate una sessantina di persone appartenenti alla rete cospirativa
insurrezionale slava, cinque delle quali condannate a morte. Questo evento
straordinario rappresentò la risposta esemplare al terrorismo sovversivo da
parte della contro-propaganda fascista, che cercava così di scoraggiare la
lotta armata clandestina nella Venezia Giulia e nei territori annessi.
Nello stesso periodo però, intervenne
un’altro fattore di primaria importanza che alterò irrimediabilmente la
situazione: l’attacco delle truppe tedesche all’URSS (giugno-dicembre ’41)
compromise anche i delicatissimi equilibri nella Jugoslavia occupata, in cui la
nascita del germe partigiano non tardò a concretizzarsi:
[...] L’attacco tedesco
all’Unione Sovietica e la conseguente discesa in campo sul territorio jugoslavo
di un fronte di liberazione a guida comunista avviarono rapidamente la spirale
di azioni partigiane e operazioni antiguerriglia, che avrebbe trasformato i
territori occupati della ex Jugoslavia in un nuovo fronte di guerra.[40]
Tra la fine del ’41 e l’inizio del ’42
prese corpo anche la propaganda comunista croata in Istria. Gli agenti del PCC[41]
infiltrati da oltre confine rivolsero la loro azione soprattutto verso gli
istriani di etnia slava, per istigarli facendo leva sul piano
politico-nazionale. Questo esercizio sarebbe stato propedeutico alla successiva
diffusione delle tesi annessionistiche e rivoluzionarie proprie del Movimento
Popolare di Liberazione (MPL) di Tito. Gli emissari del PCC espletarono azioni
di proselitismo ideologico, reclutamento, addestramento e indottrinamento
politico delle nuove leve che avrebbero poi infoltito la compagine istriana del
movimento. La propaganda politica in Istria ebbe la responsabilità di
radicalizzare lo scontro nazionale strumentalizzandolo sul piano ideologico. La
tattica prescelta doveva quindi portare all’esasperazione i già tesi rapporti
tra la componente italiana e quella slava, facendo coincidere la diversità
etnica con quella politica secondo uno schema antitetico: italiano uguale a fascista,
ergo nemico del popolo, e slavo
uguale a comunista, perciò rappresentativo del popolo. L’obiettivo finale in
sostanza era quello di dividere la popolazione civile per poter denigrare e
perseguitare l’elemento italiano, fascista o presunto tale. Quanto alla
strategia utilizzata dagli agitatori croati, essa si articolava su due livelli:
il primo contemplava la formazione di nuovi quadri dirigenti del partito in
Istria a cui affidare la propagazione del movimento nell’area giuliana; il
secondo consisteva nell’indirizzarli verso la lotta armata antifascista di
matrice rivoluzionaria.
E’ piuttosto rilevante appuntare che la
resistenza jugoslava non conobbe le sue prime manifestazioni in seno al
movimento partigiano di ispirazione rivoluzionaria del maresciallo Tito, bensì
nacque sotto il segno dei patrioti serbi, i cetnici,
che imbracciarono le armi per opporsi alla durissima occupazione germanica.
Questi combattenti erano inquadrati nell’Armata Nazionale jugoslava, presieduta
dal generale Mihajlovic. Costituivano pertanto le truppe regolari dell’esercito
jugoslavo, filo-monarchico e con uno spiccato accento conservatore. Tuttavia
l’inconciliabilità tra il movimento di Tito e quello di Mihajlovic interpose
una spietata rivalità tra le due formazioni, che sfociò nello scontro armato
interno.
La repressione della guerriglia
anti-italiana nei territori annessi causò la morte di diversi partigiani slavi
e l’internamento di molti civili nei campi di raccolta come quelli di Gonars e
Arbe. Tali strutture erano preposte alla detenzione forzata degli sfollati e
dei prigionieri, ma non assunsero mai i connotati dei campi di sterminio
nazisti. Inoltre, nel circondario di Lubiana, operava anche la Milizia
Volontaria Anti Comunista (MVAC), nelle cui fila militava un cospicuo numero di
collaborazionisti sloveni, ostili alla causa rivoluzionaria di Tito e
incorporati nell’XI Corpo d’Armata italiano.
Nella primavera del ’42 le truppe
italiane e tedesche, avvalendosi dell’appoggio degli ustascia di Pavelic,
sferzarono un’imponente offensiva per disinfestare le zone d’occupazione dalle
sacche di resistenza partigiane, e da luglio a novembre lo stesso fece l’XI
Corpo d’Armata italiano nella sua area di pertinenza slovena. Furono diverse le
formazioni anti-comuniste slave che assunsero un atteggiamento non marcatamente
belligerante nei confronti delle truppe d’occupazione italiane: i belagardisti sloveni (guardie “bianche”,
ossia di ispirazione cattolico-moderata); i domobrani
(coscritti sloveni e croati); i cetnici
(soprattutto i serbi ortodossi della Bosnia Erzegovina e del Montenegro) che si
arruolarono nella MVAC.
Sul finire del 1942, i contingenti
italiani coadiuvati dai propri alleati avevano sostanzialmente ripulito il
territorio dagli schieramenti partigiani e dalle azioni di guerriglia che
avevano dato non poco fastidio nelle zone di occupazione, soprattutto nei
pressi di Lubiana, nell’entroterra fiumano, nell’interno della Dalmazia e nel
Montenegro. Tuttavia, grazie anche agli aiuti forniti da Churchill al movimento
di Tito, l’attività partigiana temporaneamente sospesa riprese con l’inizio del
nuovo anno, intensificandosi apprezzabilmente nel periodo primaverile.
L’assetto geo-politico e militare dell’area balcanica e della Venezia Giulia
era tuttaltro che rassicurante. L’odio etnico scorreva sempre più veloce sui
binari della propaganda politica, mentre l’occupazione jugoslava dell’Asse
appariva come una mina vagante pronta a deflagrare da un momento all’altro. I
risentimenti contro l’elemento occupatore italiano avevano raggiunto quasi il
loro apice di ripulsa e di diniego anche nelle fila dei più incerti, grazie ad
una linea politica martellante e dirompente dell’MPL. Un incontaminato focolaio
di violenze e scontri ideologici stava infervorando l’area giuliano-dalmata:
era questa la fotografia scattata nei primi mesi del 1943, questa la pagina
scritta dal fascismo italiano. Quel fascismo
di confine che nella Venezia Giulia ormai non riusciva più ad arginare
efficacemente la spinta insurrezionale slava, sempre più galvanizzata ad
avviare una rivoluzione politico-sociale in grado di sovvertire gli equilibri
nazionali delle terre alto-adriatiche.
2. LA FASE
CALDA: CADUTA DEL FASCISMO E FINE DELLA GUERRA
2.1 IL PROLOGO DELLA TRAGEDIA
L’anno 1943 segna ineccepibilmente il
crollo dello stato italiano fascista sotto ogni punto di vista: istituzionale,
politico, militare, territoriale. Una fine che avrà le sue ripercussioni più
drammatiche proprio nell’area giuliano-dalmata, che dovrà subire un ritorno di
fiamma spaventoso nel suo destino.
Con due sordi rintocchi di campana,
rispettivamente il 25 luglio (crollo del fascismo) e l’8 settembre (annuncio
armistizio), le sorti della popolazione italiana residente nella Venezia Giulia
e nella Dalmazia furono gravemente compromesse: essa infatti, assistette
impotente al collasso delle amministrazioni e delle istituzioni locali
italiane, che fino a quel momento davano ragion d’essere alla sovranità del
Regno d’Italia su questi territori. Quello che accadde fu sconfortante: lo
stato italiano nell’area giuliano-dalmata non aveva più né autorità né
identità, i suoi punti di riferimento civili, politici, e soprattutto militari
si dissolsero, la sua sovranità territoriale scomparve in ogni parvenza
generando un vuoto di potere inimmaginabile. La guerra contro gli Alleati era
terminata con una sconfitta umiliante: le avventure belliche dei contingenti
italiani in Africa e in Russia restituirono soltanto dolore e sgomento
all’opinione pubblica nazionale, che tracciava l’itinerario della catastrofe
lungo l’asse El Alamein-Nikolajevka passando per la Grecia. Le oltre 500.000
vittime tra caduti, feriti, deportati e dispersi apparivano al popolo italiano
un prezzo già abbastanza salato per giustificare la perdita della guerra e del
senso dell’orientamento del Paese. E invece no, perchè stavano per iniziare
altre guerre con altri nemici: gli ex camerati nazisti occupavano voracemente
l’Italia centro-settentrionale e Roma, mentre contemporaneamente sul versante
giuliano-dalmata si concretizzava quello che gli istriani ancora oggi chiamano el ribaltòn[42],
ovvero l’erompere delle bande partigiane di Tito in Istria, grazie anche al
determinante disfacimento dei presidi militari italiani dislocati in tutta l’area
alto-adriatica e balcanica.
Il calvario di queste terre inizia a
Pisino, nell’entroterra istriano, dove il 13 settembre i vertici del CPL[43]
circondariale proclamarono unilateralmente l’annessione dell’intera regione
alla “Madrepatria Croazia”; tre giorni più tardi, anche il Fronte Nazionale
della Slovenia (che a differenza della Croazia di Pavelic non si era mai
costituita in un’entità statuale indipendente) emise un proclama identico per
ciò che riguardava il Litorale, in un’atmosfera surreale derivante dallo
scompaginamento dello stato italiano. Ciò consentì ai nuovi venuti di operare
quasi indisturbati secondo le direttive impartite dai vertici del MPL di Tito.
Furono giorni di grande confusione, aggravati dal fatto che in aprile alcuni
esponenti del PCI istriano avevano allacciato dei contatti con gli emissari del
Partito Comunista Jugoslavo, secondo una linea che riproduceva similmente gli
accordi del ’34 e del ’36[44].
Anche i comunisti istriani infatti
volevano battersi per la condivisa lotta antifascista, per il diritto
all’autodeterminazione dei popoli, per l’internazionalismo e per il
sovvertimento dell’ordine politico-sociale preesistente; ma la pregiudiziale di
partenza era comunque netta: all’origine, il comunismo italiano in Istria era
comunismo puro, in quanto non contemplava nessuna rivendicazione territoriale o
espansionistica; il comunismo slavo, nelle sue articolazioni di PCC e KPS[45],
nasceva invece da esigenze e obiettivi molto diversi, che annoveravano sia la
causa rivoluzionaria di matrice filo-sovietica sia un preciso piano di
espansione confinaria nella Venezia Giulia. Insomma, quello di Tito era un
movimento che riusciva ad accontentare persino i narodnjaci, corrente sciovinista nelle cui fila militavano dei
fanatici sostenitori del nazionalismo croato mescolato ad alcune sfumature di
clericalismo. Non si trattava dunque di comunismo, bensì di nazional-comunismo di stampo etnicista,
e persino Stalin nel ’48 si pronuncerà a questo riguardo, come vedremo.
Ritornando al settembre del ’43, va detto
che in Istria la popolazione civile si ritrovò improvvisamente indifesa di
fronte all’arrivo delle bande partigiane comuniste, nonostante al momento della
proclamazione dell’armistizio si trovassero nella regione consistenti reparti
del Regio esercito, ben armati ed equipaggiati.
Ci fu in effetti una corresponsabilità
interna, in questa prima pagina di sciagure istriane; nel momento in cui
sarebbe stata provvidenziale un’azione di tutela verso il territorio della regione
e la cittadinanza che abitava i vari centri urbani, molti comandi italiani
preferirono arrendersi e consegnare le armi ai partigiani slavi, altri
addirittura scapparono o peggio ancora decisero di sposare la causa del MPL.
Non mancarono tuttavia singolari atti di eroismo, prova a dimostrazione che
prendere una decisione razionale in quel momento fosse molto difficile, anche
perchè difficile era comprendere quale fosse il futuro di uno stato che si era
completamente disintegrato. Mancò la volontà da parte dei comandanti dei vari
presidi, di organizzare un piano di opposizione immediata all’occupazione
titina della regione istriana, ma prima di tutto venne a mancare un efficiente
centro di coordinamento italiano per le operazioni militari nell’area giuliano-dalmata
dopo l’armistizio. Quello di Badoglio era poco più che un governo fantoccio,
incapace di gestire una situazione così aggravata e reo di non aver saputo
fornire ai comandi delle Armate italiane stanziate nella Venezia Giulia e nei
Balcani ordini chiari e adeguati.
2.2 LE UCCISIONI DEL 1943
Nell’autunno ’43 in Istria si scatenò la
prima ondata di violenza, che si concluse con la morte di 500-700 persone,
trucidate con un’efferatezza incredibile dai partigiani “liberatori” di Tito.
Secondo le direttive dei vertici comunisti jugoslavi, si doveva ripulire tutta
l’Istria dai nemici del popolo, da
chi avrebbe potuto rappresentare un ostacolo all’instaurazione dei nuovi poteri
popolari, e ovviamente dai fascisti che avevano turbato fin troppo l’esistenza
delle genti slave nella Venezia Giulia prima e durante la guerra. Tutto ciò
accadde tra settembre e ottobre ’43, in un breve periodo che potremmo definire
di ordinaria follia, durato circa un mese, in cui prevalse sicuramente l’odio
etnico infarcito di ideologia. Ma chi erano questi pericolosi nemici del
popolo? Di quali feroci crimini si erano macchiate queste centinaia di persone,
per subire una tale spirale di violenza? Su questo punto ha investigato molto
bene Guido Rumici, che con ammirabile precisione ha saputo ricostruire
l’identità politica, sociale ed economica delle vittime di questa strage:
[...] Vennero colpiti
tutti coloro che rappresentavano in qualche misura lo Stato Italiano quali i
podestà, segretari e messi comunali, maestri elementari e professori, bidelli,
impiegati delle poste e delle ferrovie, dipendenti dei comuni e delle altre
pubbliche amministrazioni, medici condotti e guardie forestali e giurate.
Elevato fu il numero degli arrestati tra i militari, graduati e di truppa,
delle Forze Armate, soprattutto tra i Carabinieri e le Guardie di Finanza, che
avevano manifestato scarsa simpatia per il Movimento partigiano o che avevano
rifiutato di collaborare alla consegna delle armi.
Ci furono, tra i civili,
pure operai, pescatori, agricoltori, artigiani, sorveglianti, falegnami e, più
spesso, possidenti terrieri, commercianti, professionisti, impiegati e quadri
dirigenti, generalmente della media ed alta borghesia cittadina. Non mancarono
infine [...] le donne[46].
Decisamente esaustivo l’elenco dei
perseguitati fornito dall’autore; utile per comprendere che non si trattò di
una retata politica, volta ad eseguire un regolamento di conti, in questo caso
soltanto contro i fascisti che si erano precedentemente compromessi con il
regime. Dovremmo piuttosto riconoscere che l’epurazione messa in opera dai
partigiani comunisti jugoslavi fu condotta ad ampio raggio, senza distinguere i
nemici reali da quelli fantasiosi, nella fattispecie categorie di persone che
non erano coinvolte politicamente, ma che automaticamente lo diventavano agli
occhi dei partigiani. Questi apparivano accecati da un odio miscellaneo, frutto
di una commistione tra nazionalismo slavo, revanscismo, e sentimenti italofobi.
Che poi l’obiettivo fosse innanzitutto politico è altra cosa: i preparativi per
la sovversione del sistema politico-economico erano già in corso da almeno due
anni nella regione, e miravano sostanzialmente all’instaurazione di un ordine
rivoluzionario a guida comunista. Giocoforza che ad essere colpita fosse quella
parte di società storicamente egemone nella regione, e vale a dire quel ceto
medio-piccolo borghese, emblema dell’italianità adriatica in Istria.
Le persone che furono prelevate dai
partigiani di Tito furono condotte in diversi centri di raccolta per i
prigionieri: Pisino, Pinguente, Barbana, Arsia e Albona si trasformarono in
pochi giorni in improvvisati centri di detenzione, dove ebbe inizio il martirio
di molti innocenti, arrestati con accuse fraudolente che erano poco meno di
irragionevoli pretesti. In queste strutture, prive delle minime condizioni
igieniche e sanitarie si susseguirono interrogatori e processi nella più totale
illegalità procedurale, spesso accompagnati da torture e sevizie con cui gli
aguzzini davano sfogo alla loro più sadica creatività. Furono prese di mira
anche le donne, che subirono spesso riprovevoli violenze dai secondini delle
carceri. Gli accusatori erano perlopiù commissari politici, ufficiali e
militanti nelle fila del MPL, coadiuvati da una cospicua schiera di delatori
che talvolta si vendicavano dei malcapitati per torti personali che esulavano
clamorosamente dal contesto di riferimento. Così sedicenti corti d’appello
emisero sentenze espiatorie che nella maggior parte dei casi coincidevano con la
pena capitale. Furono addirittura eseguite in molte località dell’Istria
condanne a morte mai emesse da alcun tribunale, a dimostrazione della loro
totale infondatezza.
In un contesto del genere, dominato
dall’affermarsi di un giustizialismo sommario a sfondo etnico-politico, “è
comunque possibile distinguere alcune logiche di violenza ben precise, che si
rivelano collegate [...] a una forte volontà politica di determinare il futuro
dell’area giuliana”[47].
Il nodo interpretativo più dolente è
rappresentato dalle modalità di uccisione che furono utilizzate dalle bande
partigiane di Tito per eliminare i malcapitati. Soventemente si definiscono infoibati tutti gli uccisi per mano dei
partigiani comunisti croati e sloveni nelle stragi del ’43 e del ‘45, ma a tale
riguardo è opportuno inserire almeno due delucidazioni: prima di tutto tale
espressione funge da paradigma della
violenza jugoslava perpetrata ai danni degli italiani, soprattutto nella
memoria collettiva e nell’opinione pubblica giuliana, poiché soltanto una parte
degli uccisi trovò la morte nelle foibe[48].
Molte altre persone furono deportate e scomparvero, altre ancora giustiziate,
lapidate o trucidate violentemente. “I loro corpi vennero sepolti nelle fosse
comuni, nelle cave e nei pozzi artesiani e minerari. Altre furono gettate in
mare e vennero ritrovate solo in pochi casi”[49].
Da ciò si evince chiaramente che le foibe costituivano sì una modalità di
esecuzione delle uccisioni, ma accanto a questa pratica ve ne erano altre, e
certamente non meno cruente. Ecco perchè il termine infoibati può risultare in ultima analisi omologante, il cui
significato è più allusivo che connotativo. Più corretto sarebbe allora parlare
di stragi o di eccidi per riferirsi alle ondate di violenze titine verificatesi
durante quella fase della crisi giuliano-dalmata. In secondo luogo, può
sembrare riduttivo parlare di questo fenomeno riferendosi solamente all’autunno
del ’43 e alla primavera del ’45, dal momento che la scia di violenze innescata
dall’occupazione jugoslava si è protratta nel lungo dopoguerra giuliano,
culminando in un esodo di massa che terminò soltanto nella seconda metà degli
anni Cinquanta. Non vanno poi dimenticati i numerosi campi di concentramento
dislocati nell’interno dell’ex Jugoslavia[50],
dove furono deportate migliaia di persone tra cui militari e perseguitati
politici, in gran parte italiani: in molti morirono a causa dei maltrattamenti
e delle violenze subite dai carcerieri jugoslavi, altri perirono di inedia,
altri ancora per aver contratto malattie o epidemie. Alcuni fortunatamente
poterono tornare a casa dopo lunghi periodi di detenzione forzata, ma un numero
consistente di persone andò a infoltire il lungo elenco degli scomparsi, ovvero
coloro di cui non si seppe più nulla.
Trattando poi il caso specifico delle foibe istriane dell’autunno del ’43,
bisogna rilevare che si trattò di vere e proprie stragi in cui persero la vita
soprattutto innocenti. Il fatto che poi fossero state giustiziate in poche
settimane centinaia e centinaia di persone in maniera così brutale la dice
lunga sull’attendibilità degli organi preposti al giudizio e alla condanna dei
prigionieri. Quanto all’esecuzione dei massacri, pur non essendo questa la sede
più idonea per la trattazione dell’argomento, si ritiene opportuno fornire alcune
coordinate essenziali che possano tracciare in modo irreprensibile il compendio delle violenze di quelle
settimane istriane. Dopo le sentenze di condanna a morte espresse dai
“tribunali del popolo”, le vittime (lo erano già dopo le torture e i pestaggi
che subivano nelle carceri) venivano legate con del filo di ferri ai polsi,
stretto a tal punto da incarnarsi sulla pelle del malcapitato. Quasi sempre nel
cuore della notte, per evitare l’eventuale indiscrezione di scomodi testimoni
oculari, la massa umana veniva condotta sul luogo della mattanza, nella
fattispecie cave di bauxite, pozzi scavati nelle miniere, grotte marine, e
immancabilmente nelle voragini rocciose tristemente note come foibe; il
tragitto era effettuato con delle corriere, “le corriere della morte” appunto,
oppure a piedi, sotto strettissima sorveglianza armata dei drusi[51];
durante gli spostamenti i condannati venivano nuovamente insultati, picchiati e
umiliati, in un continuo stillicidio di violenza fisica e psicologica che
riduceva le vittime allo sfinimento. Se qualcuno cadeva, veniva subito persuaso
a rialzarsi con il calcio del fucile dal druse più vicino, tra bestemmie e urla
furibonde. Alle donne era riservato lo stesso trattamento, anzi forse peggiore,
giacché diversi partigiani titini si divertivano a passare il loro tempo libero
violentandole e infliggendo su di esse le torture più indicibili
nell’anticamera della morte[52].
Una volta arrivati a destinazione, i prigionieri venivano depredati anche degli
ultimi indumenti che indossavano e sospinti sull’orlo della voragine nudi,
prima di essere fucilati. L’ingegno dei carnefici arrivava ai limiti
dell’assurdo: talvolta solevano legare i condannati due a due con il filo di
ferro, per poi sparare un unico colpo su uno dei due sventurati, il quale
trascinava l’altro ancora vivo nel vuoto. A lavoro ultimato si procedeva
all’occultamento dei cadaveri facendo esplodere delle granate sulle pareti dei
precipizi, in modo tale da causare piccole frane e cedimenti che avrebbero
ricoperto in modo rudimentale l’accozzaglia umana in fondo al dirupo.
Sono numerose le foibe istriane
disseminate nella regione, ma tra quelle più importanti ricordiamo quelle di
Cregli, Vines, Barbana, Arsia, Gimino, Antignana, Gallignana e S. Domenico di
Visinada, proprio perchè da queste voragini furono riesumate parecchie salme di
uccisi, per alcune delle quali è stata resa possibile anche l’identificazione[53].
Infine, non va trascurato che nello
stesso periodo che precedette la venuta dei tedeschi non mancarono episodi simili
neanche nelle altre zone istro-quarnerine e dalmate: “massacri di varia entità
[...] avvennero a Traù, Cùrzola, Lèsina, Eso, Lissa, Castelvecchio, Castel
Vitturi, Zirona, Castelnuovo, Veglia ed Arbe”[54].
A Cherso i partigiani razziarono le abitazioni dei residenti, prelevarono una
dozzina di persone e ne fucilarono
quattro, tutti italiani; non ancora sazi, mobilitarono i giovani dell’isola per
arruolarli nell’Esercito Popolare di Liberazione jugoslavo (EPLJ). A Lussino
gli uomini di Tito sterminarono un’intera guarnigione di cetnici serbi che
stava transitando nell’isola, e con loro anche donne e bambini. Anche qui non
mancarono le retate e le devastazioni ai danni della popolazione locale,
seguite dalle coscrizioni obbligatorie di uomini e ragazzi nelle fila
dell’EPLJ. Particolarmente gravi furono i fatti di Spalato, dove in solo due
settimane furono compiuti arresti a tappeto tra la popolazione italiana
residente nella città dalmata. I partigiani slavi fucilarono più di cento
persone i cui cadaveri furono occultati in fosse comuni all’interno del
cimitero cittadino. Paradossalmente, soltanto con la venuta dei tedeschi, si
poté metter fine a questi sciagurati eccidi, che falciarono anche molti slavi
del posto accusati di collaborazionismo.
Questa era la situazione nell’area
giuliano-dalmata nella fase che seguì all’8 settembre 1943, queste le
conseguenze disastrose di una lotta politica per il potere suggestionata dal
parossismo nazionalista e rivoluzionario dei nuovi venuti, questa l’immagine
sconcertante delle terre alto-adriatiche prima dell’arrivo delle truppe
tedesche, che, come vedremo, non saranno in grado di stanare fino in fondo le
sacche della resistenza titina e innescheranno un’ulteriore recrudescenza negli
scontri di ordine etnico-politico.
2.3 LA PARENTESI NAZISTA
L’8 settembre cambiò radicalmente gli
equilibri dei fronti e gli assetti bellici dell’area giuliano-dalmata. Mentre
le bande partigiane comuniste di Tito si affrettavano ad approfittare del vuoto
di potere generato dalla dissoluzione dell’apparato statale italiano, Berlino
cominciava a pianificare una colossale operazione che sarebbe iniziata tra il
25 e il 27 settembre 1943: l’operazione “Wolkenbruch”, che significa
“nubifragio”. L’obiettivo era quello di ripulire le zone della Venezia Giulia e
della Dalmazia che erano cadute nelle mani dei partigiani slavi, e per farlo i
tedeschi impiegarono un consistente sistema militare comprendente le divisioni
corazzate SS “Prinz Eugen” e “Adolf Hitler”. Nel frattempo Mussolini, dopo
essere stato liberato dai tedeschi sul Gran Sasso, aveva composto il suo nuovo
governo fascista repubblicano alla guida della Repubblica Sociale Italiana
(RSI).
Le truppe germaniche riuscirono a
scompaginare agevolmente l’Esercito Popolare di Liberazione di Tito, che in
Istria poteva disporre di circa diecimila partigiani, nettamente inferiori
all’efficientissima macchina da guerra tedesca, che dispiegò nell’area
giuliano-dalmata una forza compatta di trentacinquemila soldati molto più
esperti e meglio equipaggiati. L’operazione si concluse nel giro di tre
settimane circa, e nell’area giuliana fu creata l’Adriatisches Kustenland, ovvero la “Zona d’Operazioni Litorale
Adriatico” (O.Z.A.K. l’acronimo tedesco). Tale territorio, la cui costituzione
venne ufficializzata il 15 ottobre 1943, comprendeva le province italiane di
Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana. In tale vasta area la sovranità
della RSI fu sospesa, mentre si insediò la massima autorità civile con la
nomina del supremo commissario Reiner. Era infatti implicito che i tedeschi
avrebbero voluto estendere su tutta questa zona la sovranità del Reich
germanico, considerata la sua importanza strategica e geo-politica nel contesto
europeo.
In Istria i tedeschi penetrarono
agevolmente, effettuando anche pesanti bombardamenti aerei e terrestri che
causarono ingenti perdite tra i partigiani di Tito. Neanche i civili furono
risparmiati, spesso vittime innocenti delle spietate rappresaglie naziste, che
avevano lo scopo di vendicare le imboscate e gli agguati tesi alle colonne
tedesche da parte dei ribelli prima della loro effettiva ritirata. Le milizie
partigiane sconfitte si ritirarono dalla regione sciogliendo i nuclei operativi
e trovando rifugio nelle zone montuose lontane dal teatro delle operazioni
germaniche. Nell’ottobre ’43 quindi, si scatenò una poderosa azione di
rastrellamento del territorio giuliano a cui seguì una feroce repressione che
mieté numerose vittime all’interno della popolazione istriana, sia italiana che
slava. Paradossalmente però, l’arrivo dei tedeschi nell’area giuliano-dalmata
significò per molte persone la fine di un’agonia, nonché il ripristino di una
soglia minima di legalità e di ordine sociale. Le barbarie titine che avevano
scosso la regione dopo l’armistizio italiano restituirono alle genti che
abitavano quelle terre morte e sofferenze inimmaginabili; molte persone
innocenti erano state prelevate dai partigiani e fatte sparire con cinica
disinvoltura dopo i processi farsa improvvisati nelle carceri. Molti si
chiedevano come potesse essere stata così devastante e cruenta quella che i
nuovi venuti chiamavano “volontà del popolo”; quale popolo misterioso l’avesse
progettata e realizzata con una tale meschinità e disumana perversione. Furono
soprattutto lo strazio e l’immagine di mostruosità che i titini lasciarono tra
popolazione civile a far credere alla gente che i tedeschi, in fondo
rappresentassero il male minore, talvolta addirittura i liberatori, come
accadde in Dalmazia, a Cherso e a Lussino, dove la furia partigiana si era
abbattuta con un impeto inaudito sugli abitanti di queste zone.
Durante l’occupazione tedesca dell’area
giuliano-dalmata un grande apporto fu dato all’industria locale. A parte la
classe operaia però, tutto il resto della popolazione fu soggetta al
reclutamento coatto per svolgere il servizio obbligatorio del lavoro, cosicché
fosse possibile boicottare tenacemente l’arruolamento delle masse nelle fila
dei partigiani comunisti. Come unica alternativa ai lavori forzati c’era la
deportazione nei campi di concentramento nazisti, e ciò spinse molte persone a
prendere decisioni disperate, non ultima quella di aderire alla causa del MPL.
Per quanto concerne l’annientamento
dell’ondata rivoluzionaria che aveva travolto l’area giuliano-dalmata in quel
turbolento scorcio autunnale, furono allestiti appositi centri di repressione
massiva per prigionieri politici e militanti partigiani. Oltre a quello di
Palmanova, dove furono torturate e uccise molte persone nei locali della
caserma “Piave”, va menzionata la Risiera di San Sabba di Trieste. In questa
struttura furono eseguite uccisioni sommarie e gasazioni, ma l’aspetto che la
rende ancora più orrida era il funzionamento, al suo interno, di un forno
crematorio. Alla Risiera trovarono la morte circa cinquemila persone; fu adibita
anche a centro di smistamento per gli ebrei destinati alla deportazione in
Germania.
Nel complesso la politica d’occupazione
dei tedeschi “oscillò tra ammiccamento e repressione”[55],
poiché si prefiggeva l’obiettivo strategico di aizzare le varie componenti
nazionali tra di loro, allo scopo di indebolirle ulteriormente e creare in esse
la convinzione circa la necessaria presenza tedesca in tutta l’area
giuliano-dalmata. Non è un caso che anche le operazioni militari delle unità
della RSI furono spesso osteggiate dai comandi germanici, perché ritenute
elemento di disturbo per l’indiscussa e indiscutibile leadership tedesca nella
Zona.
I tedeschi commisero inoltre un grave
errore operativo durante la loro occupazione: quello di liberare dalle sacche di
resistenza partigiane soltanto le principali vie di comunicazione e i centri
urbani, senza avvedersi della pericolosità di talune aree montuose defilate e
apparentemente ininfluenti: invece fu proprio in questi nascondigli che i
partigiani poterono riorganizzarsi e ottenere il controllo di territori
abbastanza estesi, riallacciando così i nodi principali del tessuto cospirativo
slavo di ispirazione rivoluzionaria.
Intanto, il 29 novembre 1943 il Consiglio
Antifascista Popolare di Liberazione della Jugoslavia (AVNOJ) si riunì per
sanzionare la piena legittimità dei proclami di annessione dell’Istria e del
Litorale alla futura Jugoslavia; anche in questa occasione prevalse l’opzione
unilaterale, senza che fosse sostenuta alcuna negoziazione con la controparte,
individuabile negli organismi rappresentativi della Resistenza italiana.
Nel 1944 i tedeschi continuarono a
presidiare l’area giuliano-dalmata con imponenti guarnigioni stanziate sul
territorio d’occupazione, continuando con una feroce politica di repressione
incondizionata che conobbe uno dei suoi momenti più tragici allorché il 30
aprile 269 persone di etnia croata furono uccise per rappresaglia dalle truppe
naziste presso Lipa, in provincia di Fiume.
Ciò che spezzò l’equilibrio di forza
imposto dai tedeschi nella regione fu il sopraggiungere dell’avanzata sovietica
alla fine dell’estate: con una travolgente offensiva l’Armata Rossa riuscì a
penetrare in Romania e Bulgaria, ottenendone il pieno controllo all’inizio di
ottobre. L’offensiva russa generò una reazione di ampia portata da parte
tedesca, e mentre i soldati di Stalin avanzano rapidamente, il Reich ordinò una
massiccia ritirata dai Balcani che coinvolse non meno di settecentomila uomini,
che ripiegarono velocemente verso nord, lasciando completamente sguarnita la
costa dalmata, l’Albania e la Grecia. Non appena i tedeschi si apprestarono ad
abbandonare i loro presidi, nelle città e nei porti cominciarono a confluire
unità partigiane slave che assunsero ben presto il controllo della situazione.
Belgrado fu liberata il 18 ottobre, mentre a Zara i partigiani di Tito
irruppero il 31. Si ripeté lo stesso copione che aveva caratterizzato le
scorribande partigiane in Istria l’anno precedente: ondate di arresti,
confische a tappeto, arruolamenti coatti nell’EPLJ, imprigionamenti e
deportazioni, colpirono una città già martoriata vergognosamente da un anno di
bombardamenti alleati; molti suoi cittadini infatti l’avevano già abbandonata
via mare per mettersi in salvo. Ma non mancarono altre uccisioni: annegamenti,
fucilazioni e infoibamenti furono perpetrati ai danni di circa duecento
persone, soprattutto individui che facevano parte delle forze dell’ordine
italiane rimaste in città dopo lo sgombero dei tedeschi[56].
A questo punto la Venezia Giulia andava
assumendo un ruolo di vitale importanza per il Reich: “l’antemurale della nuova
linea strategica difensiva germanica”[57]
avrebbe così costituito la prima linea nell’Alto Adriatico. Fu intensificato il
dispiegamento di unità militari in tutta la regione, con una “poderosa linea di
difesa che coprisse [...] l’intero golfo di Trieste, l’Istria ed il Quarnero”[58].
Il vecchio confine italo-slavo divenne così la linea fortificata “Ingrid”,
ovvero la porta occidentale dei Balcani.
Intanto le sorti del conflitto mondiale mutavano
irreversibilmente: sul fronte orientale l’offensiva sovietica straripò oltre le
linee ungheresi, e alla fine di gennaio 1945 l’Armata Rossa ebbe completato
l’occupazione dell’intera Ungheria.
2.4 L’EPILOGO DELLA TRAGEDIA
Dopo l’imponente avanzata sovietica verso
l’Europa centrale e il conseguente arretramento delle truppe germaniche dai
Balcani, si aprì una fase decisiva per le sorti della Venezia Giulia e del II
conflitto mondiale. In un contesto diplomatico dai contorni molto sfuocati,
l’assetto geo-politico dell’Alto Adriatico divenne oggetto di estenuanti
trattative che subirono l’influenza del nascente bipolarismo internazionale.
Dopo alcuni incontri preliminari tenutisi
nell’agosto del ’44 in Italia e nel febbraio del ’45 a Belgrado tra Tito, Churchill
e il Maresciallo Alexander, capo dell’VIII Armata britannica, tra Alleati e
jugoslavi non si convenne di fatto ad una linea comune circa l’occupazione della Venezia Giulia, da
effettuarsi alla fine del conflitto per ripulire l’ultimo baluardo della
strenua resistenza nazista nella regione.
Mentre per gli americani tale operazione
assumeva un significato meramente strategico,
ovvero la possibilità di aprirsi i varchi necessari per sferzare l’offensiva
verso l’Austria, per la nascente Jugoslavia comunista l’occupazione della città
di Trieste equivaleva ad un duplice successo, sul piano politico e su quello
militare. Così mentre i vertici alleati programmarono l’istituzione del GMA in
tutta la regione più la città di Fiume e le isole del Quarnaro, da parte
jugoslava si predisponeva contemporaneamente un piano operativo che affidava
alla Quarta Armata del generale Drapsin il compito di raggiungere Trieste in
anticipo rispetto agli Alleati. Tutti gli sforzi del MPL si sarebbero dovuti
rettificare in funzione dell’occupazione dell’intera area giuliana,
propedeutica alla successiva annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia di
Tito. L’importanza politica di tale operazione per gli jugoslavi posticipò
addirittura la liberazione di Zagabria e Lubiana, e assunse una rilevanza assai
maggiore rispetto a quella che poteva avere per gli Alleati. Anche per questo
la storiografia contemporanea suole ricordare tale evento con l’espressione “La
corsa per Trieste”, entrata a far parte a pieno titolo della storia giuliana
del Novecento.
Così il 17 aprile la Quarta Armata
jugoslava inaugurò l’operazione “Trieste”,
mentre i partigiani comunisti occupavano l’isola di Veglia. Il 20 aprile
caddero Cherso e Lussino, mentre tra il 24 e il 25 le truppe slave provenienti
dalle isole quarnerine sbarcarono nella costa orientale dell’Istria; i
partigiani del MPL occuparono poi Albona e Arsia il giorno 28, mentre le unità
jugoslave si accingevano a puntare su Trieste e Gorizia. A questo punto però,
nel capoluogo giuliano insorsero i combattenti del Corpo Volontari della
Libertà (CVL), emanazione armata del CLN, che riuscì ad assumere il controllo
di alcuni punti strategici sgominando le truppe germaniche presenti in città;
queste si asserragliarono in alcuni edifici del centro, organizzando una
disperata resistenza in attesa della venuta degli Alleati, ai quali i tedeschi
speravano di consegnare la resa ufficiale. Il 29 le truppe jugoslave
sopraggiunsero nei dintorni di Trieste, ma incontrarono una solida opposizione
da parte di unità germaniche; anche il 30 seguirono violenti scontri a Villa
Opicina tra gli uomini del gen. Drapsin e i tedeschi, impegnati nell’ultima
strenua resistenza armata. Ormai gli eventi avevano assunto una direzione
prevedibile, e il 1° maggio 1945 le truppe jugoslave fecero il loro ingresso a
Trieste, Monfalcone e Gorizia, anticipando di un giorno la venuta delle truppe
neozelandesi del generale Freyberg. La corsa per Trieste terminava, e i
“liberatori”, perchè è così che amavano presentarsi alla popolazione civile,
iniziarono con uno zelo asfissiante la loro politica repressiva nei confronti
dei “nemici del popolo” e dei “reazionari”, in cui rientravano, secondo
un’assurda logica di potere, anche le persone che fino al giorno prima avevano
combattuto nelle fila del CVL triestino per liberare Trieste dai nazisti. Era
l’inizio di una stagione indimenticabile nella memoria e nella storia della
città, ai più nota come “la primavera di Trieste”.
2.5 GLI ECCIDI DELLA PRIMAVERA DEL ‘45
Tanto per cominciare, è interessante
rilevare quale fu il biglietto da visita con cui i “liberatori jugoslavi” si
presentarono a Trieste dopo aver ricevuto le apposite istruzioni da Lubiana:
Tutte le unità non
tedesche e l’intero apparato amministrativo e di polizia a Trieste vanno considerati
nemici e occupatori. [...] Tutti gli elementi italiani di questo tipo possono
soltanto consegnarsi e capitolare all’armata jugoslava di liberazione. Tutto
ciò che agisca contro di essa è esercito di occupazione. [...] Smascherate ogni
insurrezione che non si fondi sul ruolo guida della Jugoslavia di Tito contro
l’occupatore nel Litorale, sul Comando di città, sulla cooperazione fra
italiani e sloveni, consideratela un sostegno all’occupatore e un inizio di
guerra civile[59].
Anche questa volta il messaggio è
ineccepibile, e dalle parole si passò ai fatti. Nei primi giorni di maggio del
’45 le unità jugoslave entrate a Trieste e nel resto della regione, disarmarono
e internarono tutti i militari catturati, destinati a passare il resto dei loro
giorni nei già citati campi di concentramento jugoslavi, in spregio a ogni
norma del diritto internazionale vigente. Oltre alle deportazioni si
susseguirono centinaia di esecuzioni sommarie comminate ai militi nazisti e
repubblichini, basate non tanto su accertate responsabilità belliche, bensì
sulla colpa collettiva che veniva loro attribuita per aver servito eserciti
invisi a quello jugoslavo. Analoghe le procedure di liquidazione che
riguardarono le forze di polizia della città, ritenute colpevoli perchè facenti
parte del sistema repressivo nazifascista, non importava nulla che i suoi
componenti avessero rischiato la vita durante la guerra per salvaguardare
l’incolumità della popolazione locale e per tutelare l’ordine pubblico.
Sempre in nome della “colpa collettiva”
attribuita a tutte le forze armate esistenti sul territorio, furono deportati
numerosi agenti della Guardia di Finanza e della Guardia civica di Trieste, le
stesse persone che avevano aderito all’insurrezione contro i tedeschi
proclamata dal CLN triestino per mezzo del suo braccio armato, il CVL appunto.
Il fanatismo politico dei quadri comunisti sloveni portò persino all’arresto di
persone che avevano militato durante la Resistenza all’interno di brigate
partigiane italiane alle dipendenze del CLN triestino. Tale atteggiamento ha
del paradossale soltanto in apparenza, giacché i dirigenti comunisti sloveni si
accanirono ancor più efferatamente contro tutte le organizzazioni politiche e
militari di ispirazione antifascista e di sentimenti italiani; con la loro
partecipazione alla lotta armata contro il nazifascismo esse costituivano un
concreto elemento di delegittimazione e di disturbo al MPL, intento in quel
frangente ad accattivarsi l’opinione pubblica per realizzare il suo velleitario
progetto annessionistico nella Venezia Giulia. Ne fornisce prova esemplare il
fatto che sia a Gorizia che a Trieste gli esponenti del MPL si misero a
perseguitare cinicamente i membri dei CLN cittadini, come se fossero sanguinari
criminali di guerra macchiatisi di chissà quali atrocità durante il conflitto.
A Fiume le cose andarono per certi versi ancora peggio: oltre ai membri del CLN
locale furono tratti in arresto e fatti sparire i componenti del movimento
autonomista zanelliano, che come abbiamo visto accomunava la maggior parte
della cittadinanza fiumana.
Mentre la Quarta Armata jugoslava
dispensava arresti, deportazioni e liquidazioni per tutte le rappresentanze
militari e di polizia italiane presenti sul territorio giuliano, vi era un
altro organo preposto a rastrellare con precisione chirurgica la società
civile: l’OZNA[60]. Si
trattava di un’efficientissima organizzazione di polizia politica segreta che
poteva contare sulla collaborazione di delatori italiani e slavi, convinti
seguaci del progetto rivoluzionario titino. Questi avevano il compito di
stilare esaustive liste di “nemici del popolo”, “reazionari” e “fascisti”,
ovvero di presunti tali; i confidenti politici lavorarono con dedizione per
assicurare a talune categorie di persone un destino drammatico. L’OZNA ebbe
così gioco facile per spiegare la propria macchina repressiva contro tutte
quelle persone che non si riconoscevano nel MPL, o che non ne condividevano i
metodi: furono tutte vittime ignare di una colossale epurazione politica.
Coadiuvata da una milizia paramilitare denominata “Difesa popolare”, l’OZNA
estese su tutto il territorio giuliano ondate di persecuzione che raggiunsero
livelli paranoici, come traspare da questa testimonianza:
Nella tarda serata di
ieri gli uomini di Tito, incoraggiati dall’inerzia degli Alleati, espellevano
brutalmente il Cln dalla Prefettura, che restava così nelle loro mani. E tutti
gli edifici pubblici [...] sono ormai occupati e vigilati, con le
mitragliatrici a ogni entrata, dagli jugoslavi; [...] Da ogni parte vengono segnalati
arresti di italiani, più che di fascisti, e le nostre bandiere vengono
strappate dalle finestre[61].
Furono dunque prese di mira tutte le
persone che simpatizzavano o militavano per forze politiche non comuniste,
comprese quelle di ispirazione cristiano-democratica. Chiunque avesse in
qualche modo lasciato trapelare la propria renitenza politica al cospetto degli
obiettivi rivoluzionari ed espansionistici dei vertici jugoslavi, era passibile
di accusa di collaborazionismo; compito dell’OZNA era quello di assicurarlo
alla “giustizia popolare”, che avrebbe poi provveduto ad infliggere pene che
andavano dalla perdita dei diritti civili e politici (e continuiamo a chiederci
quali potessero essere [N.d.A.] alla pena capitale, comminata con inverosimile
incoscienza giudiziaria. L’apparato repressivo non fece sconti nemmeno a chi
aveva un ruolo rilevante nell’economia o incarichi di alto rango
nell’amministrazione pubblica: l’ordine era tassativamente quello di “epurare
subito, ma non sulla base della nazionalità, bensì su quella del fascismo”,
come disse il leader comunista sloveno Edvard Kardelj. A proposito di
quest’ordine, dispensato in pompa magna a tutti i quadri comunisti slavi che
avevano il compito di implementare l’epurazione nella Venezia Giulia, vorremmo
aggiungere due considerazioni: furono arrestati e giustiziati con la stessa
foga rivoluzionaria anche sloveni e croati, spesso rei soltanto di non
abbracciare le tesi comuniste del nascente stato jugoslavo; tuttavia
nell’affermazione di Kardelj si palesa irreprensibilmente un’ulteriore
deduzione di ordine ideologico: se andavano tolti di mezzo soltanto i fascisti,
è bene ricordare che il termine fascista,
per l’uso perverso che ne facevano i “poteri popolari” in quel periodo,
abbracciava larghissime fasce della popolazione giuliana, ovvero tutti gli
italiani che avevano maturato una coscienza antifascista accompagnata dalla
spontanea (e aggiungeremmo legittimissima
[N.d.A.]) volontà di essere ricompresi nella stessa compagine statuale
antebellica. Al cospetto di questa situazione, le autorità jugoslave si
preoccuparono di attuare una repressione durissima, che se da una parte aveva
lo scopo di eliminare tutti i potenziali avversari politici del MPL, dall’altra
finì inevitabilmente per falcidiare la componente italiana in tutte le sue
espressioni tangibili nella regione: amministrativa, civica, politica,
economica, sociale, culturale e storica. Da ciò si può evincere senza vizio
congetturale che quella attuata dagli jugoslavi nella Venezia Giulia fu un’epurazione
politica con aggravanti pregiudiziali di ordine nazionale (anti-italiano). Il
fatto che tali aggravanti derivassero anche dal clima di “resa dei conti”
alimentato dal regime fascista durante il Ventennio, non avrebbe dovuto
sfociare nella commistione di rancori e odi personali, mescolati a
quell’ideologia rivoluzionaria che voleva capovolgere gli equilibri sociali
della regione con l‘uso indiscriminato della violenza. In linea con questo
ragionamento si colloca l’eliminazione di alcune migliaia di persone che furono
barbaramente trucidate nelle foibe del Carso triestino e del Goriziano:
Basovizza, abisso “Plutone”, Monte Nero, Tarnova e Gargaro sono le voragini
carsiche che furono maggiormente utilizzate per liquidare un elevato numero di
civili e militari, arrestati dalle autorità jugoslave a Trieste e a Gorizia
durante l’occupazione titina delle due città giuliane. Nella foiba di
Basovizza, che in realtà è un pozzo minerario, trovarono la morte centinaia di
persone, tra cui uomini delle forze dell’ordine (Questurini, finanzieri e
carabinieri), prelevate a Trieste nei primi giorni di maggio del ’45 dai
reparti della IV Armata jugoslava.
L’OZNA e i “poteri popolari” ebbero il
vantaggio di agire indisturbati: in quel momento non esisteva nel territorio giuliano
un’autorità superpartes in grado di
garantire la legalità procedurale degli eventi. Tale ruolo avrebbero potuto
svolgerlo gli Alleati, che arrivarono soltanto ventiquattro ore dopo sia a
Trieste che a Gorizia; purtroppo però, essi furono investiti da un immobilismo
operativo che ancora oggi lascia molti “se” e molti “ma” sulla crisi giuliana
del ’45. Un dato significativo: nelle settimane in cui gli jugoslavi occuparono
tutta la Venezia Giulia furono arrestate circa diecimila persone solo tra Trieste
e il Goriziano. L’ondata di violenze perpetrate ai danni dei civili seminò il
terrore tra la popolazione giuliana, in maggioranza tra quella di sentimenti
italiani. Ma ciò non suggerì alcuna riflessione ai vertici dei partiti
comunisti sloveno e croato. Questi anzi corroborarono il proprio radicalismo
ideologico con l’esigenza prioritaria di assumere il controllo territoriale,
anche a costo di dover eliminare migliaia di persone, e così fu fatto.
Non bisogna dimenticare che l’ondata
repressiva jugoslava di quelle settimane di maggio-giugno ’45 si abbatté su
tutta la Venezia Giulia, Istria compresa: questa regione era stata
appositamente aggirata dalle truppe jugoslave impegnate nella corsa per
Trieste, e quindi venne occupata qualche giorno dopo. Il 5 maggio gli jugoslavi
fecero il loro ingresso a Pola, e iniziarono a setacciare le ultime strenue
resistenze delle forze italo-tedesche[62].
Nel frattempo entrava in funzione anche nel capoluogo istriano l’impianto
repressivo poliziesco dell’OZNA, che riuscì a infiltrare tutti i settori della
vita cittadina avvalendosi della connivenza fornita da alcuni informatori
locali. Iniziarono le inquisizioni arbitrarie e le retate di massa ai danni dei
polesani, completamente inermi al cospetto dei nuovi “poteri popolari”. Dalla
città sparirono diverse centinaia di persone: fermate; interrogate con i
“metodi persuasivi” degli emissari politici comunisti; accusate mendacemente
con infamie di ogni tipo; deportate; processate e condannate da organi
giudiziari “amatoriali” che si pronunciavano in nome del “popolo”; infine
destinate a trascorrere lunghi periodi di prigionia o di lavori forzati nei
campi-lager della Jugoslavia, dove si moriva di fame, di freddo, di malattie e
infezioni che martoriavano i malcapitati giorno dopo giorno, senza le minime
condizioni igienico-sanitarie per poter sopravvivere. Ovviamente il
denominatore comune di tutte queste angherie era la degenerata violenza con cui
i “drusi” si divertivano a sopraffare i prigionieri, portandoli spesso allo
sfinimento psico-fisico. Tutto ciò appare chiaro anche dalla seguente
testimonianza: “Si riempirono allora a Pola le carceri di Via Martiri di nuovi politici: centinaia di cittadini
polesani rei di essere italiani, picchiati a sangue, legati col filo di ferro
ai polsi, stipati come animali nelle celle”[63].
Avvennero anche alcuni infoibamenti ma in queste circostanze le notizie
giunsero sempre molto in ritardo e in maniera confusionale. Il clima di
proliferazione della violenza gettò nello sconforto i polesani, che mai prima
d’ora avevano conosciuto un tale castigo come quello inferto dai nuovi poteri.
Alle retate politiche seguirono sontuose manifestazioni di propaganda inscenate
dai vertici comunisti, come racconta nel proprio vissuto di quei tempi cupi il
sig. Cionci:
Cominciarono i
festeggiamenti e i cortei, con gente mobilitata nel circondario, fatta affluire
con camion e ogni altro mezzo di trasporto. Sfilavano [...] per la città con in
una mano una borsa con le provviste per la giornata e nell’altra una bandiera con
la stella rossa. Ai Giardini era stato eretto una specie di arco di trionfo,
sovrastato da una stella rossa [...] L’UAIS, l’Unione Antifascista Italo-Slava,
[...] poteva contare, in ogni momento, su un consistente numero di attivisti
filoslavi a disposizione. Ogni occasione era buona per dimostrare efficienza e
capacità organizzativa; si puntava molto sull’unità della classe lavoratrice,
con il proposito di convogliare al più presto tutti i lavoratori nei “Sindacati
Unici”, di marcato orientamento filoslavo.
Da queste righe emerge la laboriosità del
progetto annessionistico jugoslavo a Pola, dove per realizzarlo erano
necessarie due cose: epurazioni a tappeto e soprattutto un’ingente campagna di
propaganda pro-Jugoslavia che potesse in qualche modo “rimpicciolire”
l’indiscussa italianità del capoluogo istriano. Ovviamente la stessa ondata
repressiva colpì anche le altre località istriane sparse nella penisola, in cui
si perpetuarono le stesse violenze con pari metodi e strategie.
Per Pola, Gorizia e Trieste la fine di
questa ordinaria illegalità sarebbe arrivata soltanto il 12 giugno 1945 con
l’entrata in vigore dell’Accordo di Belgrado[64],
mentre per il resto dell’area giuliana la crisi si sarebbe protratta ancora per
molto, assumendo connotazioni sempre più tragiche per la popolazione italiana
ivi residente. C’è poi da aggiungere che la sesta clausola dell’Accordo di
Belgrado fu clamorosamente snobbata dalle autorità jugoslave: prevedeva
l’obbligo della liberazione di tutte le persone che erano state arrestate e
deportate e la restituzione di tutte le proprietà arbitrariamente sottratte
durante l’occupazione della Venezia Giulia. Il governo jugoslavo si dichiarò
completamente estraneo da questi fatti, compiuti “soltanto nei riguardi di
fascisti e criminali di guerra”. In altri termini si scagionò unilateralmente
dalle accuse attribuitegli, confermando l’evidente velleità con cui tentava di
affermarsi al cospetto degli Alleati.
2.6 IL PROGETTO JUGOSLAVO NELLA VENEZIA GIULIA
Ai proclami unilaterali di annessione
dell’Istria e del Litorale alla futura compagine statuale jugoslava del ‘43,
seguirono ondate di arresti arbitrari perpetrati ai danni della popolazione
civile giuliana e dalmata, che faticava a capire come potessero essere chiamati
“liberatori” i partigiani di Tito. Questi si preoccuparono di instaurare
fatiscenti “poteri popolari” e sedicenti “Tribunali del popolo” con lo scopo di
processare ed eliminare i cosiddetti “nemici del popolo”. Ed è proprio qui che
subentra la discriminante nazionale. Infatti, mentre venivano perseguitati
anche sloveni e croati con l’accusa di collaborazionismo, agli italiani
antifascisti bastava professare i propri sentimenti nazionali, legati alla
Madrepatria, per essere bollati come reazionari, e quindi come “nemici del popolo”,
poiché veniva a mancare quel requisito fondamentale che era la condivisione
“fraterna” delle tesi rivoluzionarie jugoslave. In sintesi, fascista non era
soltanto chi aveva militato attivamente negli anni del regime, bensì chi osava
mettere in discussione la bontà del progetto di Tito. Sul piano politico ne
consegue che l’intento era quello di trasformare l’identità nazionale italiana
in connotato ideologico negativo, ovvero in grado di imputare capi d’accusa
biasimevoli su larghe fasce di popolazione del tutto estranee a tali
sottigliezze strumentali: non passava nessuna differenza tra una camicia nera e
un antifascista moderato.
Secondo le tesi di Tito e del suo
movimento, nemici del popolo erano da considerarsi coloro che non aderivano con
spiccato entusiasmo alla venuta dei nuovi poteri, basati su due principi
fondamentali: l’annessione integrale della Venezia Giulia alla nascente
Jugoslavia comunista (mentre si dava già per assodata la sovranità statuale su
Fiume e sul Quarnaro, sulla Dalmazia e su tutte le sue isole [N.d.A.]) doveva
combinarsi all’edificazione del socialismo all’interno dei suoi nuovi confini
territoriali, che stando alle prerogative del maresciallo e dei suoi
fiancheggiatori si sarebbero dovuti protendere sino alla linea di demarcazione
del fiume Tagliamento.
Tuttavia non mancarono iniziative
apparentemente contraddittorie con quanto detto finora, ma che in realtà si
collocavano all’interno dello stesso disegno politico: ne costituisce un ottimo
terreno probatorio la volontà di realizzare la “fratellanza italo-slava” nel
contesto giuliano di quegli anni. Una linea politico-sociale che il nascente
regime jugoslavo millantava orgogliosamente sotto la stella
dell’internazionalismo proletario, consapevole di poter contare anche sull’appoggio
del proletariato industriale del Monfalconese e di Trieste, come asserisce
anche Pupo:
[...] La grande
maggioranza della classe operaia di lingua italiana della regione era pronta ad
accogliere l’annessione alla Jugoslavia come l’unica opportunità storicamente
possibile per cominciare una nuova vita all’interno di uno stato socialista.
[...] Una parte fortemente minoritaria della complessiva popolazione italiana,
ma tutt’altro che trascurabile[65].
Il punto è che la linea della fratellanza
italo-slava nasceva dalla volontà di distorcere il reale spessore
socio-demografico che gli italiani avevano storicamente assunto nella Venezia
Giulia, relegandoli subdolamente allo status
di minoranza che non avevano mai avuto prima. Per farlo, i vertici jugoslavi elaborarono
attentamente dei prerequisiti per l’accettazione dell’elemento italiano
all’interno del costituendo stato comunista jugoslavo, in una logica che doveva
frapporre uno sbarramento di partenza a tutti quegli italiani non conformi ai
nuovi poteri. Nella rivoluzionaria nomenclatura contemplata dal nuovo modello
di stato affratellante di Tito, si annoverava la categoria degli italiani
“onesti e buoni”, alias “onesti antifascisti”. Per accedere a questo
raggruppamento elitario si doveva anzitutto dimostrare la propria euforia
socialista filo-sovietica (ovviamente fino al 1948), la propria avversione
incondizionata nei riguardi del nascente sistema capitalistico occidentale e
verso la Madrepatria. A questa etichetta si contrapponeva invece quella da affibbiare
ai già menzionati nemici del popolo, alias reazionari, i quali andavano
tuttalpiù perseguitati ed estromessi integralmente dalla vita pubblica e
politica dello stato. E’ doveroso puntualizzare a questo proposito che, per
quanto concerne gli italiani “onesti e buoni”, era sì riconosciuto il massimo
grado di diritti nazionali, ma all’interno del nascente stato a guida comunista
il destinatario di tali diritti civili e politici era il soggetto collettivo
identificato nelle organizzazioni che il regime riconosceva, non il singolo
cittadino, assolutamente vulnerabile al cospetto del sistema totalitario che
andava affermandosi. Ne fornisce adeguata riprova l’istituzione dell’Unione
degli Italiani dell’Istria e di Fiume (UIIF), organizzazione sorta nel luglio
‘44 entro la quale Tito concesse lo sviluppo di un’italianità filo-jugoslava e
menomata, i cui obiettivi erano soggetti alla censura dei vertici jugoslavi. In
questo modo “la politica di occupazione oscillava contraddittoriamente fra
repressione brutale e spregiudicata ricerca di consenso”[66].
Nulla avrebbe avuto da guadagnare
l’italianità adriatica giuliana inserita nel progetto socialista jugoslavo, le
cui prerogative economiche miravano anzitutto a colpire i ceti popolari e borghesi
di cui essa si componeva: artigiani, commercianti, impiegati e liberi
professionisti erano infatti rappresentativi di una classe dirigente i cui
connotati erano indubbiamente italiani. Ma non finiva qui. C’era un’ulteriore
scrematura riconducibile ai già ben noti progetti di ingegneria etnica che
furono tenacemente sostenuti nella Venezia Giulia. Secondo le autorità
jugoslave, non andava tenuto in considerazione il plurisecolare processo di
assimilazione (che a parere nostro non si richiama né a nazionalismo né a
snazionalizzazione) che aveva di fatto trasformato gli assetti sociolinguistici
della popolazione giuliana, favorendo l’affermazione dell’italiano come lingua
d’uso nei commerci, nella vita urbana delle città, e soprattutto, nel settore pubblico
e istituzionale: la concezione etnicista della nazionalità spinse i nuovi
poteri a distinguere gli italiani madrelingua dagli italiani assimilati, le cui
origini più remote potevano ricondursi al ceppo slavo, nonostante questi
professassero spontaneamente sentimenti italiani. E ancora, si rendeva
necessario discriminare gli italiani regnicoli da quelli autoctoni; i primi
erano giunti nell’area giuliana dopo il 1918, e pertanto si doveva favorire la
loro espulsione. Anche grazie a questi cavillosi tatticismi le autorità
jugoslave riconsegnarono all’opinione pubblica internazionale un’immagine
capovolta e sofisticata della composizione etnica della Venezia Giulia, in cui
la componente italiana sembrava essere una realtà del tutto marginale e ben
poco influente se considerata al cospetto delle altre nazionalità presenti
nella regione. Ecco perchè la politica della fratellanza, nei suoi laboriosi
ingranaggi etnici, politici e sociali rivestiva un’importante funzione
selettiva che autorizzava lo stato jugoslavo a soggiogare l’italianità
adriatica.
Un progetto tanto folle quanto
contraddittorio, dal momento che nel territorio che Tito rivendicava c’erano
numerosi centri urbani dove l’egemonia italiana era stata fino a quel momento
inoppugnabile, frutto di un lunghissimo processo di sedimentazione della
latinità culminato con lo sviluppo dell’italianità adriatica in Istria,
Quarnaro e Dalmazia nell’età contemporanea. Contraddittorio perchè il movimento
nazional-comunista jugoslavo si camuffava molto bene con l’alibi
dell’autodeterminazione dei popoli, pur sapendo che nell’area contesa (ma forse
si dovrebbe dire pretesa) c’erano
centinaia di migliaia di persone che potendo scegliere, avrebbero sicuramente
optato per la difesa della loro identità nazionale italiana.
Inoltre, edificare il socialismo in uno
stato a fortissima trazione centralista e con una draconiana impostazione
monopartitica, non corrispondeva a quegli ideali di libertà e democrazia che
venivamo continuamente osannati nelle manifestazioni di propaganda
filo-jugoslava, inscenate ad arte dagli attivisti dell’Unione Antifascista
Italo-Slava (UAIS). Questa organizzazione sorse soltanto nel 1945 come
emanazione del MPL dopo l’occupazione jugoslava della Venezia Giulia;
accoglieva nei suoi ranghi sia elementi italiani che slavi, e si proponeva nel
panorama giuliano come organo della propaganda filo-jugoslava. Poteva vantare
un’efficiente organizzazione e una capillare distribuzione sul territorio
specie a Trieste, Gorizia e Pola, le uniche città rimaste sotto
l’amministrazione degli Alleati dopo l’Accordo di Belgrado. Suo compito era
appunto quello di manifestare pubblicamente a favore di Tito e della sua
nascente Jugoslavia comunista, nel tentativo di profondere anche nelle masse
italiane gli stessi sentimenti filo-jugoslavi. Spesso a sfilare nei cortei e
nelle piazze erano persone reclutate dall’entroterra e dal mondo rurale
giuliano in genere, che nulla avevano a che fare con la vita urbana in cui
venivano inscenate tali azioni dimostrative. Tuttavia erano perfettamente
equipaggiate con bandiere, drappi e quant’altro potesse essere utile per
costruire sfarzose coreografie inneggianti la causa jugoslava. A riprova della
tenacia e del fervore ideologico che animava tali manifestazioni, si riporta il
seguente aneddoto: quando la Commissione Interalleata[67]
si recò in Italia, si riunì a Milano, da dove avrebbe mosso verso la Venezia
Giulia per svolgere i propri lavori. A quel punto però, fu bloccata da un
imprevisto alquanto insolito. Alla stazione ferroviaria del capoluogo lombardo
trovò ad attenderla un gruppo di agitatori dell’UAIS, i quali per l’occasione
inscenarono un’agguerrita manifestazione pro-Jugoslavia, allo scopo di
pregiudicare già in partenza l’orientamento della commissione stessa[68].
Il messaggio era chiaro: “Voi venite in Italia per analizzare la situazione
della Venezia Giulia, noi vi lanciamo un forte monito circa le sue sorti, e lo
facciamo a Milano, a centinaia di chilometri dall’area in questione, per
ribadire inequivocabilmente le nostre rivendicazioni”.
Altra manipolazione strumentale fu quella
di convogliare la Resistenza armata giuliana su altri fronti di guerra,
cosicché fosse possibile rafforzare la leadership slovena e croata nell’ottica
della futura annessione della regione. Così diversi partigiani italiani furono
dirottati su fronti a loro del tutto avulsi, “spesso in luoghi anche parecchio
distanti dalla Venezia Giulia, come in Slovenia, nella regione del Gorski Kotar
ad est di Fiume, nella Croazia interna”[69].
Si arrivò poi a fagocitare intere unità partigiane italiane all’interno dei
comandi dell’OF, come accadde alla brigata Garibaldi-Trieste che dopo aver
interrotto i suoi rapporti con il CLN cittadino abbracciò le tesi
annessionistiche dei titini. L’episodio più grave si verificò il 7 febbraio
1945 alle malghe di Porzus, giacché una formazione della brigata
Garibaldi-Natisone, che nel frattempo aveva aderito alle direttive del IX
Corpus sloveno, trucidò i membri del
comando della brigata Osoppo di orientamento democristiano, appartenenti
peraltro alla medesima divisione unificata Garibaldi-Osoppo. Unica colpa dei
partigiani osovani era quella di aver rifiutato le pressioni politiche slovene
volte a ottenere il controllo del territorio sotto la loro supervisione.
Insomma, utilizzando poche parole, Tito
stava cercando di vendere un regime totalitario spacciandolo per autodecisione
dei popoli: un vero affare per l’uomo su cui Churchill aveva riposto tutta la
sua fiducia a scapito di Mihajlovic, delegittimato e denigrato perchè accusato
di collaborazionismo dagli Alleati. Ma come poteva essere collaborazionista
l’Armata Nazionale jugoslava del generale Mihajlovic, che oltretutto
rappresentava il braccio militare del governo monarchico jugoslavo,
“parcheggiato” a Londra ormai da più di due anni? Probabilmente l’abilità di
Tito fu innanzitutto quella di convincere gli Alleati che il Movimento Popolare
di Liberazione fosse davvero la “volontà del popolo”, così come veniva
ossessivamente invocata durante i comizi del PCJ.
Funzionò molto bene poi la tattica
utilizzata dal maresciallo e dagli organi rappresentativi del MPL per
avvalorare talune pretese territoriali sul suolo italiano. Con una sorta di
gioco al rialzo nei negoziati con le grandi potenze (chiedere Trieste, Gorizia
e Monfalcone) egli riuscì senza dubbio ad ottenere nella Venezia Giulia la
fetta più grossa, grazie a una grande manovra che faceva leva su una propaganda
capillare e sulla legittimazione politica delle sue richieste in seno ai
vertici comunisti italiani.
A sostegno di questa posizione riportiamo
di seguito una parte del testo di una lettera pubblicata dall’Azione del Popolo di Milano del 24
novembre - 1° dicembre 1945, anno II, n. 43, con cui i comunisti sloveni
esprimevano le loro rivendicazioni territoriali ai comunisti italiani di
Milano, secondo quell’ottica oltranzista ben radicata nella causa jugoslava:
Ai compagni italiani,
noi comunisti sloveni dell’OF e del
PSNOJ, in occasione della conclusione dell’accordo tra il Comitato di Liberazione
Nazionale dell’Alta Italia e l’OF vogliamo inviare il nostro saluto.
L’accordo
con il quale il Comitato di Liberazione riconosce l’esistenza di un libero
Stato sloveno e decide di restituire al momento della cacciata dell’oppressore
nazi-fascista, le città ed i territori di Trieste, Gorizia, Fiume e Pola alla
loro naturale pertinenza slovena, è di importanza storica. La rinuncia da parte
slovena a far valere i propri diritti storici sui territori di Udine e Venezia
dimostra la volontà di pace e di accordo che ci anima [...][70].
Riteniamo che quanto appena riportato non
abbia bisogno di alcun commento aggiuntivo, giacché traspare in maniera
ineccepibile l’intransigenza sciovinista con cui l’OF si poneva nell’ambito
delle trattative inerenti la questione confinaria italo-jugoslava. Molto
diverso era, a ragione di quanto detto, l’approccio che giustificava le pretese
espansionistiche proprie della causa slava, in quanto secondo la concezione
confinaria sostenuta da Tito, non erano le città e i centri urbani a fungere da
punto di riferimento per il circondario rurale, bensì era la campagna stessa
che doveva esercitare la propria sovrintendenza sulle rimanenti porzioni
urbanizzate di territorio. Questa la spiegazione più tangibile circa le
illegittime rivendicazioni della Jugoslavia su tutta la penisola istriana,
comprendente le allora italianissime città costiere di Capodistria, Parenzo,
Pola, Rovigno e molte altre.
Diedero infine un apporto rilevante al
maturare degli eventi anche le uccisioni perpetrate ai danni degli italiani che
abitavano nell’area giuliano-dalmata. Tali eccidi di cui i partigiani di Tito
si resero barbari esecutori, innescarono una psicosi d’assedio che terrorizzò
la popolazione civile, al punto da sospingerla alla tragica decisione di
abbandonare definitivamente la propria residenza. Le stragi compiute dagli
jugoslavi in quegli anni erano anch’esse riconducibili allo stesso disegno
politico: da una parte, permettevano a Tito di implementare un’efficace
strategia dissuasiva verso chi sperava ancora di vedere sventolare il Tricolore
nelle piazze giuliane, istriane, quarnerine e dalmate; dall’altra,
rappresentavano il metodo più veloce e sbrigativo per sbarazzarsi fisicamente e
politicamente di tutti gli oppositori, reali e potenziali.
3. LE
CONTROVERSIE DIPLOMATICHE NELLA CRISI GIULIANA
3.1 LA SVOLTA D’AUTUNNO E LE RESPONSABILITA’ DEL PCI
Un momento particolarmente amaro per la
storia del confine nord-orientale italiano è individuabile nella tristemente
nota “svolta d’autunno” del 1944, anno in cui le sorti della Venezia Giulia non
erano ancora compromesse del tutto.
Come era ben noto, le tesi
annessionistiche jugoslave, fatte proprie ad arte anche dall’OF, rivendicavano
tutta la Venezia Giulia; a tali pretese si opponevano fermamente non soltanto i
fascisti, ma anche tutti gli antifascisti moderati della regione, convinti che
nella regione dovesse essere mantenuta la sovranità italiana, anche se dal
punto di vista politico i progetti erano sicuramente diversi rispetto a quelli
portati avanti durante il Ventennio. Era evidente dunque che tra le due
esperienze resistenziali, italiana e slava, vi fossero dei punti di frizione
irrisolvibili sulla concezione di lotta contro il nazifascismo: le unità
partigiane italiane si impegnavano per liberare il territorio nazionale
italiano dall’occupazione del nemico, mentre quelle slovene e croate miravano a
estendere sulla Venezia Giulia il loro controllo territoriale, e di conseguenza
anche politico.
Nelle intricate faccende resistenziali si
inserì in modo determinante la posizione assunta dai rappresentanti del Partito
Comunista Italiano a partire dal 1944. Costoro fino a quel momento avevano
appoggiato con grande entusiasmo la lotta per l’autodeterminazione dei popoli
slavi entro i territori in cui si trovavano i loro insediamenti storici, ma
allo stesso tempo coglievano la differenza che separava l’italianità delle
città giuliane (che riconoscevano) dalle rivendicazioni slave. Vi era poi
un’ulteriore divaricazione ideologica tra comunisti italiani e slavi: i primi
erano interpreti di quell’internazionalismo inteso come mezzo per la diffusione
del socialismo in Europa, i secondi invece abbracciavano un comunismo che
voleva essere partner indiscusso del fervore nazionalista che contraddistingueva
il movimento jugoslavo. Inoltre, lo scenario che si stava affacciando lasciava
trapelare che la collaborazione antifascista si stava dissolvendo, poiché
iniziava a profilarsi la contrapposizione tra i due blocchi, quello capitalista
e quello sovietico. Tuttavia le due visioni, seppur impostate marcatamente in
modo differente, si potevano coalizzare ugualmente in nome della “grande
alleanza” antinazista. Certo era sottinteso che la sconfitta militare dei
nazisti apriva al mondo comunista una schiera di possibilità da sfruttare
efficacemente, soprattutto sulla base dei vantaggi territoriali che essa poteva
offrire.
Nell’estate del ’44 tuttavia cominciarono
manifestarsi i primi sintomi di cambiamento; nei mesi di luglio e agosto, a
Milano si tennero degli importanti incontri tra il CLNAI e i rappresentanti
dell’OF, aventi lo scopo di individuare una linea d’intenti comune che non
lasciasse spazio a eventuali equivoci: le parti stavano per convenire,
nonostante l’atteggiamento intransigente dimostrato dai comunisti sloveni, alla
stipula di un patto che impegnava entrambi i movimenti resistenziali a unirsi
compattamente nella lotta antinazista, rimandando qualsiasi vertenza confinaria
al termine del conflitto. Contemporaneamente però, mutò drasticamente la
posizione del comitato centrale del KPS, che adottò una linea “dura” nei
confronti dei negoziati in corso a Milano, rendendo note le proprie
rivendicazioni territoriali considerate inoppugnabili e del tutto legittime:
oltre a Lubiana anche Trieste, Gorizia e Klagenfurt, nonostante i loro diversi
tessuti nazionali, erano considerate slovene, e pertanto in esse dovevano
essere implementati dei piani politico-militari adeguati per la conquista del
potere. Oltre a rifiutare il patto che si stava trattando a Milano, furono
intensificate le azioni di pressione politica e proselitismo ideologico con cui
i comunisti sloveni cercavano di persuadere quelli giuliani ad accettare la
linea annessionistica jugoslava. L’esito più raccapricciante di questo
complotto forzato si manifestò il 24 settembre 1944, allorché Vincenzo Bianco,
rappresentante del PCI presso i vertici comunisti sloveni, firmò per conto del
comitato centrale del PC d’Italia, un’inaccettabile circolare “riservatissima”,
dopo essersi lasciato clamorosamente ammaliare dai compagni sloveni. Ciò che
Bianco sottoscrisse senza troppi indugi, era un documento in cui le tesi
annessionistiche jugoslave venivano avallate; atteggiamento questo, che oltre a
denotare un’irresponsabile permeabilità politica del PCI nella questione
confinaria riguardante il proprio Paese, poneva i comunisti italiani in
posizione nettamente subalterna rispetto ai quadri jugoslavi. Il punto di
appoggio che rese quanto mai convincenti le tesi jugoslave, fu individuato
nella possibilità di “guadagnare posizioni in vista del futuro confronto con le
potenze capitaliste e sembrava schiudere ai comunisti italiani [...] la
possibilità di superare le limitazioni politiche altrimenti imposte dalla
presenza anglo-americana”[71].
Per lenire la gravità dell’atteggiamento
remissivo dimostrato da Bianco con il suo incauto comportamento, “La nostra
lotta”[72]
del 17 ottobre 1944 pubblicò un articolo intitolato “Saluto ai nostri amici ed alleati jugoslavi” che giudicava la
venuta dei partigiani comunisti jugoslavi “come
una grande fortuna per il nostro Paese” e suggeriva poi di “accogliere i soldati di Tito non solo come
dei liberatori [...] ma come i fratelli maggiori che ci hanno indicato la via
della rivolta [...] e come creatori di nuovi rapporti di convivenza e di
fratellanza [...] tra tutti i popoli”[73].
Sono parole che all’epoca forse potevano
essere interpretate diversamente perché diverso e più intricato era il quadro
politico nella Venezia Giulia, tuttavia oggi appaiono deliranti al cospetto di
quello che hanno avuto a subire gli italiani giuliani e istriani che non hanno
saputo “festeggiare” l’arrivo dell’esercito di Tito nelle loro città.
Anche il segretario del PCI Togliatti non
fu esonerato dalla reticenza di partito che dilagava tra i quadri giuliani in
quel momento; oscillava come un metronomo tra la strategia dell’unità nazionale
con cui si presentava a Roma e l’occupazione jugoslava dei territori giuliani,
che andava certamente sostenuta e incoraggiata senza “se” e senza “ma”. Quando
però veniva posta la delicatissima questione dell’annessione della regione allo
stato jugoslavo il metronomo togliattiano si immobilizzava come un ago della
bilancia, emblema di un opportunismo politico che voleva trovare giovamento sia
in Italia e sia agli occhi di Tito. Soltanto quando Stalin lasciò intuire di
non voler insistere eccessivamente per Trieste (fine aprile 1945), il
segretario del PCI poté condannare in pompa magna l’occupazione di Trieste da
parte delle truppe jugoslave, ma ormai tale iniziativa assumeva i contorni di
una grande beffa nei confronti della popolazione giuliana, caduta nelle mani
degli occupatori titini nel maggio del ’45.
Oltre alla linea camaleontica di
Togliatti pesò poi il fatto che tra agosto e novembre del ‘44 furono arrestati
dai nazifascisti Luigi Frausin e Vincenzo Gigante, principali esponenti della
federazione triestina del PCI, i quali avevano intelligentemente mantenuto le
distanze dalla proposta di fondere il partito comunista italiano con quello
sloveno, riconoscendo e avvalorando il ruolo di estrema importanza che poteva
avere il CLN di Trieste in quel periodo. Orfano della sua solida dirigenza
politica, il PCI triestino sbandò rovinosamente, venendo così fagocitato
dall’ingerenza del partito comunista sloveno. Quest’ultimo ottenne il controllo
delle strutture politico-militari del PCI già alla fine dell’anno, ben
consapevole dell’appoggio incondizionato che avrebbe incassato anche da parte
della classe operaia monfalconese e triestina.
Il proletariato industriale giuliano
infatti, non poteva desiderare niente di meglio che vedere la propria area di
residenza inclusa nel progetto socialista di Tito. A consolidare tale posizione
ci pensavano poi la tradizione internazionalista della classe operaia giuliana
e il mito della grande Jugoslavia, un paese che con invidiabile astuzia di
propaganda si presentava come l’incarnazione del sogno di libertà di ogni uomo:
lo stato plurinazionale socialista era un’immagine appetitosa che i vertici
slavi seppero confezionare ad hoc.
Tuttavia anche coloro che riposero grande fiducia ed entusiasmo in tale
progetto si ricrederono in breve tempo: quella non era la realizzazione del
sogno democratico, ma la mela avvelenata di un nascente regime a guida
comunista.
Alla fine del 1944 il PCI triestino si sganciò
dal CLN locale per sintonizzarsi politicamente con il MPL, intraprendendo così
una resistenza filo-jugoslava che si allineava alle tesi annessionistiche del
maresciallo Tito riguardanti la Venezia Giulia. Tale decisione determinò la
spaccatura dell’esperienza resistenziale italiana nella regione, scissa al suo
interno da discriminanti ideologiche che incideranno pesantemente sulle sorti
del confine nord-orientale italiano.
3.2 LA CRISI GIULIANA NEL NUOVO CONTESTO
INTERNAZIONALE
L’occupazione jugoslava dell’intera
Venezia Giulia avvenuta nella primavera del 1945 innescò una spirale di
violenza inaudita, che colpì senza fare sconti soprattutto la popolazione
giuliana; l’espansionismo jugoslavo puntava a sviluppare una politica di potere
infarcita di nazionalismo e di ideologie rivoluzionarie che avrebbero
rovesciato rapidamente tutto il sistema politico-economico dell’area
alto-adriatica.
Furono settimane di agonia per città come
Trieste, Gorizia, Pola e Fiume, ma anche per tutte le altre zone poste sotto il
diretto controllo delle autorità slave, inflessibili nell’applicare in modo
maniacale le direttive che giungevano dai ranghi più alti del PCJ.
Nel caos totale diffuso tra la gente in
quel periodo arrivò una boccata d’aria fresca quando fu siglato l’Accordo di
Belgrado con cui la regione veniva sostanzialmente divisa in due: nella Zona A
si insediò il GMA con sovranità su Gorizia, Trieste e Pola e nella Zona B si
protrasse l’occupazione effettiva da parte di un governo militare jugoslavo:
l’accordo tra alleati e jugoslavi entrò in vigore dal 12 giugno 1945. Nella
zona in cui si confermava la sfera d’azione dell’esercito jugoslavo il filo
conduttore dell’amministrazione titina restava inequivocabilmente quello della
repressione, unico mezzo che poteva garantire l’affermazione del progetto
annessionistico e l’instaurazione di un regime totalitario a guida comunista,
in grado di non lasciare alcun spazio di manovra a eventuali progetti
“collaterali”, che andavano troncati sul nascere. Per vero l’italianità
adriatica giuliana e dalmata non erano assolutamente progetti inediti su quei
territori, e questo i vertici jugoslavi lo sapevano bene: “se anche essere
etnicamente italiani di per sé non veniva considerato una colpa, essere
politicamente filoitaliani lo era senz’altro”[74],
poiché implicava l’opposizione naturale alle pretese croate e slovene sulla
Venezia Giulia.
Certo è che a sloveni e croati
anticomunisti (e non ce n’erano pochi [N.d.A.]) non era riservato un
trattamento più soft rispetto agli italiani che con loro condividevano
l’avversione al nuovo ordine; ma ciò non può trascendere da una verità
oggettiva, e cioè che ad essere perseguitate e successivamente eliminate
nell’area giuliana furono in massima parte persone di sentimenti italiani,
colpevoli di incarnare quell’italianità adriatica che nulla aveva a che vedere
con la sardonica fratellanza italo-slava.
Intanto prendeva sempre più forma e
sostanza in Europa il nuovo assetto geo-politico internazionale conteso tra
Stati Uniti e URSS, tra capitalismo occidentale e comunismo sovietico, tra due
blocchi contrapposti che finiranno per inghiottire anche la questione
confinaria italo-slava nelle logiche della guerra fredda. Nella Venezia Giulia
il 13 agosto1945 nacque il Partito Comunista della Regione Giulia (PCRG), la
cui linea era di fatto pilotata dal KPS; non è un caso che il 24 settembre i
vertici del nuovo partito si espressero favorevolmente per l’annessione
dell’intera regione alla nascente Jugoslavia socialista. La politica annessionista
jugoslava si perpetuò in tutta la zona di sua competenza, specie in Istria
quando a novembre si svolsero le prime elezioni amministrative: qui le liste
elettorali furono presentate in toto
dall’UAIS, ed erano tutte di chiaro orientamento pro-jugoslavo.
3.3 I NEGOZIATI DI PACE E LA FIRMA DEL TRATTATO A
PARIGI
La fine del secondo conflitto mondiale
catapultò il problema della definizione del nuovo tracciato confinario
italo-slavo sui tavoli delle trattative di pace a Parigi. Nell’Italia
post-bellica stentava a realizzarsi la consapevolezza che la guerra era stata
perduta, e che l’esperienza della Resistenza e della cobelligeranza con gli
Alleati dopo l’8 settembre rappresentavano un fenomeno piuttosto circoscritto,
con un significato più simbolico che concreto. Nella coscienza antifascista che
andava affermandosi nelle istituzioni italiane del dopoguerra si pensava che le
colpe del fascismo fossero state espiate dallo sforzo bellico invertito dopo
l’armistizio; tuttavia ciò che non riusciva al ricostituendo stato italiano era
comprendere più obiettivamente le tragiche conseguenze che sarebbero scaturite
dalla sconfitta militare: le avventure belliche del fascismo italiano e gli
errori commessi durante il conflitto si sarebbero ritorti a tradimento contro la nuova realtà
democratica del paese, come un boomerang scagliato con violenza che ritorna
indietro e non trova più lo stesso padrone lì ad aspettarlo.
E’ per questo che il Trattato di Parigi
altro non fu che “la conclusione della sconfitta”[75]
iniziata a maturare con la “catastrofica avventura”[76]
della guerra a fianco della Germania nazista. Peraltro il governo De Gasperi
non poteva offrire nessuna contropartita nei negoziati, dal momento che
l’Italia dopo l’8 settembre non costituiva più alcun soggetto di politica
estera.
Dopo gli sconvolgimenti del Ventennio,
l’incubo della guerra e l’occupazione jugoslava alla fine del conflitto, che
avevano visto transitare nella Venezia Giulia una moltitudine di eserciti
portatori di ideologie contrapposte, era evidente che tracciare un confine tra
Italia e Jugoslavia in quel momento implicasse tutta una serie di
complicazioni, prima fra tutte la distribuzione delle varie etnie sul
territorio, tuttaltro che omogenea e lineare. Ecco perché il Consiglio dei
ministri degli Esteri nominò la Commissione quadripartita (Francia, Gran
Bretagna, USA e URSS) affinché svolgesse un’attenta attività di ricognizione
nazionale all’interno della Venezia Giulia: lo scopo era quello di discernere
il reale assetto demografico dei vari gruppi nazionali che vivevano sul
territorio della regione, per poter poi congetturare delle soluzioni plausibili
alla vertenza confinaria italo-slava.
Così tra marzo e aprile del 1946 la
Commissione visitò la Venezia Giulia; se da una parte l’attività svolta sfiorò
il grottesco (fu visitata persino Cividale, città italiana sin dal 1866),
dall’altra innescò l’inasprimento delle violenze nei confronti della componente
italiana che abitava i territori della Zona B sotto amministrazione jugoslava.
Pressioni di ogni tipo, vessazioni, intimidazioni e soprattutto un’ulteriore
ondata di violenza si abbatté sugli italiani della Zona B, ai quali fu
tassativamente imposto il divieto di manifestare i propri sentimenti nazionali
all’arrivo della Commissione. E’ difficile rendersi conto oggi, quanto
compromettente potesse essere per una persona in quel frangente indossare un
drappo tricolore, sventolare una bandiera, pronunciare i versi dell’inno di
Mameli o più semplicemente manifestare spontaneamente la propria identità nazionale.
Gesti così scontati oggi apparirebbero talvolta banali, forse anacronistici,
del tutto innocui; ma in quel momento avrebbero compromesso l’incolumità stessa
di chi si poneva inviso alle autorità jugoslave che presidiavano la Zona. Si
intensificò inoltre la campagna di propaganda a favore dell’annessione di tutta
la Venezia Giulia alla Jugoslavia, in un’atmosfera iniqua in cui soltanto un
giocatore poteva muoversi liberamente nel campo, soggiogando di fatto le mosse
dell’altro.
La soluzione di compromesso che ne uscì
gettò nel panico totale la popolazione giuliana di sentimenti italiani: il 2
luglio 1946 vennero rese note le decisioni prese a Parigi dalle potenze alleate
circa la nuova delimitazione dei confini italo-jugoslavi. Il verdetto fu una sorta
di castigo per l’Italia, che perdeva la sua sovranità territoriale su gran
parte della regione. L’Istria veniva praticamente ceduta in blocco alla
Jugoslavia con l’aggiunta di Pola (città molto più italiana di Bolzano o Aosta
[N.d.A.]); stessa sorte toccò al Quarnaro con le sue isole di Cherso e di
Lussino, patrimonio inestimabile dell’italianità adriatica insieme alla città
di Fiume, anch’essa passata sotto la Jugoslavia di Tito. Il nuovo confine aveva
poi letteralmente falciato gli entroterra di Trieste e di Gorizia, non più
appartenenti allo stato italiano. Per quanto riguarda Trieste, le trattative si
impantanarono di fronte alle inamovibili pretese jugoslave sul capoluogo
giuliano, nonostante fosse chiaro anche agli angloamericani che il ruolo della
città e del suo litorale nell’Alto Adriatico era assolutamente strategico nel
contesto geo-politico della “cortina di ferro”. Così fu escogitata
l’internazionalizzazione dell’area attraverso la costituzione del Territorio
Libero di Trieste (TLT), una porzione di territorio che comprendeva la città e
una stretta fascia costiera compresa tra Duino e la linea di demarcazione del
fiume Quieto. L’intento era quello di affidare la sua gestione alle Nazioni
Unite per garantirvi un’adeguata tutela internazionale che tenesse a freno le
smanie annessionistiche jugoslave, voracemente impegnate in un’irriducibile
pressione diplomatica volta all’inglobamento della città nel nuovo sistema
comunista slavo. Si tentò di nominare un Governatore neutrale per il TLT, ma il
nascente bipolarismo internazionale rese sostanzialmente impossibile operare
una scelta arbitraria, e quindi lo stato libero progettato rimase soltanto
sulla carta.
All’Italia rimase ben poco; soltanto
Gorizia e il Monfalconese furono restituite alla Madrepatria, in una logica di
ripartizione territoriale che doveva in qualche modo riflettere l’operato
bellico delle parti: nonostante la Resistenza e la cobelligeranza con gli
Alleati degli ultimi mesi di guerra, l’Italia era considerata un paese
“sconfitto e aggressore”, la nascente Jugoslavia era un paese “vittorioso e
aggredito”, poco importava che per imporre la propria autorità il MPL di Tito
aveva trascinato il Regno di Jugoslavia in una sanguinosa guerra civile in cui
si affrontarono partigiani comunisti, cetnici, domobrani, belagardisti e
ustascia; importava ancora meno che Tito avesse occupato alla fine della guerra
tutta la Venezia Giulia, deportando e uccidendo barbaramente tutti i suoi
oppositori, vittime di una feroce violenza politica impartita dall’alto.
Insomma, ai tavoli delle trattative di pace si era imposto autorevolmente un
approccio più dogmatico che diplomatico, in cui l’Italia non riuscì a rendere
efficace la propria diplomazia, ininfluente al cospetto delle potenze
vincitrici della II guerra mondiale, giudici supremi e inappellabili sulla
questione giuliana.
Quando poi si pensò all’ipotesi di un
plebiscito come consultazione democratica della popolazione giuliana affinché
essa potesse esprimere liberamente la propria appartenenza statuale, si
registrarono attriti da entrambe le parti. Gli jugoslavi protestarono
vivacemente considerando il plebiscito elettorale come una formula di
consultazione eccessivamente “borghese”, non idonea quindi al regime
rivoluzionario di Tito; per questa ragione i vertici comunisti jugoslavi
rigettarono la proposta contrapponendo ad essa il “plebiscito di sangue”:
questa espressione voleva rivendicare l’allineamento di gran parte delle masse
popolari che avevano infoltito la Resistenza giuliana al programma annessionistico
del MPL, dimostrando perciò che un’ulteriore consultazione popolare non era
necessaria. Ma neanche a Roma l’ipotesi del plebiscito venne accolta con
euforia, visto che nell’area giuliana non era garantibile la legalità
procedurale dell’eventuale consultazione, e quindi neanche il suo esito sarebbe
stato scontato. L’autorizzazione a procedere avrebbe significato un’ulteriore
recrudescenza delle violenze cui gli italiani erano sottoposti da parte
jugoslava nei territori contesi. Insomma, per dirla con Pupo “vincolare la
politica estera italiana alla logica del plebiscito avrebbe significato
scontare una catastrofe certa in Alto Adige in cambio di un risultato incerto
nella Venezia Giulia”[77].
Accantonata l’ipotesi del plebiscito, si arrivò così alla firma del Trattato di
pace che avvenne a Parigi il 10 febbraio 1947. L’accordo sanciva la cessione
delle intere province di Pola, Fiume e Zara, delle isole della costa dalmata e
dell’arcipelago del Quarnaro, più l’entroterra delle città di Gorizia e
Trieste. Per quest’ultima si sanzionò la costituzione del Territorio Libero di
Trieste, con la “Zona A”[78]
sotto amministrazione alleata e la “Zona B”[79]
sotto il controllo dell’Armata jugoslava del maresciallo Tito.
In conseguenza della firma del Trattato
di Parigi quasi tutta l’Istria veniva ceduta alla Jugoslavia, così come le
importanti città di Pola e Fiume, principali capisaldi dell’italianità
giuliana; Zara era già stata distrutta durante lo svolgersi del conflitto, con
le famose 54 incursioni aeree degli Alleati che la ridussero a un cumulo di
macerie (solo Dresda fu bombardata di più durante la II guerra mondiale).
Forse, agli occhi delle grandi potenze mondiali un “neo” di indiscutibile
italianità circondato da una fascia di territorio considerata già di pertinenza
slava, risultava alquanto scomodo nella ridefinizione dei confini
italo-jugoslavi, che si sarebbero spostati molto più a nord.
Come vedremo, centinaia di migliaia di
italiani che abitavano nei territori ceduti alla Jugoslavia con il Trattato di
pace, lasceranno per sempre la propria residenza, dando luogo a un esodo
massiccio che si protrarrà per quasi dieci anni nella Venezia Giulia
riverniciata in tinta jugoslava. La convenzione stipulata entrò a tutti gli
effetti in vigore il 16 settembre 1947, data della proclamazione ufficiale
dell’annessione alla Jugoslavia dei territori ceduti dall’Italia.
Successivamente i nuovi “gestori” della vita pubblica in suddette zone vi
applicarono le leggi jugoslave e recisero i nuovi confini, isolando
completamente la popolazione italiana dalla Madrepatria. L’articolo 19 del
trattato di pace prevedeva l’esercizio del diritto di opzione per la
popolazione giuliana che si era ritrovata nello stato jugoslavo senza volerlo:
si trattava di una clausola che offriva a coloro che lo volessero la
possibilità di optare per la cittadinanza italiana trasferendosi nella
Madrepatria, abbandonando beni e proprietà appartenute per generazioni.
3.4 LA GESTIONE JUGOSLAVA DELLA ZONA “B”
La firma del Trattato di Parigi inaugurò
nell’area giuliana una nuova stagione di crisi dalle sembianze più
politico-diplomatiche che militari: Trieste, perla dell’Adriatico e grande
emporio marittimo, si ritrovò al centro di una fune, tirata a ovest dall’Italia
che ne rivendicava la sua naturale pertinenza nazionale e ad est dalla
neo-costituita Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia (RFPJ), che non
aveva ancora rinunciato al coronamento del proprio sogno annessionistico
intarsiato nel progetto rivoluzionario di Tito. Dopo i negoziati di pace non
era stato possibile trovare un punto di contatto tra le pretese jugoslave e la
linea di De Gasperi, per nulla intenzionato a decidere le sorti del Territorio
Libero di Trieste secondo una logica di spartizione lungo la linea Morgan, ovvero di rinuncia da
parte italiana alla sovranità territoriale sulla Zona B occupata dal Governo
militare jugoslavo (VUJA) in cambio della contropartita sulla Zona A
amministrata dal Governo militare alleato (GMA).
Oltretutto, a chi volesse credere che la
violenza jugoslava della primavera del ’45 si fosse estinta con l’Accordo di
Belgrado purtroppo è necessario ribadire il contrario. Vero è che nella Zona A
si poté ripristinare una soglia minima di normalità con l’insediamento delle
autorità alleate, permettendo alla popolazione civile di riprendersi dal trauma
causato dai quaranta giorni di occupazione titina. Per contro, nella Zona B i
“poteri popolari” continuarono a costruire le prerogative necessarie alla
futura annessione di quei territori alla Jugoslavia. Le autorità civili jugoslave
lavorarono alacremente sulla repressione di massa per ghermire sul piano
politico un consenso popolare che non sarebbe mai arrivato, giacché la
maggioranza schiacciante dei residenti italiani non abbandonò la speranza di
poter, un giorno, riabbracciare l’Italia, almeno fino alla prima metà degli
anni Cinquanta. A sostegno di questo dato si rammenti che tra agosto e
settembre del ’45 le autorità jugoslave promossero sul territorio della Zona B
una raccolta di firme in favore dell’annessione, rimediando un risultato
davvero imbarazzante che ne comprovava la totale avversione da parte della
cittadinanza in blocco: “Capodistria e Pirano sono chiaramente contro di noi, e
il peggio sta nel fatto che il circondario sloveno non è abitato in maniera
uniforme”[80]; questo
commento restituisce inopinabilmente l’immagine agonizzante della Zona B: a
Capodistria, Pirano, Umago, Isola e Cittanova si respirava il clima
intimidatorio dei “poteri popolari” che tentavano instancabilmente di inculcare
nella popolazione locale la linea annessionista, puntualmente rigettata
nonostante l’esercizio della violenza sui residenti. Questa fu la strategia
utilizzata anche a Capodistria quando il 30 ottobre 1945 fu proclamato lo
sciopero generale a suffragio, per contestare l’introduzione nella Zona B della
“Jugolira”, una nuova valuta che danneggiava gravemente l’economia locale e
boicottava di fatto gli scambi commerciali con la Zona A. Rabbiosa la reazione
dei vertici comunisti slavi, che per ripristinare la “volontà del popolo” mobilitarono
il contado sloveno, facendolo affluire in città e aizzandolo strumentalmente
contro i capodistriani per soffocare la protesta nel sangue. La repressione fu
immediata e durissima, e non mancarono morti e feriti.
L’esasperato nazionalismo sloveno era ben
conosciuto persino all’interno delle sezioni locali del PCRG, che furono
adeguatamente purgate da tutti gli elementi che si opponevano all’annessione.
Furono sciolte le sezioni di Buie, Capodistria e Pirano, suscitando lo sdegno
degli stessi comunisti italiani. Quanto alla sistematica politica di
epurazione, si può dire che i meccanismi di repressione erano stati studiati
capillarmente per poter scovare anche la più latente forma di dissidenza contro
i nuovi poteri: per essere fascisti era sufficiente aver “[...] operato contro
il popolo svolgendo attività culturale, economica o di qualsiasi altro genere”[81].
Si trattava di un’epurazione senza precedenti che colpiva i ceti medi
(commercianti, insegnanti, e impiegati) e addirittura il proletariato di ispirazione
democratica: praticamente “si sparava sulla croce rossa”. Era evidentemente una
strategia epurativa più politica che etnica, volta a eliminare la
filo-italianità del territorio per assumerne definitivamente il controllo,
ovvero la premessa sostanziale per l’annessione.
Ad acuire lo scontro politico contribuì
l’arrivo della Commissione interalleata nella primavera del ’46; a quel punto
la propaganda pro-Jugoslavia raggiunse toni solenni. i “poteri popolari” e i
manifestanti filo-jugoslavi inscenarono azioni dimostrative falsate in
partenza: innanzitutto era una sceneggiatura viziata dal fatto che alla
componente italiana era vietata qualsiasi forma di manifestazione pubblica dei
propri sentimenti nazionali; come se ciò non fosse già abbastanza determinante,
si inneggiò alla contrapposizione ideologica tra le uniche due categorie
politiche contemplate dagli occupatori: i “democratici”, ovvero i
fiancheggiatori del regime jugoslavo, e i “fascisti”, le cui prerogative
politiche non erano nemmeno prese in considerazione.
In effetti soltanto attraverso questi
brogli e queste manomissioni i “poteri popolari” potevano mettere la museruola
alla vocazione inequivocabilmente italiana della Zona B. Ci riuscirono con
l’utilizzo combinato del terrore e della propaganda annessionista, unici
strumenti in grado di generare artificialmente un consenso che nella realtà non
sussisteva affatto. Ciò che invece trapelava dalle masse inermi di italiani era
uno stato di frustrazione dovuto all’impossibilità di manifestare la propria
inamovibile contrarietà all’annessione. Un’avversione più che giustificabile
anche in base alle trasformazioni economiche che il regime jugoslavo stava
implementando sul territorio: nel settore agricolo crebbe notevolmente il
controllo e la gestione da parte dei nuovi poteri delle proprietà terriere,
scaturendo la disapprovazione dei contadini istriani; anche nel mercato ittico
e nell’industria conserviera aumentarono le limitazioni, danneggiando così
l’impiego e riducendo gli scambi commerciali; nell’industria locale si verificò
una crisi senza precedenti, con licenziamenti a tappeto degli operai e il
trasferimento dei mezzi di produzione in Jugoslavia deciso dalle autorità. La
crisi economica della Zona B dilagava e scontentava un po’ tutti, spingendo ad
assumere “una posizione fortemente critica nei confronti della strategia
attuata dalla dirigenza politica jugoslava”[82].
3.5 LA DIFFICILE SOLUZIONE DELLA CRISI PER TRIESTE
L’evoluzione della situazione
geo-politica su scala mondiale ebbe la sua eco anche sulla crisi giuliana, che
conobbe un prolungamento insperato per la sua soluzione finale. Nell’estate del
1946 si prospettò la nascita di uno stato cuscinetto che avrebbe dovuto
frapporsi tra l’Italia e la Jugoslavia, abbracciando Trieste e la sua pertinenza
costiera da Duino sino al fiume Quieto. Tuttavia, il mutare della situazione
internazionale tra l’estate del ’46 e l’autunno del ’47 aveva compromesso
irrimediabilmente la nascita del TLT, e la gestione del suo territorio mantenne
l’assetto precedentemente stabilito: Zona A sotto amministrazione degli Alleati
(GMA) e Zona B alle dipendenze del Governo militare jugoslavo (VUJA).
La guerra fredda era cominciata e la
politica statunitense del containment
faceva di Trieste un punto nevralgico di vitale importanza per gli equilibri
geo-politici europei; intanto però la Jugoslavia non rimase certo a guardare,
forte delle sue aspettative espansionistiche che avrebbero potuto trovare il
massimo giovamento con l’annessione del capoluogo giuliano allo stato
socialista. Di questo rischio erano consapevoli sia Washington che Londra,
motivate a mantenere nell’Alto Adriatico la loro presenza militare e convinte
della fragilità del TLT di fronte all’ingerenza sovietica nell’Europa
centro-meridionale. Fu questo genere di preoccupazioni che spinse i governi
angloamericani a bloccare la nascita del Territorio Libero sul finire del 1947,
preferendo usare l’arma della prudenza con il mantenimento dello status quo. Il consolidamento della
presenza alleata nella Zona A infatti garantiva un livello di impermeabilità
sufficiente contro l’infiltrazionismo comunista jugoslavo, bramoso di rivolgere
la propria influenza ad ovest, in particolare in Italia.
Per vanificare la costituzione dello
Stato libero di Trieste, i governi di Stati Uniti e Gran Bretagna impedirono di
fatto la nomina del suo governatore in seno al Consiglio di sicurezza delle
Nazioni Unite, inaugurando una politica estera piuttosto reticente nei
confronti dell’Italia, completamente all’oscuro dell’iniziativa diplomatica
angloamericana. Anche gli italiani della Zona B erano estranei ai giochi di
potere messi in atto dalle due potenze occidentali, e continuarono ignari ad
agognare l’internazionalizzazione dell’area, che perlomeno avrebbe messo fine
alla violenza politica cui erano incessantemente sottoposti per mano dei
“poteri popolari”.
In questo clima di tatticismi occulti si
arrivò alla dichiarazione tripartita del 20 marzo 1948 con cui Stati Uniti,
Gran Bretagna e Francia annunciarono la loro intenzione di rimettere all’Italia
la sovranità sull’intero Territorio Libero di Trieste, rimettendo in gioco
anche le sorti della Zona B. Questa manovra rientrava negli obiettivi di
politica estera del blocco occidentale e aveva dei propositi ben precisi: in
primo luogo, un annuncio del genere espresso alla vigilia delle elezioni
politiche italiane metteva un’ipoteca abbastanza preponderante sull’esito delle
consultazioni del 18 aprile in Italia, incentivando la scelta occidentale dell’elettorato
italiano e manifestando l’appoggio ai partiti di Governo. Inoltre la Nota
Tripartita lanciava un segnale positivo all’Italia, facendo auspicare la scesa
in campo delle potenze alleate per la difesa dei propri interessi nazionali
nella Venezia Giulia; ma allo stesso tempo la Nota lanciava un altro tipo di
segnale all’Unione Sovietica: questa non avrebbe avallato la proposta degli
occidentali in quel momento, ma certo è che il rifiuto sovietico avrebbe
consentito agli Alleati da una parte di confermare la propria presenza a
Trieste secondo la logica del containment,
dall’altra li avrebbe posti in una posizione negoziale superiore, rispetto
all’avversario, nelle trattative ormai inevitabili per la spartizione
territoriale del TLT. Infine, la dichiarazione tripartita faceva ben sperare il
governo italiano circa la possibilità di rimettere mano al trattato di pace, in
un’ottica di revisione dei negoziati e di rettifica dell’assetto confinario
italo-jugoslavo. Sulla base di queste nuove aspettative della politica estera
italiana si riattizzò la speranza che l’Istria sarebbe potuta tornare alla
Madrepatria, invaghendo gli italiani ivi residenti a resistere stoicamente
all’oppressione jugoslava, quasi si trattasse di un sacrificio degno della
posta in gioco.
Durò davvero poco l’illusione, perchè la
rottura tra Tito e Stalin avvenuta nel giugno dello stesso anno ebbe delle
conseguenze molto rilevanti anche nella crisi giuliana: con la risoluzione del
Cominform[83] il regime
di Tito veniva accusato di deviazionismo ideologico dalle direttive generali
del mondo internazionalista, e il PCJ fu espulso dall’assemblea dei partiti
comunisti. Veniva meno dunque il temuto pericolo sovietico sul versante
italiano, e questo determinò un cambiamento di rotta degli Alleati sulla
questione del Territorio Libero.
Molti comunisti italiani e slavi che
avevano in passato aderito alle tesi di Tito si allinearono prontamente con le
direttive cominformiste di Stalin, generando un’altra ondata di repressione
politica dall’alto verso i dissidenti al partito comunista jugoslavo. Furono
arrestate migliaia di persone che finirono in campi di concentramento
attrezzati per la “rieducazione persuasiva” alla linea nazional-comunista del
maresciallo Tito; queste strutture non avevano proprio niente da invidiare ai
lager nazisti quanto alle atrocità delle sevizie che subivano i malcapitati,
soggetti a torture e angherie difficilmente riconducibili a una mente umana.
Sfumarono tutti i buoni propositi della
Nota Tripartita, e la solidarietà anglo-americana verso le rivendicazioni
italiane nell’area giuliana si sciolse come neve al sole. La posizione
dell’Italia si complicava nuovamente di fronte alla frattura tra Jugoslavia e
Unione Sovietica, mentre gli Alleati approntarono una politica estera volta
alla riconciliazione tra Roma e Belgrado. Intanto andava peggiorando la
situazione nella Zona B, dove l’azione snazionalizzatrice jugoslava verso gli
italiani si intensificò con l’inasprimento della repressione, costringendo
molte persone a lasciare la propria casa per cercare un riparo sicuro oltre la
linea Morgan.
Diverse le vicissitudini della Zona A,
dove nel giugno del 1949 si tennero le prime consultazioni elettorali cittadine
autorizzate dal GMA; anche grazie all’appoggio di Roma le elezioni si conclusero
con un “plebiscito di italianità”, ovvero con l’ottenimento della maggioranza
assoluta dei partiti filoitaliani. La risposta jugoslava arrivò l’anno
successivo, dopo che Tito ebbe consolidato il suo ruolo di guida assoluta nel
paese. L’obiettivo da raggiungere era quello di controbilanciare i risultati
elettorali della Zona A con un esito uguale e opposto nella Zona B, che avrebbe
accresciuto la legittimazione delle autorità jugoslave sul territorio e
accelerato il processo di annessione fredda dello stesso. Tastata la
sostanziale indifferenza degli Alleati alle misure repressive jugoslave attuate
nella Zona B, si cominciò nei primi mesi del 1950 a preparare l’evento
plebiscitario con le ormai collaudate tecniche “persuasive”. La propaganda
politica degli attivisti filo-jugoslavi cozzò contro la sostanziale
indifferenza della popolazione, esasperata da ormai cinque anni di sofferenze
ininterrotte. A quel punto la pressione politica deragliò prepotentemente in
atteggiamenti vessatori e intimidazioni, minacce di ogni tipo, interrogatori
indirizzati a determinate categorie di lavoratori considerate pericolose dai
“poteri popolari”; si condannava l’astensionismo come “propaganda reazionaria”
e si setacciavano le abitazioni dei cittadini per esercitare svariate forme di
violenza psicologica e fisica su di loro; con la forza coercitiva della “difesa
popolare” si ingiungeva alle persone l’obbligo di andare a votare.
In questa atmosfera infernale si giunse
al giorno delle consultazioni elettorali nella Zona B: 16 aprile 1950. Era
presente per l’occasione anche una delegazione di giornalisti per la stampa
occidentale; sin dalle prime battute si constatò che l’elettorato locale,
nonostante le intimidazioni subite, aveva deciso di esprimere il proprio
diniego al sistema di cose imposto dai nuovi venuti con l’unica arma a sua
disposizione, ovvero la mancata affluenza alle urne. Le autorità jugoslave,
rendendosi conto della situazione, corsero subito ai ripari: numerosi addetti
stampa furono assaliti, probabilmente perchè testimoni oculari del palese
insuccesso delle consultazioni popolari jugoslave. Un volta messi in fuga i
giornalisti che si ritirarono a Trieste, le autorità rastrellarono
capillarmente tutta la Zona B per costringere gli istriani ad affluire ai seggi con l’uso della forza. Ottennero così ciò
che volevano: il Fronte Popolare Italo-Slavo si aggiudicò infatti l’89,29% dei
suffragi; un risultato balordo raggiunto con la somministrazione di dosi
spaventose di terrore tra la gente, che non poté fare altro che sottomettersi
alla “volontà del popolo”. Era chiaro che rispetto alle elezioni tenutesi
l’anno precedente nella Zona A queste consultazioni avevano un significato
politico diametralmente opposto: se nella Zona A i cittadini avevano espresso
la loro ferma volontà di essere ricompresi nella compagine statuale italiana,
nella Zona B si riconfermò il binomio “rifiuto-repressione”[84]
tra la popolazione civile e le autorità jugoslave che occupavano il territorio,
impegnate a sopprimere sul nascere qualsiasi manifestazione di resistenza
passiva da parte degli italiani della Zona B.
La politica di snazionalizzazione dei
“poteri popolari” non solo causò la fuga di migliaia di persone terrorizzate
dall’ingerenza dei vertici comunisti sloveni, ma attuò in misura sistematica
una manovra correttiva sul riflusso di cittadini che abbandonavano le cittadine
istriane: per riempire il vuoto lasciato dagli italiani si escogitò un
ripopolamento integrale dell’area attraverso l’inserimento di elementi slavi
provenienti all’entroterra della Jugoslavia; tale operazione mutò gli equilibri
nazionali preesistenti nella Zona B, dove l’egemonia italiana aveva una
tradizione ultracentenaria. Tale politica si incastrava perfettamente in un
disegno che stava sconvolgendo la vocazione culturale, sociale ed economica
dell’area, riuscendo addirittura a infondere nei residenti un senso di
estraneità verso la loro terra, i cui connotati furono indelebilmente alterati
dai poteri rivoluzionari jugoslavi.
Quanto alla politica di epurazione delle categorie
professionali “reazionarie”, furono perseguitati in modo maniacale tutti gli
insegnanti e il clero cattolico che professavano sentimenti di italianità, in
quanto modelli esemplari di un modo di vivere e di sentire assolutamente non
conforme alla “volontà del popolo”. Diversi furono i sacerdoti martiri di
questa violenza punitiva che non s’impietosiva nemmeno dinnanzi alla figura
mansueta del religioso, considerato anzi “nemico del popolo”. Destò
particolarmente scalpore l’aggressione comminata nel giugno del ’47 a Monsignor
Santin, vescovo di Capodistria ed emblema rappresentativo della lotta politica
anticomunista a Trieste, nonché simbolo indiscusso dell’identità nazionale e
religiosa degli italiani della Zona B. Molti altri sacerdoti ebbero a subire la
rabbia acerba dei militanti comunisti, accanitamente impegnati
nell’eliminazione integrale del clero italiano dal territorio. Una persecuzione
che aveva anche l’obiettivo di intimare la scissione della diocesi di Trieste
da quella di Capodistria, nell’ottica di una separazione ormai netta tra la
Zona A e la Zona B del Territorio Libero. Per quanto riguarda l’intromissione
dei “poteri popolari” sull’istruzione, un dato su tutti: tra il 1950 e il 1953
furono chiuse moltissime scuole italiane in osservanza di quei principi di
stampo etnicista che discriminarono pesantemente la componente italiana; così
con il famigerato decreto “Perusko” del 1952, tutti gli studenti il cui cognome
poteva sottintendere anche lontanamente una qualche origine croata (magari
soltanto perché la sua desinenza terminava in “ich” [N.d.A.]) furono trasferiti
in blocco dalle scuole italiane a quelle croate. Ma il vero capro espiatorio
nelle scuole della Zona B era la classe docente, letteralmente messa in
ginocchio dalle minacce e dagli ultimatum delle autorità jugoslave. Gli
insegnanti erano perlopiù contrari a trasformare le lezioni didattiche in una
sorta di catechesi ideologica del regime nazional-comunista titino, e per
questo furono quasi tutti defenestrati dai “poteri popolari”.
Unendo il puzzle di tutti questi provvedimenti snazionalizzanti e persecutori
messi in atto dalle autorità jugoslave nei confronti della popolazione italiana
residente nella Zona B, si può ineccepibilmente parlare di “assedio
totalitario” dell’italianità giuliana, ormai fortemente compromessa e inibita
dalla macchina repressiva slavo-comunista.
Con questi gravi handicap accumulati durante la dominazione del regime di Tito, le
comunità italiane stanziate nella Zona B si avviavano verso l’ultima fase dell’annosa
crisi giuliana, quella che a partire dalla seconda metà del 1953 avrebbe
convogliato la vertenza diplomatica per Trieste verso la sua soluzione
definitiva.
I primi sintomi di allerta si fecero
sentire quando il 28 agosto 1953 la “United Press” diffuse un messaggio della
“Jugopress” enfatizzandolo un po’ troppo rispetto all’originale: il comunicato
annunciava che la Jugoslavia aveva “perso la pazienza” con l’Italia e che
avrebbe avuto intenzione di andare fino in fondo per quanto concerneva l’annessione
della Zona B. A quel punto il governo italiano reagì in maniera vibrante con
una dichiarazione di Pella: il 29 agosto il premier italiano dichiarò che se
queste erano le intenzioni di Belgrado, Roma avrebbe risposto subito con
l’occupazione della Zona A. Non erano soltanto buoni propositi, poiché per
dimostrare quanto l’Italia avesse preso sul serio il rischio dell’annessione
della Zona B alla Jugoslavia, Pella ordinò lo spiegamento di alcuni reparti
dell’esercito italiano in prossimità della linea confinaria. Lo stato di
allerta era concreto, e fu elaborato un piano militare denominato “Operazione
Delta”. Esso avrebbe dovuto consentire alle truppe italiane di entrare in
possesso della Zona A sfruttando l’effetto sorpresa, ma senza spargimenti di
sangue e senza l’uso della forza contro gli angloamericani, e soprattutto dando
per scontato un dato che non lo era affatto, ovvero che l’esercito jugoslavo
non sarebbe intervenuto. Il piano aveva esigue possibilità di funzionare, e
venne accantonato per tre motivazioni sostanziali: le preoccupazioni dei
vertici militari italiani non promettevano niente di buono in vista del blitz a
Trieste; gli alleati, che intanto erano venuti a conoscenza del progetto, erano
pronti a difendere l’integrità della Zona A; inoltre, da parte jugoslava arrivò
la smentita circa la volontà di annettere la Zona B in quel momento, e tutto
l’impianto di strategia militare elaborato da Roma sfumò già nei primi giorni
di settembre.
Ma non era questo che contava, bensì il
fatto che Roma avesse inviato un significativo segnale di discontinuità sulla
politica estera italiana. La virata di Pella era funzionale al cambio di marcia
nella partita per Trieste: ora l’Italia era fortemente intenzionata a
concentrare i propri sforzi diplomatici sull’ottenimento dell’amministrazione
della Zona A, sia per velocizzare la soluzione della vertenza confinaria con la
Jugoslavia e sia per acquisire de facto
la medesima posizione negoziale di Belgrado sul contenzioso, in quanto
l’occupazione jugoslava della Zona B poneva forti limiti all’azione diplomatica
italiana. Il messaggio di Pella raggiunse anche Washington e Londra, facendo
capire chiaramente agli Alleati le intenzioni di Roma: procedere nella
direzione della spartizione del Territorio Libero lungo la linea Morgan. In
fondo, anche Gran Bretagna e Stati Uniti si erano già convinti di questa
necessità; negli USA in particolare, con la nuova linea di Eisenhower agli
inizi del 1953 si era affermata la volontà di eliminare tutti gli intoppi che
potevano indebolire il containment
americano in Europa. Includendo anche la Jugoslavia nel sistema difensivo
occidentale si sarebbero rafforzati gli avamposti alleati contro il pericolo
sovietico, ma per ottenere questo risultato era necessario prima stabilizzare
la questione di Trieste lungo il confine di zona, e così fu inoltrata la
proposta a Belgrado e a Roma. Per i vertici jugoslavi tutto ciò era
contemplabile in ottemperanza a due condizioni: il carattere definitivo della soluzione confinaria e
la sua regia esterna, perché né l’Italia né la Jugoslavia volevano assumersi la
responsabilità della spartizione.
Il giorno 8 ottobre 1953 Stati Uniti e
Gran Bretagna, con una Nota Bipartita convennero sui seguenti tre punti: porre
fine al Governo militare alleato nella Zona A; ritirare le proprie truppe da
Trieste; affidare al governo italiano l’amministrazione della Zona A,
considerata la sua naturale pertinenza nazionale. Le reazioni furono molto
disparate: mentre l’Italia esultava per il “successo diplomatico” derivante dalla
sconfitta di Belgrado, il governo jugoslavo aveva forti dubbi sul carattere
definitivo della Nota Bipartita che così si esprimeva: “[...] Tuttavia non
verrà richiesto né al governo italiano né a quello jugoslavo di aderire
formalmente a questa interpretazione”. Ne conseguì che Tito si oppose con
fermezza al passaggio dell’amministrazione della Zona A all’Italia, minacciando
addirittura l’intervento armato. A Belgrado e a Zagabria si registrarono
manifestazioni di dissenso alla Nota Bipartita con attacchi alle sedi
diplomatiche alleate e italiane; In un clima di grande livore nei confronti di
“tutto ciò che è italiano” vennero eliminate tutte le scritte e le insegne
bilingui a Pola e a Fiume, con immediata soppressione del bilinguismo e con
l’entrata in vigore del divieto di utilizzo della lingua italiana sul posto di
lavoro.
Anche in Istria le conseguenze della
proclamazione della Nota Bipartita si fecero subito sentire: la regione fu
investita da una nuova ondata di violenza nei confronti degli italiani, e la
Zona B fu completamente isolata dalla Zona A con blocchi marittimi e terrestri.
Nonostante ciò, si verificò un consistente afflusso di profughi oltre la linea
Morgan già nelle prime settimane dopo l’esplosione della violenza. Del resto
gli attivisti dell’UAIS fecero irruzione nelle abitazioni dei cittadini
italiani per minacciarli e per intimare loro di lasciare la Zona B, pena la
scomparsa coatta per mano degli stessi fanatici militanti comunisti che
presidiavano il territorio. Tra “poteri popolari” e attivisti dell’UAIS vi era
una sorta di doppio gioco: le autorità jugoslave infatti, non intervenivano
esplicitamente sui cittadini accusati di sentimenti filo-italiani, poiché
bastava sostenere che non era possibile opporsi alla “volontà del popolo”, ossia
alla foga rivoluzionaria degli attivisti che terrorizzavano gli italiani prima
di consegnarli alle autorità jugoslave; a queste ultime non rimaneva
nient’altro che rilasciare ai disgraziati le “carte di emigrazione”. Sulla
scorta di quanto detto diversi gruppi di italiani della Zona B furono costretti
a esiliare. Il flusso delle partenze rallentò soltanto alla fine di ottobre,
quando appariva evidente che gli Alleati avrebbero rinunciato all’applicazione
della Nota Bipartita.
Frattanto, il sopraggiungere di tragici
incidenti verificatisi a Trieste nei primi giorni di novembre innescò una nuova
crisi. Durante le celebrazioni degli anniversari del 3 e del 4 novembre 1918,
avvennero degli scontri tra la polizia civile agli ordini di ufficiali inglesi
e l’enorme folla di manifestanti filo-italiani; il clima delle strade e delle
piazze andò in escandescenza quando il giorno dopo, nel mezzo di un tripudio di
italianità, le autorità alleate aprirono il fuoco sulla folla convinte che
fosse in corso un’azione sovversiva contro l’amministrazione angloamericana:
rimasero uccise due persone. Il giorno seguente la reazione popolare innescò
un’ulteriore spirale di violenza che lasciò a terra altre quattro persone.
Purtroppo l’eco degli eventi di Trieste non fece altro che impantanare ancora
di più il processo di risoluzione per la spartizione del TLT, e produsse
l’ennesima ondata repressiva sugli italiani della Zona B che si protrasse fino
a dicembre in una continua escalation
di violenza. Almeno 2750 persone furono costrette ad abbandonare il territorio
sotto occupazione jugoslava, mentre la crisi economica non risparmiava
praticamente nessuno.
Nel primo semestre del 1954 si aprì la
falla più sconfortante: maturò la certezza che il Territorio Libero sarebbe
stato spartito effettivamente lungo il confine di zona. Fu una doccia fredda
per tutti gli italiani che fino a quel momento avevano resistito
coraggiosamente alle sopraffazioni delle autorità jugoslave nella Zona B;
questa adesso sembrava allontanarsi inesorabilmente sempre di più da Trieste e
con soluzione definitiva. Tale convinzione ingrossò spaventosamente le fila
dell’esodo istriano, che assunse quindi dimensioni di massa. Cominciava
pertanto il “grande esodo” dalla Zona B che sarebbe rimasta alla Jugoslavia,
mentre si profilava la conclusione dell’estenuante disputa italo-jugoslava per
Trieste.
Il 5 ottobre 1954 a Londra fu
sottoscritto un memorandum d’intesa
tra i rappresentanti dell’Italia e della Jugoslavia, sotto la regia di Stati Uniti
e Gran Bretagna. In realtà si trattava di un accordo pratico che contemplava il
passaggio dell’amministrazione della Zona A dal GMA al governo italiano e di
quella della Zona B dalla VUJA al governo jugoslavo; tuttavia non implicava
necessariamente l’annessione delle rispettive zone al territorio nazionale dei
due contraenti.
Ancora una volta dunque, la soluzione
oscillava tra ambiguità e provvisorietà; erano almeno tre le buone ragioni per
crederlo: l’Italia, da un punto di vista prettamente formale, poteva pur sempre
sostenere che non vi era stata nessuna rinuncia sulla Zona B; la Jugoslavia
invece, era stata rassicurata circa la definitività della soluzione con dei
colloqui precedenti all’accordo; gli Alleati infine, dichiararono di non voler
accogliere più eventuali rimostranze inerenti il “nuovo” tracciato confinario.
Nonostante la riconquista della città di
Trieste, che poteva conferire all’accordo una qualche parvenza di successo
diplomatico per l’Italia, dietro la stipula del memorandum si celava una beffa
sconcertante per lo stato italiano; i suoi contenuti erano stati
preliminarmente accordati con dei negoziati segreti avvenuti nei primi mesi
dell’anno sempre a Londra tra le delegazioni delle tre potenze che occupavano
il TLT: USA, Gran Bretagna e Jugoslavia. L’Italia era stata clamorosamente
snobbata dalle trattative per il TLT, e quando i governi angloamericani
presentarono il pacchetto negoziale già confezionato a Roma, il governo
italiano si ritrovò spiazzato, e non poté fare altro che accettarlo.
L’opportunismo diplomatico jugoslavo
invece sfruttò fino all’osso il suo potere contrattuale, ottenendo preziose
rettifiche confinarie[85],
garanzie di tutela per la comunità slovena destinata a restare in Italia,
incentivi finanziari per rilanciare l’economia della Zona B e per costruire il
porto di Capodistria.
Il memorandum d’intenti prevedeva una
riapertura parziale del traffico locale di frontiera tra le due zone (art. 7),
ma gli scambi rimasero sostanzialmente paralizzati. Inoltre, molto importante
era lo statuto speciale allegato al memorandum per la tutela delle minoranze
nazionali rimaste nelle due zone; il regime nazional-comunista di Tito però non
si intenerì per niente, continuando a mantenere lo stesso atteggiamento
denigratorio nei confronti degli istriani di nazionalità italiana rimasti nella
Zona B. Dopo dieci anni di occupazione jugoslava, con la sua politica di
trasformazione integrale di tutti gli aspetti della vita quotidiana, i
cittadini italiani non riuscivano più a identificarsi in quel territorio,
radicalmente capovolto e oramai ostile.
Quando si seppe che il termine di
scadenza per l’esercizio del diritto di opzione era di un anno, aumentò
bruscamente la volontà di partire e di trasferirsi in Italia con i beni mobili.
A farlo furono moltissimi italiani ma anche diversi sloveni anticomunisti;
entrambi i gruppi nazionali erano insofferenti allo stato di cose generato dai
“poteri popolari” nell’area giuliana. L’unica alternativa alla sofferenza fu
l’esodo, ovvero il prolungamento della sofferenza per chi ormai aveva imparato
a conviverci durante l’occupazione jugoslava.
In realtà la questione di Trieste si
risolse in via ufficiale soltanto molti anni dopo, quando il 10 novembre 1975 i
governi di Italia e Jugoslavia siglarono il Trattato di Osimo. L’accordo
rendeva effettiva la rinuncia implicita dell’Italia alla sovranità sulla Zona B
del Territorio Libero di Trieste, scaturendo furiose proteste tra l’opinione
pubblica giuliana. Questa, già fortemente provata da un lungo dopoguerra di violenze
e iniquità verso la popolazione italiana dell’area, interiorizzò Osimo come il
marchio a fuoco di un’agonia destinata a rimanere nella memoria collettiva. Il
3 aprile 1977 entrò in vigore l’accordo, ponendo così definitivamente fine
all’odissea istriana, durata quasi trentacinque anni.
3.6 LA LUNGA DISPORA DEI GIULIANO-DALMATI
Il nodo più amaro della questione
giuliano-dalmata probabilmente è identificabile nell’esodo massiccio degli italiani
che ebbe inizio nel 1944 e si trascinò sino alla seconda metà degli anni
Cinquanta, riflettendo tragicamente la delicata congiuntura
diplomatico-militare che caratterizzò il lungo dopoguerra dell’Alto Adriatico.
In questo arco di tempo furono circa 300.000 le persone costrette ad
abbandonare i loro insediamenti storici in Dalmazia (soprattutto Zara), nel
golfo del Quarnaro (Fiume, Cherso e Lussino) e nella Venezia Giulia (Istria,
entroterra di Trieste e Gorizia), ovvero l’80-90% delle comunità italiane ivi
residenti.
Esiste innanzitutto un legame forte tra
questo fenomeno migratorio di massa e le stagioni di violenza cui erano state
sottoposte le comunità italiane nell’autunno del ’43 e nella primavera del ’45:
il ricordo delle foibe e di tutte le altre stragi jugoslave perpetrate
nell’area giuliano-dalmata negli anni Quaranta innescò tra la gente una
“psicosi d’assedio”, un pesante senso di precarietà, fisica e morale. Nella
memoria collettiva sia le foibe che l’esodo appartengono a un unico processo di
distruzione dell’italianità adriatica. Tuttavia è certamente l’esodo a
possedere il maggior spessore storico nella questione giuliano-dalmata, poiché
coinvolse moltissime persone e decretò l’espulsione del gruppo nazionale
italiano dal territorio di sua pertinenza storica e culturale. Tale fenomeno
causò una spaccatura nella storia dell’Alto Adriatico, e portò come soluzione
finale alla quasi cancellazione di una presenza antichissima: umana, sociale,
artistica e linguistica, patrimonio inestimabile di una civiltà che conobbe le
sue prime vicissitudini attraverso la romanizzazione.
E’ importante sottolineare che questa
tragedia non è stata esclusivamente il risultato dei conflitti nazionali
esistenti tra slavi e italiani, c’è molto di più di questo: nell’area
giuliano-dalmata si impose un processo di “semplificazione etnica” del
territorio, dove multiculturalità e plurilinguismo cedettero il passo al
sopraggiungere delle ideologie totalitarie del Novecento; l’affermarsi del
comunismo nazionalista di Tito inghiottì voracemente secoli di civiltà latina
lungo la sponda orientale dell’Adriatico, sottraendo a città intere la loro
fisionomia e la loro intelaiatura sociale preesistenti.
Gli italiani giuliani, quarnerini e
dalmati vennero espulsi da uno stato federale comunista, la Jugoslavia, le cui
pulsioni nazionaliste sfociarono in un sovraccarico ideologico sorprendente. A
fuggire dallo squilibrato progetto socialista jugoslavo fu pressoché un’intera
comunità nazionale, e i 300.000 esuli italiani dispersi nella Madrepatria e nel
resto del mondo[86]
giustificano appieno la volontà di definire questa migrazione massiccia con
l’espressione “esodo”, ovvero fuga di un popolo intero da una situazione di
pericolo o da una calamità.
Prima di analizzare le fasi salienti dell’esodo
giuliano-dalmata è opportuno prestare attenzione alle parole con cui Raoul Pupo
definisce la portata del fenomeno:
Alla partenza in blocco
degli italiani si saldò in maniera spesso indistinguibile quella di numerosi
elementi sloveni e croati, esasperati dalla durezza del regime comunista
jugoslavo e travolti dalla crisi in cui [...] precipitò l’intera economia
istriana[87].
La partenza di genti slave ostili ai
nuovi “poteri popolari” contribuì a rendere colossale il flusso emigratorio, un
esodo che durò più di dieci anni perché “frutto di spinte fra loro assai simili
ma impresse con ritmi diversi”[88].
La spinta fondamentale per le comunità italiane fu appunto quella di maturare
la certezza della cessione delle loro terre alla Jugoslavia. In questo senso
allora si potrebbe parlare anche di più esodi riconducibili allo stesso
fenomeno migratorio che coinvolse tutta l’area giuliano-dalmata.
Il primo flusso migratorio avvenne nel
1944 da Zara, allorché dopo i pesanti bombardamenti aerei angloamenricani che
distrussero la città dalmata furono sfollati via mare i suoi abitanti.
Nel dopoguerra la prima città che si
svuotò fu Fiume, saldamente occupata sin dalla primavera del ’45 dagli
slavo-comunisti, i quali attuarono una feroce politica persecutoria nei confronti
degli italiani con arresti, deportazioni, uccisioni e confische di beni ad
ampio raggio. Qui come altrove a fare la differenza fu l’ideologia comunista
intrisa di nazionalismo croato, che scoraggiò persino la classe operaia
italiana di orientamento comunista ad abbracciare la causa filo-jugoslava. Da
Fiume si registrarono partenze di massa sin dal 1946, e dopo che il trattato di
pace sancì l’effettivo passaggio della città alla Jugoslavia l’intera
popolazione fu coinvolta nella fuga. Ma mentre le masse di fiumani si
affrettavano a lasciare la loro città portandosi appresso poche masserizie,
accadde un fatto del tutto singolare e in controtendenza rispetto agli eventi.
Nei primi mesi del 1947 infatti, avvenne uno spostamento di persone nella
direzione opposta: duemila operai dei cantieri navali di Monfalcone partirono
per Fiume in cerca di un’occupazione, ma prima ancora vi andarono per fornire
il loro apporto alla costruzione del socialismo in Jugoslavia. Pensavano che in
fondo il socialismo slavo offrisse delle concrete opportunità di realizzazione
personale, un futuro insomma. Fu un’esperienza terribilmente traumatica e
umiliante, una parentesi drammatica che culminò quando, a seguito della rottura
Tito-Stalin, furono perseguitati e rinchiusi in veri e propri “gulag”; la loro
fede internazionalista li tradì amaramente, e chi riuscì a sopravvivere alle
torture dei campi di concentramento di Tito[89]
fece ritorno in Italia, dove subì la discriminazione dei connazionali indignati
dalla scelta compiuta. Comunque, l’avventura di quei duemila comunisti
monfalconesi è ricordata dalla storiografia con l’espressione piuttosto
eloquente di “controesodo”.
Tornando invece all’esodo
giuliano-dalmata, la città istriana che rappresentò per antonomasia la tragedia
dei profughi italiani fu Pola. Il capoluogo istriano era rimasto sotto
l’amministrazione alleata fino al 1947. Premesso che Pola era una città
italianissima, quando il 2 luglio 1946 i negoziati in corso a Parigi lasciarono
intendere la futura annessione della città alla Jugoslavia, molti dei suoi
abitanti cominciarono a pensare alla soluzione dell’esilio. Occorse poi un
fatto gravissimo, che fece maturare anche negli indecisi la convinzione di
doverla abbandonare: il 18 agosto 1946, mentre numerosi bagnanti affollavano la
spiaggia di Vergarolla nei pressi di Pola, la deflagrazione di 28 mine marine
posizionate nelle immediate adiacenze provocò una strage inimmaginabile. 65
morti e 54 feriti. Da successive indagini condotte da una commissione militare
britannica del GMA emerse che l’esplosione non poteva essere stata fortuita.
Per i polesani il truce episodio fu come un segnale intimidatorio: andarsene,
prima che sia troppo tardi. E infatti nel gennaio del 1947 ebbe inizio il
trasferimento in massa della cittadinanza grazie a delle motonavi messe a
disposizione dal governo italiano. Memorabili furono i viaggi del “Toscana”
verso i porti di Ancona, Venezia e Trieste, mentre la città si svuotava sempre
di più. Alla fine circa 29.000 polesani optarono per l’esilio, mentre soltanto
3.000 persone decisero di restare sotto la nuova amministrazione jugoslava.
Per quanto riguarda l’Istria orientale e
meridionale e in particolare le cittadine di Parenzo, Rovigno e Albona, anche
qui le fila dell’esodo si ingrossarono a dismisura.
In queste zone, già sottoposte
all’occupazione titina, furono le stesse autorità jugoslave a cercare di
attutire la gittata delle partenze con vessazioni, minacce e ritorsioni di ogni
tipo nei confronti degli italiani: questi vennero espulsi dal posto di lavoro,
sfrattati dalla propria residenza e soggetti a innumerevoli intimidazioni.
Gli jugoslavi frapposero formalmente una
moltitudine di ostacoli burocratici alla presentazione delle domande di
opzione, per poi respingerle pretestuosamente a loro discrezione. Il
comportamento esoso delle autorità verso gli optanti rifletteva una
preoccupazione di fondo: se ad andarsene era l’intero gruppo nazionale
italiano, depositario di tutte le competenze professionali superiori, questo
avrebbe danneggiato gravemente l’economia locale istriana. Tuttavia
l’ostruzionismo dei “poteri popolari” non fece altro che esasperare ancor di
più la popolazione italiana, innescando una reazione opposta a quella sperata:
la gente fu sempre più motivata a partire per liberarsi dal senso di
frustrazione e di insofferenza generato dai nuovi venuti.
La situazione appariva ancora più
angosciosa per i cittadini italiani della Zona B nella fascia costiera
nord-occidentale dell’Istria: Capodistria, Isola, Pirano, Buie, Cittanova e
Umago. Qui nella seconda metà degli anni Quaranta a causa della durezza delle
disposizioni del regime jugoslavo si verificò un flusso continuo di fughe verso
la linea Morgan, e non mancarono episodi particolarmente drammatici: il 20
febbraio 1949 un gruppo di dodici giovani istriani stava cercando di varcare
clandestinamente il confine di zona nei pressi di Piemonte d’Istria, ma una
pattuglia della polizia segreta jugoslava intercettò i fuggiaschi e con alcune
sventagliate di mitra li massacrò senza pietà. Nonostante il clima di terrore
percepito, la maggioranza degli italiani tentò di resistere a oltranza alle
angherie subite dall’occupatore, sperando che nel frattempo i negoziati per la
sorte del TLT prendessero la piega giusta.
Intanto il 23 dicembre 1950 i governi di
Roma e Belgrado sottoscrissero una serie di accordi bilaterali che sancivano la
riapertura dei termini per l’esercizio del diritto di opzione per la
cittadinanza italiana da parte dei residenti nei territori ceduti alla
Jugoslavia. Così l’11 gennaio 1951 fu riaperta l’accettazione delle nuove
domande di opzione; fino all’11 marzo seguente, termine fissato per la
scadenza, vennero presentate migliaia di domande.
La svolta nella Zona B arrivò tra la fine
del 1953 e l’inizio del 1954, quando fu chiaro che anche quel territorio
sarebbe andato alla Jugoslavia: a quel punto venne presa la decisione
collettiva di partire, che si consolidò con la stipula del Memorandum di Londra
del 5 ottobre. Il termine di scadenza fissato per l’esercizio del diritto di
opzione era di un anno, e questo scaturì un’ondata massiccia di partenze che in
poco tempo lasciò nella più totale desolazione le cittadine italiane della Zona
B. Partirono davvero tutti questa volta, persino i contadini istriani che mai
avrebbero voluto abbandonare i loro appezzamenti terrieri: l’esodo ormai aveva
raggiunto la sua dimensione integrale.
Il nodo dell’espulsione della componente
italiana dall’Istria non è stato ancora risolto. Ancora oggi ci si chiede se
alla base dei comportamenti persecutori delle autorità slavo-comuniste verso
gli italiani ci fosse stato un preciso disegno di espulsione dal territorio di
pertinenza. A smentire questa supposizione potrebbe essere eventualmente la
linea della “fratellanza italo-slava”. Secondo questo approccio della
questione, nell’immediato dopoguerra i poteri rivoluzionari si impegnarono “a
integrare nel nuovo stato comunista jugoslavo un gruppo nazionale italiano”[90]
avente delle caratteristiche assolutamente atipiche rispetto agli equilibri
nazionali preesistenti nella Venezia Giulia: numericamente ridotto ai minimi
termini, esautorato della sua egemonia economica nella regione e
meticolosamente epurato sotto l’aspetto politico. In sostanza l’obiettivo dei
vertici jugoslavi era quello di sterilizzare la compagine italiana presente sul
territorio rendendola conforme all’orientamento nazional-comunista del regime
jugoslavo. Per farlo era necessario “jugoslavizzare” il proletariato giuliano
di orientamento socialista, ma dopo la rottura Tito-Stalin del 1948 anche i comunisti
italiani dell’Istria, tradizionalmente di ispirazione internazionalista, si
dissociarono dalla politica deviazionista di Tito.
Vero è che il regime comunista jugoslavo
riuscì ad alterare irreparabilmente l’assetto etnico del territorio giuliano,
grazie all’innesto artificiale di nuclei slavi provenienti dall’interno dei
Balcani. Essi rinfoltirono la demografia della regione istriana secondo un
progetto di ingegneria etnica congeniale alle esigenze espansionistiche dello
stato jugoslavo.
L’esodo giuliano-dalmata produsse dunque
uno svuotamento consistente di aree fino a quel momento molto popolate. Ma
quale fu la spinta a livello personale che fece scattare la molla dell’esilio?
Indubbiamente le motivazioni erano molteplici. In primo luogo un ruolo determinante
lo giocò la paura: il ricordo delle foibe, degli eccidi e delle violenze subite
innescò in molti una fobia da persecuzione, tanto morale quanto fisica;
l’oppressione di un regime totalitario che invadeva il vissuto quotidiano della
gente in maniera asfissiante; il capovolgimento dell’ordine socio-economico in
Istria con la scompaginazione della classe dirigente italiana; il ribaltamento
dei rapporti di potere tra mondo rurale e centri urbani nella regione;
l’isolamento totale imposto dalle autorità; la chiusura dei rapporti con
l’Italia e con Trieste; l’annullamento dei valori tradizionali e delle
abitudini sedimentatesi da generazioni nell’area; l’introduzione di nuovi
metodi per la misurazione del prestigio sociale e professionale; l’imposizione
di nuove norme comportamentali; l’obbligo di usare una lingua sconosciuta nelle
relazioni sociali e in pubblico e l’integrazione forzata all’interno di una
cultura decisamente lontana da quella latina.
Tutto questo insieme di cose fece
lievitare vertiginosamente il senso di estraneità degli italiani al cospetto di
una realtà avulsa e trasformata. Pertanto, le comunità italiane storicamente
insediate nell’area giuliano-dalmata giunsero alla stessa conclusione:
l’impossibilità di preservare, tutelare ed esprimere la propria identità
nazionale all’interno dello stato nazional-comunista jugoslavo.
L’esodo proseguì fino all’estate del 1956
con i profughi provenienti dall’ex Zona B, lasciandosi alle spalle anni di
violenze e soprusi che hanno scavato un solco profondo nella memoria di chi ha
vissuto in prima persona quell’esperienza dolorosa.
Tuttavia per gli esuli giuliano-dalmati
che raggiunsero l’Italia le sofferenze non erano ancora terminate: il rientro
in patria fu rocambolesco, traumatico, ancora una volta doloroso. L’Italia era
in ginocchio dopo le disastrose avventure belliche che l’avevano ridotta a
cumuli di macerie, e poi c’erano la fame e l’indigenza a complicare
ulteriormente le cose. Tutto l’apparato produttivo italiano era praticamente
fuori uso, e l’offerta di lavoro conseguentemente bloccata. Il Paese agonizzava
nella totale desolazione; fu immensamente difficile avviare la sua
ricostruzione. E soprattutto c’erano i morti, gli scomparsi, i deportati e i
feriti a rammentare in ogni istante quanta vita era stata distrutta, quanto
dolore consumato: la piaga della sconfitta ardeva come carne al fuoco sulla
coscienza degli italiani.
Per molti esuli l’accoglienza fu la
continuazione della sofferenza: venivano scambiati per fascisti nostalgici che
sputavano sul piatto d’argento che Tito aveva loro offerto; nessuno si rendeva
conto in quel frangente che quei profughi erano il prezzo pagato per rimanere
italiani, per aver perduto la guerra, per aver accettato la sfida più amara:
abbandonare la propria dimora per inseguire un sogno di libertà.
In Italia gli esuli furono accolti
all’interno di circa centoventi campi profughi disseminati per il Paese, dove
conobbero miseria, scarsa igiene, precarietà e mancanza di spazi intimi. Il disagio
si protrasse per molti anni, e ancora nel 1960 si potevano contare dodicimila
persone che vivevano all’interno di queste strutture carenti.
Il paradosso non era politico, bensì
sostanziale: migliaia di persone avevano deciso di prendere la via dell’esilio
per poter continuare a esprimere i propri sentimenti nazionali e per fuggire
alle persecuzioni politiche in Jugoslavia; per contro, al loro arrivo in Italia
furono esposti alle discriminazioni della sinistra radicale italiana fondate su
un assurdo pregiudizio politico, e cioè che quella gente altro non era che un
“residuo di fascismo” pericoloso per l’equilibrio del Paese. Soprattutto tra i
quadri dirigenti del PCI serpeggiava la convinzione che gli esuli
giuliano-dalmati erano dei nazionalisti “in fuga dal socialismo e pronti a
fungere da massa di manovra per la reazione in Italia”[91].
Anche la stampa comunista contribuì a diffondere e radicare nell’opinione
pubblica di sinistra lo stereotipo dell’esule-fascista.
Fu proprio l’atto dell’esodo a rafforzare
tra le masse di profughi il senso di comune appartenenza; quasi subito sorse in
Italia una rete di associazioni della diaspora con il compito di tutelare i
diritti dei profughi e difendere i valori e le tradizioni delle comunità
giuliane e dalmate in esilio. Nel febbraio del 1947 si costituì in Italia un
Comitato nazionale per i rifugiati italiani che si occupò dell’inserimento dei
profughi all’interno della società italiana, avvalendosi di una rete
organizzativa estesa su tutto il territorio nazionale. Nell’anno seguente il
comitato si trasformò nell’Opera per l’assistenza ai profughi giuliani e
dalmati: furono così elargiti dei finanziamenti per interventi di ampio respiro
come nuove urbanizzazioni popolari, scuole e ricreatori. Ne fornisce un esempio
lampante la costruzione del villaggio giuliano-dalmata a Roma.
Lo sviluppo economico che investì la
penisola negli anni Cinquanta offrì nuove possibilità agli esuli, accelerandone
l’integrazione all’interno del tessuto sociale italiano. L’esodo non produsse
quindi fenomeni di emarginazione sociale, nonostante le difficoltà
d’inserimento iniziali. Probabilmente anche questo aspetto favorì col passare
del tempo la rimozione delle vicende giuliano-dalmate dalla memoria collettiva
nazionale.
4. DELLE
FOIBE E DELL’ESODO: APPROCCI INTERPRETATIVI DIFFERENTI
4.1 LE DIFFICOLTA’ E LE TENTAZIONI
Sulle foibe e sull’esodo giuliano-dalmata
intenso è stato il dibattito storiografico e talvolta incandescente il suo
riversarsi nell’opinione pubblica;
quest’ultima, qualora sia suggestionata da strumentalizzazioni fuorvianti,
deraglierebbe il proprio focus argomentativo in un vicolo cieco, e cioè
nell’impossibilità di confrontarsi obiettivamente con la storia della Venezia
Giulia e della Dalmazia. A questo proposito risulta estremamente efficace il
concetto di “strumentalizzazione” offertoci da Francesco Piazza, che parla di
“sottomissione dell’intelligenza all’ideologia”[92]
per asserire alla difficoltà iniziale dell’approccio interpretativo alla
questione. Se si cedesse alle tentazioni messe in campo dalla politica
probabilmente sulle foibe e sull’esodo potremmo collezionare un “bestiario
delle faziosità”, e non di certo un quadro organico e ragionato in grado di
fornire all’opinione pubblica stessa degli strumenti interpretativi idonei.
Vi è poi un’altra problematica legata
alla memoria, dalla quale la storiografia può trarre degli spunti di
ricerca quando questi siano resi compatibili con le metodologie di indagine e
con le fonti a disposizione degli studiosi e degli storici.
L’intento dovrebbe essere quello di
diminuire, e non accrescere, la forbice creatasi tra cultura storica diffusa e indagini
storiche effettuate. La prima è stata ampiamente infiltrata dalla
semplificazione storica divulgata dai mezzi di comunicazione di massa,
attraverso la logica della spettacolarizzazione degli eventi. La ricerca
storiografica per converso agisce mediante l’aggiornamento delle fonti reso
possibile dalle acquisizioni degli anni Novanta, periodo in cui lo scenario
delle indagini storiografiche si è arricchito grazie soprattutto all’apertura
graduale degli archivi fino ad allora non accessibili dagli storici.
Il dibattito storiografico sulle foibe e
sull’esodo per decenni è stato incentrato sul nodo della quantificazione piuttosto
che su quello delle cause, delle responsabilità e delle dinamiche, in grado di
restituire un’oggettività superiore per la comprensione delle stragi avvenute.
Sarebbe un errore conferire arbitrariamente alle cifre la responsabilità
storica di spiegare il senso, o forse il non senso, delle persecuzioni
jugoslave ai danni della popolazione giuliano-dalmata, e in particolar modo ai
danni della componente italiana che abitava quell’area prima di prendere la via
dell’esilio.
Altra tentazione potrebbe essere quella
di distorcere o enfatizzare gli accadimenti per il mero soddisfacimento di
obiettivi propagandistici: adottare espressioni come “genocidio”, “pulizia
etnica” e “olocausto” per trasferire il loro spessore semantico sulle foibe e
sull’esodo risulta comunque un’operazione strumentale; veicolando una
nomenclatura sensazionalista per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica
si otterrebbe come risultante la mistificazione delle vicende e l’indebita
alterazione dei fatti storici.
Dalle tentazioni si passa agli
impedimenti che ancora oggi ostacolano la ricomposizione del mosaico storico
giuliano-dalmata del Novecento: sulla questione delle persone scomparse dopo
essere state tratte in arresto dalle autorità jugoslave purtroppo incide
pesantemente l’occultazione documentaria di dati ritenuti fondamentali:
attualmente nessuna ricerca è stata effettuata negli archivi anagrafici dei
territori ceduti all’ex Jugoslavia, e sembra difficile rimuovere gli ultimi
freni alle verità nascoste.
4.2 LA POSIZIONE DELLA CHIESA
Con riferimento specifico alle uccisioni
avvenute in Istria nell’autunno del 1943 è interessante prendere in esame la
posizione della Chiesa cattolica, deducibile in questa sede da un fondo apparso
sul settimanale “Vita Nuova” del 4 marzo 1944[93]
redatto dal direttore Giorgio Beari e intitolato La “foiba”. Il titolo dell’articolo può trarre un po’ in inganno:
il testo è in realtà un saggio molto intenso da cui traspare limpidamente la
volontà di condannare la violenza in toto,
senza trasformarla in strumento di propaganda riciclabile all’occorrenza.
Elevandosi a soggetto super partes,
l’autore “denuncia ogni tipo di sopraffazione nazionale, razziale e ideologica”[94],
senza discriminare tra nazismo e barbarie slava. Dopo aver fornito un esaustivo
“decalogo della violenza” in cui trovano condanna i più disparati metodi di
sopraffazione utilizzati dal genere umano, l’autore li sostanzia con parole che
troverebbero anche oggi la loro legittimazione letteraria:
Tutte, insomma, le più
sfacciate e arbitrarie violenze contro uomini e cose sono altrettanto
tristissime realtà di cui è oggi intessuta la vita di popoli interi.
Tutto ciò dimostra che i
seguaci di ideologie diverse – anche se in netta e spesso sanguinosa antitesi
fra di loro nei principi, nelle finalità e negli interessi – s’incontrano
invece in maniera sorprendente [...] in sistemi di vita che sembrano escludere
a priori qualsiasi valutazione umana (non dico cristiana) dell’uomo[95].
Da queste righe emerge l’impostazione
imparziale con cui l’autore riesce a sganciarsi da qualsiasi tentazione di
schieramento; le foibe dunque, sono condannate perché espressione truculenta di
una violenza di massa, non certo perché rappresentative di un’ideologia.
4.3 LE TESI CONFLITTUALISTE
Nel “bestiario delle faziosità” trovano
pieno riconoscimento due orientamenti che si collocano tra loro agli antipodi,
in quanto espressione di un antagonismo ideologico che produce una loro agevole
confutabilità. Si tratta di due visioni aventi forza uguale e opposta, l’una di
parte italiana, l’altra di parte jugoslava. Nonostante la loro effettiva
fragilità scientifica, si riscontra ancora oggi una loro ampia diffusione,
soprattutto negli ambienti politici e dell’opinione pubblica italiana e d’oltre
confine.
Sono patrimonio esclusivo di una memoria
settaria, che permette di riciclarle a oltranza quando l’uso che se ne vuole
fare è sostanzialmente politico. Il loro approccio semplicistico alle questioni
delle foibe e dell’esodo risulta assai congeniale anche per un loro utilizzo
mass-mediatico.
In questa categoria periferica e
politicamente impostata, che offre una rilettura a senso unico delle foibe e
dell’esodo, si annoverano le tesi di “genocidio nazionale” e di “pulizia
etnica”, proprie dell’estrema destra italiana, che le ha interiorizzate come
strumento di legittimazione ideologica nel panorama politico nazionale. E’
evidente che esse amplifichino il fenomeno delle foibe come un premeditato
progetto di eliminazione integrale dell’elemento italiano dall’area
giuliano-dalmata, equivocando che esso fu uno degli aspetti specifici di una
questione molto più complessa.
Quanto a quelle di pertinenza jugoslava,
si può parlare di tesi “riduzioniste” quando esse circoscrivano la portata
delle violenze slavo-comuniste soltanto ad una cerchia ristretta di categorie
di persone: nazisti, fascisti (quelli veri [N.d.A.]), camice nere, criminali di
guerra, collaborazionisti e delatori. In base a questa supposizione, le
migliaia di civili deportati e fatti sparire per mano jugoslava dovrebbero
corrispondere a qualche sparuto gruppetto di assassini sanguinari e spie;
ovviamente anche questa interpretazione è frutto di una congettura faziosa che
la rende assai poco difendibile. Assolutamente non argomentabili risultano
invece le tesi “negazioniste”, proprie di un estremismo ideologico di segno
opposto rispetto a quelle di avvocatura italiana: secondo questa linea
interpretativa, le foibe non sono altro che un’invenzione della propaganda
fascista, frutto di un’immaginazione politica volta a screditare le imprese
belliche dei partigiani comunisti jugoslavi, considerati per la cronaca
“liberatori”. Sulla stessa lunghezza d’onda si posiziona la tesi di Paolo
Parovel, secondo il quale “[...] le cosiddette foibe sono le basi psicologiche
e propagandistiche di un molto pericoloso razzismo nazionalistico antisloveno”[96].
Anche da questa dichiarazione traspare una cecità politica impressionante, in
grado da sola di smontare anche la più lontana parvenza di criterio. In coda a
queste tesi si posizionano anche quelle di “mistificazione storica”,
lontanissime anch’esse da quell’oggettività richiesta dal dibattito
storiografico. Quel che le rende sostanzialmente inaccettabili è il loro
rifiuto aprioristico del dato storico: le foibe ci sono state; si sono
effettuati numerosi recuperi e rinvenimenti di corpi e di resti umani, e ad
alcuni di loro è stato possibile dare un volto e un nome; spesso si trattava di
persone (soprattutto italiani, ma anche sloveni e croati) totalmente estranee
dalla vita politica, e quindi arbitrariamente giustiziate dagli
slavo-comunisti.
4.4 STORICIZZAZIONI DEL PASSATO
I primi studi riconducibili alla volontà
di inquadrare le foibe in un nesso storico coerente risalgono agli anni
Sessanta e Settanta. Gli esperimenti da cui provengono gli spunti più
considerevoli sono quelli di Galliano Fogar, Bogdan Novak e Diego de Castro.
Fogar[97]
si concentra soprattutto sulle uccisioni del ’43, restituendoci un’analisi più
coraggiosa rispetto a quelle summenzionate:
[...] L’eccidio di alcune
centinaia d’italiani che sono fucilati o scaraventati nelle voragini carsiche
(“foibe”) dopo sommari processi, ha il carattere di una rappresaglia brutale.
[...] E’ la lotta di classe identificata con quella nazionale per cui
nazionalismo e socialismo diventano sinonimi nella guerra al nemico italiano.
Uno degli obiettivi che alcuni dirigenti slavi vogliono conseguire, il più
presto possibile, è la distruzione della classe dirigente istriana [...] in
modo da assicurarsi il controllo totale del potere[98].
Dunque “rappresaglia brutale” e “lotta di
classe” sembrano essere gli elementi fondanti dell’esplosione di violenza in
Istria nell’autunno del 1943; interessante poi l’equazione “lotta di classe sta
a lotta nazionale come socialismo sta a nazionalismo”, un aspetto questo, che
troverà presto il suo riscontro nel nazional-comunismo di Tito. Per Fogar
l’obiettivo dei quadri del PCC era la distruzione della borghesia italiana
volta all’ottenimento del potere sull’intera regione.
Durante gli anni Settanta si sviluppò
l’approccio interpretativo dell’eccesso
di reazione, il cui assunto di
base era fondato sulla convinzione che gli eccidi del ’43 e del ’45 erano il
frutto acerbo di una più ampia stagione di violenza inaugurata durante il
ventennio fascista con la politica di oppressione verso le minoranze slovena e
croata. In particolare “le foibe si prestano a venir lette come un fenomeno di
reazione, come una resa dei conti brutale e spesso indiscriminata compiuta da
parte di popolazioni oppresse e stremate nei confronti dei loro persecutori”[99].
Tuttavia la volontà di porre l’accento sulla risposta per motivare le stragi jugoslave appare apprezzabilmente
in difetto, giacché esclude a priori l’esistenza di un “qualsiasi disegno
organico di persecuzione politica”[100],
seppur dai contorni piuttosto incerti. Relativamente alla primavera del ’45,
l’approccio dell’eccesso di reazione
sembra intentare una minimizzazione della portata degli eccidi, relegandoli a
fatti marginali rispetto all’affermarsi del progetto socialista jugoslavo nella
Venezia Giulia. In questo caso però non siamo di fronte allo spontaneo
divampare del furore popolare represso per lunghi anni, bensì al cospetto “di
una ponderata strategia di annichilimento del dissenso”[101].
Concludendo, l’eccesso di reazione
sembra non essere in grado di stabilire una connessione tra il fenomeno delle
foibe e il contesto politico di riferimento nella Venezia Giulia di allora.
Passando a Novak[102]
ci si accorge subito come cambi la sostanza dell’approccio alla questione:
La parola fascismo fu usata sia dagli jugoslavi
sia dagli occidentali per intendere realtà profondamente diverse. Accettando
l’interpretazione jugoslava, secondo la quale era fascista ogni virtuale
avversario del comunismo, si possono meglio comprendere le persecuzioni
compiute dagli jugoslavi nella Venezia Giulia. Quelli che a Cox e agli altri
osservatori occidentali sembravano soltanto arresti ingiustificati, assumono
l’aspetto di un coerente piano di persecuzione[103].
E’ evidente il cambio di rotta, il
passaggio a un’interpretazione del fenomeno riconducibile anzitutto al suo
nesso politico: la rivoluzione comunista jugoslava che spazza via i suoi
oppositori attraverso l’esercizio della violenza di massa. Quanto alle tesi
dell’opinione pubblica italiana dell’epoca, Novak contesta l’interpretazione
dei fatti secondo un’ottica incentrata sulla persecuzione a sfondo etnico,
rammentando invece l’incidenza di quella a sfondo politico:
Il punto debole di
questa interpretazione italiana sta nell’attribuire tutta la colpa delle
persecuzioni al nazionalismo sloveno e croato, trascurando invece il ruolo
svolto dal comunismo. E’ vero che Tito aveva organizzato il movimento
partigiano sfruttando i sentimenti nazionalistici di sloveni e croati.
L’importanza del nazionalismo non può essere negata. A ogni modo, l’obiettivo
primario dei partigiani di Tito era allora quello di ottenere il potere
assoluto in Jugoslavia e di estendere il regime comunista il più possibile
verso occidente[104].
Con queste righe Novak antepone la causa
rivoluzionaria al sottofondo nazionalista croato e sloveno, pur non smentendo
la concorrenza di quest’ultimo nella realizzazione del progetto comunista
jugoslavo nella Venezia Giulia.
Infine con de Castro[105]
sembrano definitivamente tramontare le tesi costruite esclusivamente su un
impianto ideologico per fare spazio finalmente a un’analisi più accurata e più
riflessiva degli eventi:
Noi italiani abbiamo
sempre sostenuto che le uccisioni e le deportazioni servivano per cambiare la
proporzione etnica nella Venezia Giulia. Certamente servivano anche a questo,
ma lo scopo principale era quello di eliminare coloro che, per il loro passato,
potevano essere ritenuti nemici del comunismo anche nel futuro. Così dal 24 al
31 maggio 1945 furono massacrati almeno diecimila jugoslavi (domobranzi e
cetnici), senza processo, nella foresta di Kocevje, dopo che gli inglesi li
avevano consegnati ai partigiani di Tito[106].
Dalla testimonianza autorevole di de Castro
ci si può rendere conto delle assurde contraddizioni che soggiacevano
all’affermarsi devastante dei nuovi poteri. Il progetto totalitario voluto da
Tito non guardava in faccia a nessuno, tantomeno agli oppositori interni.
4.5 STORICIZZAZIONI DEL PRESENTE
La nuova storiografia ha prodotto i suoi
risultati più apprezzabili a partire dalla fine degli anni Ottanta, ovvero
quando il panorama europeo di riferimento iniziava a schiudere lentamente le
sue trasformazioni politico-sociali, avviandosi verso l’attuale stagione della
riconciliazione. Il lavoro storiografico nel frattempo si integrava grazie a
importanti acquisizioni storico-documentarie, rese possibili dall’apertura
degli archivi di stato e dall’innovazione delle pubblicazioni sull’argomento.
Uno studio che ha conseguito un ampio
riconoscimento nella storiografia italiana contemporanea è certamente quello di
Elio Apih. La tesi dell’epurazione
preventiva, relativa alla primavera del 1945 nella Venezia Giulia, regge
molto bene al vaglio della critica, e si sviluppa concettualmente nella
distinzione tra “furor popolare” e “sostanza politica”: il primo da intendersi
come scenario entro il quale i fatti di sangue dell’epoca si possono collocare,
ma non di certo sostanziare; la seconda è espressione di una “volontà
organizzata” ineccepibile che orienta l’esercizio della violenza contro gli
oppositori reali e presunti, dando luogo a uccisioni sommarie, non ultime
quelle avvenute nelle foibe del Carso per mano degli jugoslavi. A questo
proposito Apih è molto chiaro: “Governa uno stato che attua una rivoluzione
(l’azione di sangue, è noto, ci fu anche in larga parte della Jugoslavia) ed
esso si afferma coi modi propri delle rivoluzioni”[107].
Anche il contributo di Roberto Spazzali
risulta utile alla comprensione del fenomeno delle foibe, inserite nel contesto
più organico delle stragi jugoslave. Di esse la storiografia italiana si è
troppo spesso disinteressata, mentre frequente è stato il loro uso pubblico
nella Venezia Giulia. Così ha prevalso l’incompatibilità interpretativa del
fenomeno tra opinione pubblica e ricerca storica:
L’opinione pubblica
raccoglie un sentimento comune diffuso, quello che la residua Venezia Giulia si
trovi a pagare colpe non sue e a subire decisioni altrui, e in tutte queste
occasioni il tema delle Foibe scandisce i momenti di dibattito ma anche di
scontro, tra i più acuti, a dimostrazione di un passato per nulla
interiorizzato da una parte della pubblica opinione e della classe politica
[...][108].
Secondo Spazzali dunque, nell’opinione pubblica
giuliana le foibe sono assurte a rappresentare lo strumento più doloroso di un
ampio processo di snazionalizzazione, che trova la sua espressione congenita
nel terrorismo jugoslavo; quest’ultimo in Istria avrebbe decretato l’esodo di
massa della popolazione di sentimenti italiani, mentre a Trieste e Gorizia
avrebbe lasciato profonde ferite nella memoria collettiva.
Un altro contributo interessante è quello
fornito da Raoul Pupo nell’opera Matrici
della violenza tra foibe e deportazioni[109].
L’autore invita a riflettere sulle foibe anche come fenomeno ascrivibile nella
storia jugoslava: non va dimenticato il ruolo centrale che ebbe la violenza
titina nell’esperienza della guerra civile jugoslava per la presa del potere e
per il suo consolidamento nel dopoguerra. Ovviamente le foibe devono essere
inserite a maggior ragione nel contesto della storia giuliana del Novecento:
“[...] nella Venezia Giulia, vediamo all’opera una rivoluzione vittoriosa che
si trasformava senza soluzione di continuità in un regime stalinista, capace di
convertire la carica rivoluzionaria in violenza di stato”[110].
Per rapportare la tragedia delle foibe e delle violenze jugoslave al contesto
mondiale dell’epoca, ricordiamo come abbia influito “[...] l’essere stata la
Venezia Giulia terra di frontiera non solo fra etnie e stati, ma fra due mondi
– quello occidentale e quello comunista – che in questa parte d’Europa erano
già contrapposti”[111].
Questa attenta osservazione rammenta che all’origine del dramma consumatosi
nella Venezia Giulia nel ’45 si inseriva a pieno titolo anche l’embrione del
bipolarismo.
In linea con questi ragionamenti si
colloca anche Foibe: l’eredità della
sconfitta[112], di
Giampaolo Valdevit, storico giuliano di ispirazione marxista. Nel suo saggio
l’autore spiega come le violenze della primavera del 1945 siano il risultato
dell’attuazione del progetto di presa del potere nella Venezia Giulia da parte
del Partito comunista jugoslavo. Le foibe e le deportazioni avvenute nel
biennio ’43-’45 possono essere considerate dunque come la conseguenza
dell’affermazione di una violenza di stato, in un condensato di violenza che
annovera tre elementi distintivi: totalitarismo, politica di potenza (nation building) e terrorismo. Altro
spunto interessante di questa trattazione risulta essere quello relativo
all’esistenza di un nesso specifico tra le deportazioni e le uccisioni avvenute
nel ’45, come sostiene Valdevit:
La morte non viene
affatto “messa in piazza”, al contrario la si occulta. E’ la deportazione
invece che viene “messa in piazza”: nei primi giorni di maggio cortei di
deportati percorrono la città prima di essere trasferiti altrove. C’è dunque
una combinazione di esibizione-occultamento; ed è l’aura di mistero (quanto
alla sorte dei deportati) che accompagna la loro ostentazione a massimizzare
l’effetto deterrente che da essi, con ogni probabilità, si aspetta il regime
che attua il communist take over, un
regime che con la sua ferrea volontà di egemonia anticipa i tratti del
totalitarismo[113].
Il binomio “esibizione-occultamento”
sembra essere così una strategia mirata all’annichilimento della componente
italiana, che si opponeva attivamente o passivamente all’instaurazione dei
nuovi poteri nella regione. A corroborare la volontà annessionista dei “poteri
popolari” provvide anche una forte dose di nazionalismo sloveno e croato,
discioltosi all’interno della causa rivoluzionaria e quindi utile al
conseguimento degli obiettivi prefissati dai vertici jugoslavi: l’ala
nazionalista del movimento di Tito rivendicava che quasi tutti gli italiani
della Venezia Giulia erano soltanto degli “ospiti non graditi” e non autoctoni,
privi pertanto di quel diritto all’autodeterminazione che era invece patrimonio
legittimo della componente slava ivi residente. Per i nazionalisti sloveni e
croati era importante veicolare nella regione un messaggio preciso rivolto alla
società giuliana di nazionalità italiana, ovvero palesare “la volontà di negare
alla componente italiana un ruolo di soggetto dotato di identità autonoma sotto
il profilo politico-istituzionale, e quindi di costringerla a una forma di
presenza subalterna [...]”[114]
nel territorio.
In ultima analisi è doveroso confrontarsi
con la storiografia d’oltre confine, cercando di instaurare con essa un
rapporto diverso rispetto a quello del passato; purtroppo sul tema delle foibe
imperversa ancora un atteggiamento capzioso che stenta a riconoscere la
configurazione del fenomeno dentro il proprio habitat di pertinenza. Parlare di
foibe significa anzitutto parlare degli eccidi compiuti dagli jugoslavi nell’ultima
fase cruenta del II conflitto mondiale e nell’immediato dopoguerra. Le foibe
rientrano così nell’ambito delle stragi jugoslave perpetrate arbitrariamente
contro un “nemico” che aveva colpe molto discutibili, contro alcune categorie
di oppositori che oscillavano tra l’assurdo e il paradossale, contro un
orizzonte di democrazia che era faticosamente affiorato sul finire della
guerra, ma che fu stroncato sul nascere. Anche Nevenka Troha[115]
offre un contributo interessante allo sforzo comune che si dovrebbe fare per
condannare unanimemente una tragedia del passato, senza ritorcerla
strumentalmente sulla costruzione di un futuro condivisibile:
Nella Venezia Giulia la
cosiddetta “pulizia” veniva eseguita dalle autorità jugoslave (e anche in altre
parti della Jugoslavia), con un ulteriore scopo: impedire al più presto il
formarsi di una potenziale opposizione che potesse presentare un ostacolo alle
nuove autorità comuniste e [...] contrastare anche chi era contro l’annessione
alla Jugoslavia. Così gli arresti (e meno spesso le uccisioni) colpirono anche
gli antifascisti. Alcune persone furono uccise per errore, altre per motivi di
vendetta personale[116].
Da questo estratto si desume anche un
fatto tutt’altro che circostanziale se inserito nel contesto bellico e
post-bellico: la guerra, qualunque essa sia, lascia sempre fuoriuscire delle
recrudescenze inspiegabili se sottoposte unicamente a un giudizio rigido e
schematico dell’uomo. La nuova sfida dell’odierna storiografia è oggi, e sarà
domani, quella di discernere dinamiche e fattori che hanno portato l’ingerenza
del mondo della politica ad appropriarsi per sessant’anni di una tragedia così
immane.
POSTFAZIONE
La questione
giuliano-dalmata dopo più di sessant’anni si presenta alla porta della
memoria degli italiani chiedendo di poter entrare, definitivamente e a pieno
titolo, nella coscienza nazionale del nostro Paese. Argomenti come “foibe”,
“esodo”, e “confine orientale d’Italia” sono stati colpevolmente taciuti per
più di mezzo secolo, e anche chi scrive si è chiesto per quale ragione. Un
pezzo di storia che alla nostra Repubblica sta un po’ stretto, giacché mette
giudiziosamente in discussione i suoi valori e soprattutto i suoi miti fondanti.
Il mito della Resistenza e quello della “vittoriosa guerra di liberazione”
hanno incessantemente cercato di sbarazzarsi della tragedia vissuta da nostri
connazionali tra il 1943 e il 1956*,
rifiutando a priori una revisione obiettiva di ciò che accadde; e cioè che la
guerra fu persa, così come furono perdute consistenti porzioni di territorio
che appartenevano allo stato italiano nell’area giuliano-dalmata. Migliaia di
persone trovarono la morte in circostanze paradossali, e gli italiani che
risiedevano in quelle zone da generazioni furono costretti ad abbandonare i
loro insediamenti per sfuggire alla morsa di un regime.
Purtroppo, che piaccia o no, bisogna riconoscere che
alla base di questi miti risiede un’incongruenza sostanziale con le atrocità
consumatesi nell’Alto Adriatico, mentre il resto d’Italia si accingeva a
celebrare la fine dell’incubo nazifascista. La primavera del 1945 ha
significato molto per il nostro Paese, e nessuno potrebbe negare l’importanza
del 25 aprile come passaggio storico alla libertà. Tuttavia è giunto finalmente
il momento di restituire pari dignità a chi in quei giorni anzichè gioire
veniva travolto da un’ondata di violenza impressionante: foibe, deportazioni,
fosse comuni, uccisioni sommarie, campi di concentramento, eccidi di massa,
stragi e, soprattutto, esilio come soluzione finale di un’escalation drammatica. Chi erano? Erano italiani, proprio come noi;
avevano solo la sfortuna di essere italiani giuliani, istriani, fiumani,
quarnerini e dalmati, ovvero coloro ai quali fu affibbiata l’infausta etichetta
di capro espiatorio delle avventure belliche del nostro paese e dell’esito
finale del conflitto. E ripetiamolo: l’Italia la guerra l’ha perduta, e
l’esperienza della Resistenza dovrebbe essere levigata più accuratamente dall’opinione
pubblica nazionale; un’esperienza intrisa di ambiguità, soprattutto per come
operò nell’area nord-orientale della Penisola. Qui le contraddizioni del
movimento resistenziale italiano ebbero la loro massima dilatazione, per
culminare talvolta in scelte di campo inammissibili, che appoggiavano de facto le pretese espansionistiche
jugoslave sul territorio italiano. Non si può e non si deve più nascondere che
l’ala radicale rivoluzionaria della Resistenza giuliana a un certo punto si
sottomise all’ingerenza della resistenza slovena e croata (con la famosa
“svolta d’autunno” del 1944), determinando una spaccatura insanabile con il CLN
della regione, espressione assoluta dell’antifascismo italiano. Crediamo che su
questi temi “caldi” si debba avere il coraggio di voltare pagina sì, ma prima
ancora di eliminare i vizi storici di quella precedente. Un segnale di forte
discontinuità e di scostamento dai fantasmi del passato che non hanno più
ragion d’essere e d’esistere nell’odierno contesto socio-politico europeo.
Ma torniamo alla tragedia dei giuliano-dalmati; sulle
foibe e sull’esodo le definizioni coniate giustamente si sprecano: “oblio
coatto”, “verità nascosta”, “verità sottaciuta”, “congiura del silenzio”,
“memoria negata”, “rimozione storica”, “storia rimossa”, ecc.; il filo
conduttore rimane comunque lo stesso, e cioè un escursus storico che si può articolare in tre stagioni
storico-politiche fondamentali: il sipario della guerra fredda; il crollo del
sistema bipolare e il disfacimento della Jugoslavia; la redenzione della memoria.
Nel primo sono intervenuti molteplici fattori che
hanno inciso in maniera preponderante sulla volontà di accantonare una verità
scomoda, imbarazzante e destabilizzante per la politica estera italiana e per gli
equilibri geo-politici dell’Europa centro-orientale. Innanzitutto è bene
precisare che l’Italia pagò pesantemente la sconfitta nella II guerra mondiale;
la moneta con cui a Parigi dovette estinguere il proprio “debito” fu quella dei
territori ceduti alla Jugoslavia nell’area giuliano-dalmata, territori dove la
presenza italiana era un dato storico prima ancora che un dato di fatto, e le
conseguenze del trattato di pace furono disastrose per gli italiani ivi
residenti. Successivamente, nel nuovo contesto della “cortina di ferro”, la
Jugoslavia non allineata di Tito diventava paradossalmente per lo stato
italiano un importantissimo sbarramento, nell’ottica della non poco
preoccupante minaccia sovietica. L’Italia era uscita stravolta dal conflitto:
indebolita militarmente e ridimensionata sotto l’aspetto politico-diplomatico
in Europa, non poteva fare altro che avviare una proficuo rapporto di
“amicizia” col vicinato balcanico. La Jugoslavia si rivelò inoltre un ottimo
partner economico, in grado di offrire condizioni vantaggiose alla politica
estera italiana, impegnata a riconquistarsi un ruolo da protagonista nel
panorama europeo post-bellico. Certo la vertenza confinaria italo-slava per la
Zona B si trascinò fino alla fine degli anni Settanta, ma la sua risonanza su
scala nazionale passò in secondo piano con i governi Moro e Andreotti,
depositari di Osimo (nov. 1975) e della sua ratifica (apr. 1977). L’argomento
delle foibe e dell’esodo venne messo da parte (ingiustamente [N.d.A.]) anche
nelle logiche della politica interna italiana, considerato appunto
destabilizzante per l’orientamento politico del paese, il cui baricentro
oscillava tra democristiani, socialisti, socialdemocratici, liberali e
repubblicani, con il PCI a fare da fanalino di coda. L’assetto era dunque
proteso a sinistra, e certe verità avrebbero precluso a talune forze politiche
(alias partiti [N.d.A.]) la loro
legittimazione e la loro coerenza tanto in parlamento quanto al governo.
La seconda stagione per la questione giuliano-dalmata
si sviluppa con delle tappe forzate a partire dagli anni Ottanta: proprio nel
1980 morì il maresciallo Josip Broz Tito, aprendo così una falla incolmabile
nella Jugoslavia comunista; nel 1989 cadde il muro di Berlino; nel 1991 si
dissolse il colosso sovietico; nel 1992 le spinte autonomiste delle repubbliche
di Slovenia e Croazia portarono alla disgregazione dello stato jugoslavo e alla
guerra civile a sfondo etnico all’interno del paese. In poco più di dieci anni
si realizzò il sogno democratico dell’Europa dell’Est che culminò con il crollo
dei regimi comunisti e con la fine della guerra fredda. Tutto questo ebbe delle
ricadute positive a livello nazionale sulla questione giuliano-dalmata;
l’apertura degli archivi di stato e delle frontiere incentivò da una parte
l’iniziativa storiografica, dall’altra un atteggiamento più distensivo delle
forze politiche italiane verso la problematica ancora irrisolta. Tuttavia con
tangentopoli e mani pulite in Italia imperversò una gravissima crisi interna
che sconvolse l’opinione pubblica del Paese nei primi anni Novanta:
l’attenzione verso il disastrato mondo della politica interna italiana si
appropriò dell’intera scena nazionale, che vedeva protagonista il tramonto
della “prima Repubblica”.
Negli anni seguenti la lenta e difficoltosa
ristabilizzazione degli equilibri interni ha inaugurato in Italia l’ultima
stagione, quella della redenzione della
memoria. La rimozione degli ultimi sigilli “politici” si è concretizzata
proprio in questi ultimi anni e ha portato a termine un percorso di
“purificazione della memoria nazionale”. Grazie all’avvenuta maturazione del
tema delle foibe e dell’esodo all’interno della sinistra e alla concertazione
con cui le forze politiche del nostro paese hanno gestito questa operazione è
stato raggiunto un obiettivo importantissimo per la tragedia giuliano-dalmata:
il suo riconoscimento ufficiale nella Repubblica Italiana. L’11 febbraio e il
16 marzo 2004, rispettivamente alla Camera e al Senato è stata sottoposta alle
votazioni una legge che istituisce il Giorno
del ricordo in memoria delle vittime delle Foibe, dell’Esodo giuliano-dalmata e
delle vicende del confine orientale d’Italia. Per comprendere in maniera
irreprensibile l’esito delle votazioni crediamo sia sufficiente fornire i dati
della Camera dei deputati: 502 i voti favorevoli, 15 i contrari, 4 gli
astenuti. Al Senato la legge ha bissato con il medesimo suffragio di voti a
favore. Per dovere di cronaca si aggiunga che l’esiguo drappello di contrari
rappresenta oggi in parlamento l’ala più radicale della sinistra, ancora
allineata a un vetusto concetto ideologico della faccenda, mentre tutte le
altre forze politiche di destra, di centro e di sinistra sono risultate in
simbiosi perfetta tra di loro. La legge (detta anche “Legge Menia”) del 30 marzo
2004 n. 92 istituisce all’art. 3 il Giorno
del ricordo, e conferisce ad esso la qualifica di solennità civile della Repubblica. Il giorno prescelto è stato il
10 febbraio, data della firma del Trattato di Parigi del 1947 che sancì
ufficialmente l’inizio della diaspora giuliano-dalmata, anche se in realtà
questa era già iniziata dal ’44. La Legge 92/2004 istituisce inoltre il
conferimento della “Medaglia in memoria degli infoibati” ai congiunti delle
vittime: coniugi, figli, nipoti e congiunti fino al sesto grado. Il 10 febbraio
di quest’anno in tutta Italia hanno avuto luogo le manifestazioni per la
celebrazione del Giorno del ricordo.
A Trieste, ribattezzata “capitale morale dell’Esodo” in virtù del valore
simbolico del capoluogo giuliano, hanno partecipato anche le autorità dello
Stato, nelle persone di Gianfranco Fini, vicepresidente del Consiglio dei
Ministri, e di Mirko Tremaglia, ministro per gli italiani nel mondo.
A conclusione di questo estenuante percorso
storico-politico che ha portato dopo sessant’anni al riconoscimento ufficiale
della tragedia dei giuliano-dalmati in Italia, ci sembra doveroso chiudere
questa trattazione così complessa con la voce indubbiamente più autorevole: la
voce dell’Esodo. Per questa ragione riportiamo con grande senso di solidarietà
nazionale le parole di un’esule che ha trovato il proprio rifugio in Canada, ma
che rappresenta la voce di tutti gli italiani giuliano-dalmati in esilio:
“La Patria è una realtà dello spirito con le sue misteriose
leggi alle quali la nostra anima non potrà mai dar scacco”.
Claudio
Antonelli
CONCLUSIONI
Al termine di questo percorso di trattazione sulla
storia giuliana e dalmata è doveroso tracciare le coordinate che hanno condotto
all’individuazione di alcuni punti nevralgici tra storiografia, opinione
pubblica e memoria.
Innanzitutto di che memoria si tratta? Anche in
questo caso siamo di fronte ad una nomenclatura complessa, che può soggiogare
facilmente le coscienze sacrificandole in nome di questa o quella ideologia:
“memoria condivisa” oggettivamente sembra un’espressione che non soddisfa
appieno i criteri di obiettività imposti dalla storiografia e dalla ricerca
scientifica, poiché accomunerebbe vissuti drammatici tanto simili quanto
opposti; non ci pare ragionevole poter mescolare delle storie che si
contrappongono vicendevolmente sul palcoscenico della verità, o meglio delle
verità. Sì, perchè nessuna verità può essere eletta suprema, assoluta e
incontaminata, quando altre verità concorrono al soddisfacimento del bisogno di
conoscenza dell’uomo e delle sue articolazioni sociali: la famiglia, la scuola,
l’associazionismo, e la società stessa.
Progettare orizzonti culturali compatibili è
possibile, e siamo tutti potenziali attori dello stesso processo: l’integrazione
europea. La strada intrapresa ci permette di arricchire la nostra cittadinanza
di valori che certamente trascendono dai rancori del passato e dalle remore
ancora agganciate al nostro presente.
Recentemente il Presidente della Repubblica Carlo
Azeglio Ciampi ha forgiato una definizione tanto semplice quanto efficace con
espresso riferimento alla questione giuliano-dalmata; questa deve essere
anzitutto “memoria unita”: in essa devono risiedere tutte le circostanze del
caso, devono essere rimosse unilateralmente le amnesie dell’opportunismo
politico, che per più di mezzo secolo hanno esiliato questo pezzo di storia
nazionale italiana ai confini della ragione. E’ inammissibile che per
sessant’anni siano venute prima le ragioni di stato e poi quelle della storia,
e la storia si sa, la fanno gli uomini.
Invitiamo quindi la storiografia nazionale a
confessarsi, a riflettere sui miti che l’hanno condizionata e accompagnata
durante la “Prima Repubblica”, miti che hanno sepolto tra le macerie del nostro
paese un barlume di verità, scomoda verità, destabilizzante verità.
Sulla questione giuliano-dalmata si può dire ancora
molto, e questa volta possiamo farlo con la massima coralità, sfuggendo ai
dogmi storici ancoratisi all’opinione pubblica italiana degli ultimi
sessant’anni.
E’ possibile parlare di foibe e di Esodo senza
considerare il “laboratorio della catastrofe” fascista nell’area
giuliano-dalmata? Crediamo di no. Crediamo anche che si debba conoscere tutta
la storia delle terre alto-adriatiche, che non inizia certo nel 1918 né
tantomeno finisce nel 2005. C’è un “prima” a tutto questo, e non si tratta
assolutamente di retorica. La civiltà giuliano-dalmata ha una storia
plurimillenaria, i cui ritmi sono stati scanditi per secoli e secoli da
popolazioni che hanno lasciato segni indelebili di cultura e costume. Prima i
Romani e poi la Serenissima sono stati testimoni prestigiosi della latinità
adriatica sviluppatasi lungo la costa dalmata e giuliana. Questa straordinaria
civiltà ha rimesso poi all’italianità adriatica il compito di sospingerla verso
la sfida più ardua: la sopravvivenza. Nell’ultimo passaggio, che l’ha condotta
alla contemporaneità otto-novecentesca, la rotta di collisione con le
popolazioni slave ha spezzato bruscamente il suo ancestrale retaggio storico.
Non ha saputo reggere ai contraccolpi storico-politici causati dall’alternarsi
della sovranità territoriale nell’Alto Adriatico: prima l’Impero asburgico, poi
lo stato fascista italiano, e infine, il suo ultimo irriverente padrone jugoslavo,
che se ne è sbarazzato agevolmente attraverso la sua politica sciovinista.
Riflettiamo anche noi, dunque, sulla rieducazione
storica da incentivarsi nel nostro paese per evitare aberranti equivoci; per
evitare ad esempio, che luoghi come Rovigno d’Istria, Pola, Cherso, e molti
altri siano offerti nei pacchetti turistici dei tour operator italiani come
“meravigliose perle croate”, delirante etichetta commerciale di una
disinformazione di massa. Anche sulla Dalmazia si è fatta poca informazione
culturale, nonostante essa rappresenti una pietra miliare della nostra
antichissima civiltà latina, germogliata sulla costa dalmata più di duemila
anni fa.
In sostanza, in una determinata area geografica una
cosa è la sua gestione politico-amministrativa, un’altra è invece la sua
pertinenza storico-culturale, frutto di tradizioni che si sono lentamente
sedimentate nel tempo. Concludendo, il dato più profondamente tragico
dell’esodo giuliano-dalmata non è tanto l’avvenuta perdita della sovranità
statuale nelle terre alto-adriatiche, quanto piuttosto il fatto che circa
300.000 persone abbiano perduto per sempre tutto il loro vissuto d’origine,
senza alcuna possibilità di poterlo riabbracciare.
APPENDICE:
TESTIMONIANZE DAL MONDO GIULIANO-DALMATA
Sig. Sergio Cionci (1922), residente
a Gorizia, esule da Pola, ex dipendente del GMA a Pola
La grande
massa di polesani iniziò a esodare già pochi giorni prima della firma dei
trattati di pace di Parigi, e più precisamente il 2 febbraio 1947. E’ da notare
che la città era popolata da circa 35.000 abitanti già nel ’41, la stragrande
maggioranza italiani (circa l’80%). In più, nella piazzaforte di Pola ereditata
dall’Impero asburgico si concentravano 5-10.000 militari interforze di stanza
presso l’arsenale e la zona del porto.
Io ero un
dipendente del GMA, ed è per questo che fui uno degli ultimi a lasciare Pola.
Appartenevo a quel gruppo di persone (tutti italiani) che espletavano servizi
vari nella Pubblica amministrazione, ed è proprio per questo che ci chiamavano
“gli indispensabili”, coloro che contribuivano a mantenere efficiente
l’autorità civile della città. Certo rimanere a Pola sino all’ultimo era un
problema, tuttavia il GMA assicurava l’imbarco in ultima istanza per i
dipendenti dell’amministrazione cittadina.
L’egemonia italiana
a Pola era indiscussa. Soltanto lasciando la città e dirigendosi verso
l’entroterra si sentiva parlare una lingua croata ben diversa da quella
ufficiale, trattandosi di una parlata infarcita di parole venete: il cosiddetto
“istro-veneto”.
Il GMA nominò
nell’enclave di Pola una commissione di epurazione antifascista, i cui
componenti erano designati da due distinti comitati: il primo, di estrazione
filo-italiana, era identificato nel CLN; l’altro, con solide basi
filo-jugoslave, era il CPL. Era evidente che tra i due comitati di designazione
si apriva una falla sempre più profonda, determinata dalle diverse aspirazioni
che li animavano: l’uno a favore dell’Italia che si sarebbe dovuta ricostruire
con pazienza e lungimiranza, l’altro a sostegno delle tesi annessionistiche del
nascente stato comunista jugoslavo. Anche la classe operaia era divisa in due
distinti sindacati: il Sindacato italiano, pro-Italia, e i Sindacati Unici,
pro-Jugoslavia.
Nonostante le
controversie a sfondo ideologico la maggioranza della popolazione polesana
rimaneva comunque favorevole alla riannessione allo stato italiano, mentre uno
sparuto gruppo di comunisti cercava di incoraggiare l’arrivo delle autorità
jugoslave. Nella primavera del ’45 Pola fu occupata da “truppe regolari”,
ovvero da unità dell’Esercito popolare di liberazione jugoslavo. Da quel
momento le bande partigiane di Tito, composte soprattutto da sloveni e croati,
occuparono la penisola, instaurandovi organi di “potere del popolo” che
dovevano ben radicare nell’Istria il nuovo ordine sociale e politico di
riferimento. Gli screzi iniziarono ad appesantirsi quando nel giugno del ’45
l’Istria (ad eccezion fatta della stessa Pola) fu concessa in amministrazione
militare agli jugoslavi. A Pola cominciarono così a confluire agitatori e
propagandisti politici, con il preciso compito di sovvertire l’assetto
dell’ordine pubblico, intimando ai cittadini polesani di aderire al nuovo
progetto della Jugoslavia socialista.
Pola era
un’isola rispetto a tutte le altre cittadine istriane occupate dagli jugoslavi,
in quanto gli Alleati avrebbero dovuto occupare tutti i “principali ancoraggi”
della costa occidentale istriana, anche se questo non fu mai fatto.
Nel 1944 i
tedeschi commisero un grave errore emanando un bando di arruolamento coatto per
le classi ’20, ’21, ’22 e ’23 della popolazione istriana, quando oramai i
giochi erano fatti e cominciava a profilarsi la sconfitta del nazi-fascismo. Fu
così che una parte degli italiani, posti dinnanzi all’ultimatum nazista, non
potendo raggiungere i connazionali partigiani dell’Alta Italia, si
organizzarono diversamente aggregandosi al battaglione “Pino Budicin”,
stanziato appunto nell’entroterra istriano (nei boschi).
Sono convinto
che il grande Esodo giuliano-dalmata fu lo strumento necessario per poter
salvaguardare la propria identità nazionale, culturale, sociale e soprattutto
fisica!
Una
componente determinante fu senza dubbio la paura, suggestionata dalle ondate di
violenza politica che nel frattempo si erano abbattute sull’Istria; in un certo
senso si potrebbe anche parlare di violenza etnica se si considera come Milovan
Gilas stesse cercando di ripulire tutta la penisola dalle “minoranze”, ovvero
dalle popolazioni autoctone di etnia non slava che non piacevano per niente né
a Tito né al nascente regime. Era importante eliminarle, per poter affermare
irreprensibilmente la nuova identità etnico-politica voluta dal leader
jugoslavo.
Nel ’45 a
Pola c’erano due associazioni partigiane che si contendevano con rivalità la
scena e il consenso nella città: l’ANPI (Associazione nazionale partigiani
italiani), i cui componenti erano spesso anche membri dell’UAIS (Unione
antifascista italo-slava), e l’API (Associazione partigiani italiani); la prima
filo-comunista, la seconda filo-italiana. Quest’ultima aveva sede presso l’ex
circolo sottufficiali della Marina militare italiana di Pola, e aveva il
compito di proteggere la popolazione polesana dalle angherie dei partigiani
comunisti jugoslavi.
La stessa
contesa politico-nazionale veniva riproposta anche nella comunicazione di
massa: fino all’arrivo degli occupatori jugoslavi il quotidiano d’informazione
locale era “Il Corriere Istriano”; il giornale, diretto da Rodolfo Manzin, uscì
anche durante il periodo di occupazione germanica. Successivamente, nel maggio
del ’45 i partigiani comunisti jugoslavi si appropriarono della sua tipografia
e iniziarono a pubblicare un altro quotidiano: “Il Nostro Giornale”. Ovviamente
usciva in lingua italiana, ma il suo taglio editoriale era marcatamente
filo-jugoslavo; era diretto dal professor Domenico Cernecca. In
contrapposizione con la linea de “Il Nostro Giornale” cominciò a uscire
successivamente “L’Arena di Pola”, che era anche organo del CLN; il direttore
era il prof. Guido Miglia, e l’orientamento del quotidiano era chiaramente
filo-italiano.
Oltre a
questi prodotti editoriali c’erano anche dei settimanali: “La posta del
lunedì”, ufficialmente neutrale ma tendenzialmente di sentimenti italiani,
diretto dal prof. Pietro Sfiligoi; “Democrazia”, settimanale dei giovani di cui
io ero direttamente responsabile, di orientamento indubitabilmente pro-Italia;
“El Spin”, a vocazione satirica, sempre diretto dal giornalista dignanese
Rodolfo Manzin. Infine, nel panorama editoriale istriano dell’epoca si
annoverava anche un giornale edito a Udine: “Il grido dell’Istria”. Veniva
diffuso clandestinamente nella Zona B, a Pola, Gorizia e Trieste; nella testata
del giornale era scritto: “esce dove e quando può”.
Sig. Manzin (1920), agricoltore
istriano di Dignano, “rimasto” e membro della comunità italiana locale
Sono rimasto
a Dignano perché non volevo assolutamente abbandonare il mio paese, né
tantomeno la mia attività di agricoltore nella zona, a cui ancora oggi mi
dedico con passione.
Prima del “ribaltòn”
del 1943 Dignano era popolata in massima parte da italiani, erano circa 5600 i
residenti in paese, mentre di slavi se ne vedevano davvero pochi. Il mio
cognome era uno dei più diffusi nel Dignanese, anche se poi le cose
cominciarono a cambiare con l’arrivo delle autorità jugoslave.
Oggi per noi
italiani “rimasti” la messa domenicale diventa sempre più un consueto punto di
ritrovo, anche perché gli equilibri sociali del paese sono stati alterati dopo
il Trattato di Parigi...e molti hanno preso la via dell’esilio anche da qui.
Soprattutto dopo l’esercizio del diritto di opzione per la cittadinanza
italiana del ’51 Dignano si svuotò quasi completamente, pochi decisero di
restare.
Dopo
l’instaurazione dei nuovi “poteri popolari” gli emissari del regime comunista
venivano a farmi visita per persuadermi a collettivizzare le mie proprietà
all’interno delle cooperative agricole “1° maggio”, ma grazie alla mia
insistente opposizione sono riuscito a salvare le mie terre, che oggi ancora
possiedo e coltivo.
Ricordo che
furono prese di mira dai quadri molte categorie di persone: insegnanti,
professori, dirigenti e tanta altra gente furono costretti ad iscriversi al
PCJ. Anche la circolare “Perusko” ebbe i suoi effetti qui in paese: molti
studenti italiani furono trasferiti nelle scuole croate forzatamente perché il
loro cognome, terminando in “ich”, era considerato slavo; in conseguenza a
questo fatto molte scuole italiane furono chiuse.
Sig. Bonassin (1938), poeta
istro-romanzo (lingua in estinzione appartenente alla latinità istriana),
residente a Dignano, “rimasto” e membro della comunità italiana locale
Sono rimasto
a Dignano per scelta “ideale” di mio padre, impiegato come manovale nei
dintorni. Ho svolto per molti anni l’attività di segretario in una scuola,
esattamente per trentaquattro anni.
Ho molti
ricordi della mia giovinezza...i primi risalgono ai tempi della scuola, quando
ero soltanto uno studente. Ho frequentato la scuola superiore di economia a
Pola, e purtroppo ricordo che la lingua italiana era inibita negli ambienti in
cui ero inserito. Era frustrante, sia nell’ambito scolastico che in quello
lavorativo era proibito parlare italiano, si doveva parlare obbligatoriamente
croato. Quando frequentavo la scuola per apprendisti ricordo che a volte mi veniva
spontaneo usare la mia lingua per scherzare con i miei compagni, per
chiacchierare o più semplicemente per scambiare una battuta veloce nei brevi
lassi di tempo che rimanevano. Ma dovevo stare attento a non farmi sentire,
perché a controllarmi c’era sempre il mio ispettore referente personale, pronto
a cogliermi in fragranza. Altro requisito indispensabile per svolgere la mia
attività di segretario scolastico era la tessera del partito, che dovevo
portare sempre con me.
Sig. Mate Milosevic (1919), istriano
croato di Lisignano, piccolo centro nel circondario di Pola
Durante
l’epoca fascista qui in Istria la gente riusciva ad andare d’accordo abbastanza
tranquillamente, non c’era un astio forte tra italiani e croati, l’antagonismo
veniva esasperato soltanto tra “stupidi di ideologia”.
Dopo l’8
settembre a Lisignano i partigiani comunisti riuscirono abilmente ad
impossessarsi della scena locale, nessuno osava protestare o ribellarsi ai
“poteri popolari”, poiché la paura di finire nel fondo di una foiba era sempre
più grande. Un mio nipote era dei “domobranzi”, ed è per questo che fu
arrestato e ucciso dai partigiani della zona. A Medolino furono prelevate e
condotte alla foiba circa una decina di persone compromesse: avevano svolto
incarichi statali durante il fascismo, poco importava che i ruoli che avevano
avuto erano secondari; persino il vecchio sacrestano del paese non fu
risparmiato, e nemmeno quello del villaggio di Sissano, infoibato insieme a due
donne sue compaesane. Penso che sia giusto condannare ciò che fu fatto a queste
persone e a molte altre, le foibe altro non erano che delle vere e proprie
ingiustizie.
Per quanto
riguarda l’Esodo, la decisione di partire maturata in molti italiani del posto
fu condizionata da una serie di fattori: il sistema economico-produttivo era in
ginocchio, l’Istria per l’Italia si allontanava ogni giorno sempre di più sui
tavoli della diplomazia riunita a Parigi, dilagava l’incertezza, in tutti i
sensi. Non va sottovalutato poi un altro aspetto: la tracotanza spietata di
alcuni membri dei Comitati popolari era davvero indigesta per gli italiani,
trattati molto male da individui spesso grezzi, rozzi e senza cuore. I
sentimenti nazionalisti dei croati amplificavano la percezione della crisi, e a
Sissano si verificò un esodo in blocco.
Sul tema
della propaganda jugoslava c’è davvero poco da dire: quando la Commissione
interalleata visitò questa zona agli italiani era proibito manifestare
pubblicamente, dal momento che la propaganda pro-Italia era considerata
propaganda reazionaria. Soltanto le manifestazioni pro-Jugoslavia ebbero luogo
in un clima di tripudio rivoluzionario.
I nuovi
poteri e il nuovo sistema di gestione dell’economia e del bene pubblico avevano
delle contraddizioni assurde...il socialismo di Tito si preoccupava
dell’operaio onesto ma incentivava anche l’ubriacone che non voleva andare a
lavorare, e anche per questo ci fu molto assenteismo durante gli anni del
regime. Si pensi solo al fatto che in Jugoslavia un operaio medio lavorava in
un giorno soltanto tre ore e mezza! Io ero un economo e di queste cose ne ho
viste davvero tante quando ero in servizio.
Dott. Gaetano Valenti (1946),
sindaco di Gorizia per due mandati (dal 1994 al 2002), esule da Parenzo, Istria
Io e la mia
famiglia decidemmo di abbandonare l’Istria nel periodo della firma del Trattato
di Parigi, anche se già dopo i fatti dell’autunno del ’43 si viveva
costantemente con la paura. Mio padre era stato prelevato dall’OZNA, e per
sottrarsi al fermo poliziesco finse di essere un pazzo, così riuscì a tornare a
casa. Era un repubblicano democratico e a Parenzo gestiva una barberia. Poi si
decise di esercitare il diritto di opzione e con un viaggio rocambolesco
riuscimmo a raggiungere Trieste, dove potemmo trovare rifugio per otto mesi da
alcuni parenti. Poi ci trasferimmo alle casermette del ’15-’18 di Gorizia. Qui
abitavamo in uno stanzone diviso in due parti da un telo: “reparto giorno” e
“reparto notte”. Successivamente ci trasferimmo nel villaggio per gli esuli
della Campagnuzza, dove non mancarono i contrasti, talvolta anche violenti, col
vicinato sloveno di Sant’Andrea.
Penso che le
foibe siano espressione di una cultura della guerra e della morte diversa, che
contempla tuttalpiù pratiche di uccisione differenti; non mi risulta che
all’interno delle popolazioni latine vi sia qualcosa di simile. Quanto al
numero delle vittime, si dovrebbe parlare di “uccisioni” e di “sparizioni”,
poiché in fondo hanno la stessa sostanza.
Chi ha avuto
un rapporto diretto con la cruda realtà di quegli anni purtroppo porta con sé
degli odi indelebili, sedimentati con le ingiustizie subite; la mia generazione
in fondo è più possibilista, espressione di un vissuto limitato che tuttavia ha
eretto ugualmente delle diffidenze reali, rimovibili solo attraverso una fatica
intellettuale; c’è poi una terza fascia più giovane pronta a collaborare per
migliorare i rapporti di vicinato tra Italia e Slovenia, pur mantenendo una
discreta soglia di attenzione; l’ultima fascia, quella “giovane” per
definizione, sta abbracciando la cittadinanza europea, e dunque riesce a porsi
in modo svincolato rispetto al passato della Venezia Giulia.
Quanto agli
esuli giuliani e dalmati, essi hanno pagato con il loro dolore e con i loro
beni i danni di guerra dell’Italia alla fine del II conflitto mondiale. Le
nuove repubbliche di Croazia e di Slovenia hanno ancora delle pendenze nei
confronti degli esuli e degli italiani: i beni abbandonati con l’Esodo e
l’accesso edilizio per gli italiani nel loro territorio nazionale, secondo un
fondamentale principio di diritto europeo che ancora non è stato rispettato.
Le mie
origini istriane mi rendono ambasciatore di una cultura che spero non sia in
via di estinzione, in Italia e nel mondo. Purtroppo stiamo perdendo la
generazione giuliano-dalmata dei nostri padri, quella che al suo rientro in
Italia veniva discriminata secondo il consueto luogo comune del “fascista
nostalgico”. Tuttavia oggi arrivano segnali di apertura interessanti anche da
parte dei mezzi di comunicazione di massa, che stanno riscoprendo i patrimoni
italiani dell’Istria e della Dalmazia. Ciò che dispiace è che per molti anni
non c’è stata un’attenta difesa culturale dell’italianità giuliano-dalmata.
Dott. Claudio Rosolin (1942), docente
di diritto ed economia politica in pensione, esule istriano da Pisino
Io e la mia famiglia abbandonammo Pisino dopo l’8
settembre 1943, anche se il riconoscimento di “profughi” ci venne conferito
soltanto nel ’46. Mio padre militava nella Guardia Nazionale Repubblicana.
Ero molto
piccolo all’epoca dei fatti, ma grazie ai racconti dei miei genitori sono
ancora oggi depositario della memoria di esule istriano. Ho rivissuto quel
dramma quando mio padre, passati gli anni peggiori, mi riportò in Istria a
visitare le nostre terre con nostalgia ma anche con un po’ di pragmatismo. Si
diceva: «Persa la guerra, persa l’Istria...».
Le foibe sono
state un metodo di rappresaglia contro molti italiani. Le colpe del fascismo
sono state restituite ampiamente con gli interessi non ad uno stato, ma a
un’intera comunità nazionale autoctona. L’Esodo ci ha portati qui, a Gorizia.
Ricordo gli anni della gioventù: eravamo in tanti, noi esuli; c’era solidarietà
da parte dei goriziani, anche se nella massa aleggiava talvolta un po’ di
diffidenza nei nostri confronti...si pensava che potessimo “rubare” posti di
lavoro, alloggi, ecc.
Sono contento
del riconoscimento ufficiale che ci è stato dato con l’istituzione del Giorno
del ricordo, meglio tardi che mai, come si suol dire...anche se confesso che mi
sento un po’ come un cristiano uscito dalle catacombe dopo sessant’anni di
indifferenza del paese in cui vivo! Tuttavia ai tempi della scuola ricevetti un
riconoscimento modesto che mi lusingò parecchio: ero alle medie, e il preside
della mia scuola volle che fossi citato in un articolo di quotidiano non
soltanto come alunno diligente ma anche come “esule di Pisino”. Orgoglio
istriano...si trattava di un articolo uscito su “Il Giornale di Trieste” del 7
giugno 1954.
Sig.ra Giuseppina Alesani, residente
a Ponzano Veneto (TV), esule dalmata da Zara
Innanzitutto
voglio premettere che sono nata da madre slava e da padre italiano, quindi
ancora oggi conservo dentro di me una sorte di dualismo interno: sangue misto
ma anima certamente italiana, questo sì lo posso dire. E’ difficile per noi che
abbiamo sofferto così tanto mettere da parte i rancori, e ancora oggi ci sono
molti contrasti di sentimento...personalmente con gli slavi ho un rapporto
limitato, inevitabilmente viziato dal ricordo delle ingiustizie perpetrate ai
danni degli italiani dalmati.
Con
l’occupazione italiana della Dalmazia avvenuta nella primavera del 1941, gli
italiani ivi residenti pensarono di aver finalmente ricevuto ciò che li
spettava, ovvero un riconoscimento reale del loro status nazionale; poi arrivò
l’8 settembre 1943, che segnò inevitabilmente il declino dello stato italiano e
delle sue articolazioni sul territorio dalmata. I nostri soldati si ritirarono
tutti allo sbando verso Zara, centro di italianità indiscussa lungo la costa
della Dalmazia. Ma allo stesso tempo, i nazionalisti croati, alleati
dell’Italia in guerra, premevano incessantemente per occupare la città; fu così
che fu allestito in tempi brevissimi un cordone di presidio umano intorno agli
otto chilometri di perimetro cittadino, per impedire che la città cadesse nelle
mani dei croati. Tra gli zaratini v’era un grande spirito di solidarietà e
compattezza, e di fronte alla minaccia croata essi accettarono molto più
volentieri l’arrivo dei militari germanici, considerati paradossalmente quasi
dei “liberatori”. In quella situazione estremamente delicata ci fu un uomo che
diede l’anima per la nostra città, era il prefetto Serrentino, che aiutò
moltissimo la popolazione zaratina.
Zara italiana
fu bombardata per ben 54 volte dai raid aerei degli Alleati, che la distrussero
quasi integralmente. Alla sua eroica vicenda di recente si voleva attribuirne
il valore civile con il conferimento di una medaglia d’oro da parte del
Presidente della Repubblica Ciampi. Tutto era già pronto per la cerimonia e la
manifestazione pubblica, ma il governo croato si intromise con delle
velleitarie rimostranze che impantanarono l’iniziativa.
La mia casa è
stata distrutta con il bombardamento aereo del 16 dicembre 1943. Poi venne l’Esodo.
Me lo ricordo molto bene il nostro esodo. Era il 30 dicembre 1943 quando
salimmo a bordo della nave Sansego, ormeggiata nel porto cittadino. C’era una
bora tremenda, nevicava e faceva freddissimo. Eravamo appena partiti quando il
comandante della nave comunicò che non si poteva proseguire a causa del
maltempo, così ritornammo verso la terraferma e trascorremmo la notte a bordo;
la nave si sistemò a circa cinque chilometri dalla riva, in rada. L’indomani
mattina era una bellissima giornata, e la nave questa volta partì veramente.
E’ passato
tanto tempo, ma i sentimenti non sono cambiati. Mi sento dalmata perchè le mie
origini sono dalmate e perchè sono cresciuta a Zara. Sento di essere di
nazionalità italiana, perchè sono nata in Italia, anche se a volte faccio
fatica a spiegare alla gente dove, quando e perchè.
Sull’argomento
delle foibe a volte si è fatto un po’ di confusione. Nessuno può negare
l’esistenza del fenomeno, che effettivamente fa parte sì della storia
martoriata delle terre giuliano-dalmate, ma non la rappresenta in modo
esaustivo. La nostra storia è molto più complessa, contorta e disconosciuta, le
foibe rientrano a pieno titolo nella schiera dei torti e delle ingiustizie che
abbiamo subito, anche se ve ne sono molti altri di spessore storico uguale o
superiore.
F.G. (1943), esule fiumano residente
a Gorizia, esodato il 24 dicembre 1949
Il mio
ricordo di Fiume...la città in cui sono nato e in cui ho vissuto parte della
mia infanzia è un ricordo effimero ma concreto. Della nostra tragedia ho
un’opinione ben precisa: i croati hanno sempre avuto l’ambizione di annettersi
Fiume, e la loro voglia di ripulire la città dagli italiani autoctoni si
trasformò in realtà nel 1945.
Dell’Esodo
ricordo dei momenti altamente significativi. La partenza: era l’alba della
vigilia di Natale del 1949, mio padre baciò la porta di casa per l’ultima volta
e scoppiò in lacrime. Poi l’arrivo a Trieste: una sosta di pochi giorni e via
di nuovo. Udine, campo profughi, qui il ricordo si acuisce: si dormiva per terra,
si piangeva in continuazione, sembrava quasi un lager. Passammo qualche giorno
anche a Venzone, e subito dopo ci trasferimmo per dieci mesi al campo profughi
di Novara, presso la caserma “Perrone”. Qui in un primo momento dormivamo in
grandi camerate, poi ci spostarono nel carcere della caserma; comunque si stava
meglio che a Udine. Infine Gorizia...dove ci siamo insediati definitivamente.
Io tuttavia ho sempre avvertito di essere diverso agli occhi degli altri,
perchè ero pur sempre un esule, strappato dalla propria terra.
Nonostante
anni di residenza, non sono mai riuscito a fare di Gorizia “la mia città”,
anche se riconosco che mi ha dato molto come cittadino.
Sig. Vladimiro Pierazzi (1917),
esule fiumano residente a Gorizia, esodato nel 1950
Sono venuto
via dopo, nel ’50 esattamente, perché mi hanno trattenuto in città, dove ero
capo-ufficio spedizioni presso il consorzio macellerie di Fiume. La mia
città...una città italianissima, soltanto nel circondario v’era una consistente
presenza slava. Quando sono arrivati “loro”, i partigiani di Tito, nessuno
sapeva cosa fare né come reagire. Era una situazione difficile, quasi tutti i
fiumani erano contro i nuovi venuti.
Ricordo con
nostalgia la bandiera fiumana del 1923, rosso-amaranto, gialla e blu. Fiume era
una città molto aperta e cosmopolita, non c’era astio tra città e campagna, non
c’era quel senso di superiorità nei confronti degli slavi. Nel centro della
città era pieno di commercianti e affaristi, era scarsa la presenza operaia.
Dopo
l’occupazione titina guardavamo la “Bocca Grande” tra Cherso e l’Istria
sperando nell’arrivo degli Alleati, gli unici in grado di fermare l’ondata
comunista che si era riversata sulla nostra città.
Personalmente
ho rischiato più volte la vita; ero stato dapprima ammonito e poi minacciato
dai “poteri popolari”, perchè non avevo peli sulla lingua. “Loro” venivano a
fare riunioni e comizi nelle aziende, sempre durante l’orario lavorativo,
interrompendo la produzione e disturbando i lavoratori. Era la loro propaganda,
così facevano “loro”, perchè volevano che noi stessimo lì ad ascoltarli. Non
avevano voglia di lavorare quelli là...i partigiani erano considerati degli
straccioni dalla popolazione.
Alla fine ho
deciso di partire anch’io, perchè volevo una vita differente da quella che loro
cercavano di imporre: miseria, lingua sconosciuta, usi e costumi diversi,
uffici pubblici slavizzati e altre cose. Io non ero in grado di andare avanti
così, non concepivo di vivere con quei nuovi sistemi sociali e di
comunicazione, e poi non sapevano lavorare, era un caos totale per davvero.
ALLEGATO:
ILLUSTRAZIONI
Figura 1:
francobollo celebrativo dell’esodo giuliano-dalmata (facsimile)
Figura 2:
manifesto del Giorno del ricordo
Figura 3:
altro manifesto del Giorno del ricordo a cura della RAI
Figura 4:
profughi di Pola in partenza dalla città
RIFERIMENTI
BIBLIOGRAFIA:
PUBBLICISTICA:
SITOGRAFIA:
www.anvgd.it (u.c.* 26/10/05)
www.triesteistria.it (u.c.
23/10/05)
www.irredentismo.it (u.c.
23/10/05)
www.leganazionale.it (u.c.
20/10/05)
www.arcipelagoadriatico.it (u.c. 15/10/05)
www.digilander.libero.it/lefoibe/indexx.htm (u.c. 17/09/05)
www.adesonline.com (u.c.
12/10/05)
www.unioneistriani.it (u.c.
15/10/05)
www.irci.it (u.c.
12/10/05)
www.exilio.it (u.c.
23/10/05)
www.fiume-rijeka.it (u.c.
21/10/05)
www.istitutogiuliano.it (u.c.
24/09/05)
www.10febbraio.it (u.c.
11/10/05)
http://xoomer.virgilio.it/histria/
(“mailinglist histria”) (u.c.
18/10/05)
http://utenti.lycos.it/istriadalmazia (u.c.
24/10/05)
FONTI ORALI:
Tutte le interviste sono state realizzate tra luglio
e settembre 2005 nelle zone di Treviso, Gorizia e Pola. Le informazioni
raccolte sono state successivamente riprodotte come testimonianze
nell’appendice dell’elaborato.
[1] G. Crainz, Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa, Donzelli, Roma 2005, p. 99.
[2] A tal proposito si asserisce all’epoca dell’Impero asburgico e a quelle successive del fascismo italiano e del comunismo jugoslavo.
[3] Zara rappresentava la città dalmata italiana per antonomasia, ma oltre ad essa altri insediamenti italiani di origine romana e veneta erano presenti nelle città di Spalato, Sebenico, Traù, Ragusa, Cattaro e in alcune isole antistanti la costa della Dalmazia.
[4] F. Piazza, L’altra sponda adriatica. Trieste, Istria, Fiume, Dalmazia 1918-1998: storia di una tragedia annunciata, Cierre edizioni, Sommacampagna (VR) 2001. E’ significativo notare come il titolo di quest’opera si presti ottimamente alla questione giuliano-dalmata in chiave storica ed evocativa, con un’espressione (“L’altra sponda adriatica”), coniata dall’autore appunto, che sintetizza in modo congeniale il contesto di riferimento.
[5] AA.VV., Italia e Slovenia alla ricerca di un passato comune. Atti del seminario di studio sulla relazione finale della commissione storico-culturale italo-slovena su: i rapporti italo-sloveni 1880-1956, Gradisca d’Isonzo – Palazzo Torriani – 12 aprile 2002, introduzione di Corrado Belci, Istituto per gli incontri culturali mitteleuropei, Gorizia 2003, p. 12.
[6] Ibidem, p. 12.
[7] Liburnia era denominata quella regione adriatica che si estendeva dalla costa orientale istriana sino al golfo del Quarnaro con le sue isole e la città di Fiume con il suo circondario.
[8] Più precisamente si trattava dell’anno 998, quando una flotta veneziana al comando del doge Orseolo II approdò nelle cittadine istriane di Parenzo e di Pola, nel porto di Zara e negli altri centri minori della Dalmazia, raggiungendo anche l’isola di Arbe e Ossero. Dopo aver sconfitto dei pirati asserragliati alle foci della Narenta la spedizione toccò le isole di Cùrzola e Làgosta e le località di Traù (che fu sottomessa) e Ragusa.
[9] Era il 31 luglio 1409 quando i veneziani fecero la loro entrata ufficiale a Zara, accolti in festa dai cittadini dalmati che ricordarono l’evento come la “Santa Intrada”.
[10] Durante l’egemonia veneziana i dalmati furono così ribattezzati per sottolineare il ruolo di fondamentale importanza che espletarono nelle file delle Venete milizie oltremarine, in cui dimostrarono la loro destrezza e la loro abilità nei duelli navali. Ancora oggi, a Venezia, sono ricordati con una riva che conserva il loro nome: la Riva degli Schiavoni.
[11] Il suo ideatore si chiamava Ljudevit Gaj, secondo il quale il diritto storico delle popolazioni slave sui territori facenti parte dell’Impero derivava dalla credenza che gli Illiri, antica popolazione pre-romana delle terre alto-adriatiche, fossero di razza slava. Sulla base di questa congettura Gaj rivendicava la diretta consanguineità degli Illiri con le popolazioni slave arrivate nell’area giuliano-dalmata nell’Alto Medioevo, e perciò loro presunte eredi indiscusse.
[12] L’espressione “Venezia Giulia” fu coniata per la prima volta nel 1863 dal glottologo goriziano Graziadio Isaia Ascoli, che la utilizzò per riferirsi alle terre alto-adriatiche in cui si era sviluppata la parlata istro-veneta di ceppo romanzo.
[13] Durante il dominio asburgico nei territori adriatici, la regione Venezia Giulia era stata suddivisa in entità amministrative dette appunto “le province del Litorale”, articolate nei seguenti territori: a - Contea principesca di Gorizia e Gradisca d’Isonzo (comprendente anche Monfalcone, Sesana e Tolmino); b - Margraviato d’Istria (Parenzo, Capodistria, Lussino, Pisino, Pola, Veglia, Volosca-Abbazia); c - Città di Trieste (sede del Luogotenente del Litorale, massima carica istituzionale-amministrativa che rappresentava il Governo di Vienna). La città di Fiume invece, era amministrata da un governatore eletto da Budapest, in virtù dell’autonomia che la corona ungherese aveva ottenuto all’interno dell’Impero asburgico. Cfr. Piazza, op. cit., p. 11.
[14] Fu il partenopeo Matteo Renato Imbriani a inventare l’espressione “Irredentismo”, fondando nel 1877 l’Associazione per l’Italia irredenta e promuovendo iniziative anti-austriache in grado di attirare l’attenzione della stampa italiana e della politica. Cfr. Piazza, op. cit, p. 25.
[15] Raoul Pupo, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Rizzoli storica, Milano 2005, p. 77.
[16] Raoul Pupo, op. cit., p. 16.
[17] Il patto di Londra fu siglato il 26 aprile 1915 dopo che il governo italiano aveva condotto delle trattative segrete con le forze dell’Intesa: l’accordo prevedeva l’entrata in guerra dell’Italia a fianco di Inghilterra, Francia e Russia entro un mese dalla stipula dello stesso, e in caso di vittoria alla fine del conflitto all’Italia sarebbero stati assegnati i seguenti territori: Trentino, Tirolo meridionale fino al Brennero, l’Isontino, Gorizia, Trieste, l’Istria, parte della Dalmazia fino a Punta Planca, le isole del Dodecaneso e alcune colonie in Africa e nell’Asia minore. Non era contemplato invece nella posta in gioco Fiume e l’arcipelago del Quarnaro.
[18]Tra i famosi 14 punti del presidente americano Wilson si annoverava il diritto all’autodecisione dei popoli. Secondo tale principio, all’Italia vincitrice della I g.m. sarebbe dovuta andare anche la città di Fiume, compattamente italiana tra i suoi abitanti. Ma con la firma del trattato di pace tra Italia e Austria a Saint-Germain-en-Laye il 10 settembre 1919 non viene riconosciuta l’italianità della città.
[19] Fu soprattutto idea di Wilson, quella di appoggiare la nascita di uno stato degli Slavi del sud in nome della tanto osannata autodecisione dei popoli. Questo compromise e ostacolò le rivendicazioni italiane sulla Dalmazia, che si appellavano a quanto era stato promesso all’Italia nel precedente accordo pre-bellico siglato a Londra con gli Alleati.
[20] La corrente interventista si servì di questi miti per convincere le frange più caute dell’opinione pubblica a prendere una posizione filo-italiana nell’intricato contenzioso confinario che si era aperto dopo la dissoluzione dell’impero austro-ungarico nelle terre adriatiche.
[21] Il 20 luglio 1917, nell’isola neutrale di Corfù, si svolse un congresso tra rappresentanze serba, croata e slovena; le tre parti convennero sull’obiettivo principale da perseguire unanimemente: la creazione di un regno unitario degli Slavi del sud che di fatto doveva inglobare gli ex territori asburgici al Regno di Serbia. Questo fu inserito nel novero delle potenze vincitrici della Grande Guerra, nonostante fosse stato raso al suolo dall’esercito dell’Impero austro-ungarico. Per ottenere l’espansione confinaria necessaria alla realizzazione nazionale, furono costituiti dei Comitati Nazionali Jugoslavi con il preciso compito di esercitare pressioni diplomatiche in linea con il predetto progetto.
[22] Questa espressione ricorda con costernazione la tragica lotta fratricida iniziata a Fiume la vigilia di Natale del ’20 e protrattasi per cinque giorni, tra le unità del Regio Esercito e i legionari dannunziani. Il bilancio delle vittime fu molto pesante: cinquantatre militari e cinque civili morirono sotto il fuoco italiano che proveniva da ambo le parti.
[23] Marco Rossi, Istria riscoperta. Dal confine conteso alla nuova Europa, intervista a Galliano Fogar, Ediesse, Roma 2005, p. 37.
[24] Si rammenta che fino al 1941 l’Italia estendeva la propria sovranità nazionale sull’Isontino, sulle città di Gorizia e Trieste con i loro rispettivi entroterra, sull’Istria, sulle isole di Cherso e Lussino e, a partire dal 1924, anche sulla città di Fiume (Trattato di Roma).
[25] Piazza, op. cit., p. 33.
[26] Ervin Dolenc, Nasi Fasisti, in “Prispevki za novejso zgodovino”, XL (2000), n. 1, pp. 113-122; fonte citata in Pupo, op. cit., p. 42 e 272.
[27] Partito Nazionale Fascista.
[28] Carlo Schiffrer, Sguardo storico sui rapporti fra italiani e slavi nella Venezia Giulia, 2° ed. riveduta, Trieste 1946, p. 32.
[29] L’ORJUNA era un’organizzazione clandestina armata di ispirazione slavo-irredentista. Di matrice parafascista, si avvaleva soprattutto dei contatti stretti con i servizi segreti di Belgrado. Grazie a questi collegamenti riuscì svolgere abilmente attività di spionaggio e sabotaggio sul territorio italiano. Cfr. Pupo, op. cit., pp. 51-52.
[30]
Questa organizzazione segreta era chiamata appunto TIGR
(Trst-Istra-Gorica-Rijeka) nel Goriziano, mentre assumeva la denominazione
BORBA (che significa “lotta”) a Trieste e in Istria, lo stesso nome dato al suo
organo di stampa clandestina che diffondeva gli obiettivi strategici di questo
movimento: lotta antifascista armata e annessione del Litorale e dell’Istria
alla Jugoslavia. Ibid., pp. 52-53.
[31] Ibid., p. 52.
[32] Polizia fascista con funzioni investigative e repressive contro attività, manifestazioni e organizzazioni di matrice eversiva antifascista.
[33] Unione degli emigranti jugoslavi della Venezia Giulia; era fedele al regime jugoslavo e di ispirazione conservatrice, volta alla tutela delle minoranze slave ancora presenti in Italia.
[34] Traggo la citazione da Pupo, op. cit., p. 57.
[35] Il colpo di stato fu propiziato da un’èlite di ufficiali serbi, e anche in questo caso pare che fossero coinvolti i servizi segreti anglo-americani.
[36] Questa espressione connota il movimento ultra-nazionalista e filo-fascista che combattè a fianco dell’Asse fino alla fine della guerra; suo obiettivo principale era la bonifica etnica integrale dello stato nazionale croato a scapito di serbi ortodossi, ebrei e zingari che vivevano dentro i confini del nuovo stato indipendente. Alla fine del conflitto saranno quasi un milione le vittime degli eccidi di Pavelic.
[37] Comprendeva, oltre a Zara già italiana, le città di Spalato, Sebenico e Traù; le isole di Cùrzola, Lissa, Meleda e Solta; l’arcipelago antistante Zara più altre isole di dimensioni ridotte.
[38] Velivoli dell’aviazione germanica utilizzati nelle incursioni aeree che devastarono la città di Belgrado.
[39] Dal nome del portavoce e attivista comunista sloveno che diede il massimo apporto nella lotta clandestina sul finire degli anni Trenta.
[40] Pupo, op. cit., p. 58.
[41] Partito Comunista Croato.
[42] Con questa emblematica espressione si allude all’estemporanea conquista del potere da parte del Movimento popolare di liberazione, avvenuta in Istria subito dopo il collasso degli organismi civili e militari italiani.
[43] Acronimo di Comitato Popolare di Liberazione, ovvero l’organo del MPL che si insediava nelle località istriane dopo l’8 settembre: si trattava di una parvenza di autorità locale, spesso improvvisata, i cui membri erano perlopiù persone incompetenti per il funzionamento della pubblica amministrazione nei luoghi preposti.
[44] Vedi pp. 16-17.
[45] Partito Comunista Sloveno.
[46] Guido Rumici, Infoibati (1943-1945). I nomi, i luoghi, i testimoni, i documenti, Mursia, Milano 2002, pp. 77-78.
[47] Raoul Pupo – Roberto Spazzali, Foibe, Bruno Mondadori Editore, Milano 2003, p. 6.
[48] Foiba: dal latino fovea, che significa fossa, abisso; cavità carsiche, talvolta vere e proprie voragini di roccia a forma di imbuto, tipiche del paesaggio giuliano. Cfr. Rumici, op. cit., pp. 9-11.
[49] Rumici, op. cit., p. 90.
[50] Tristemente noti sono i campi di Borovnica, Maribor, Prestrane, Maresego, Crikvenica, Martinscica, Pecine, Leskovac, Grobnico, Dol, Popovaca, Polonka, Mitrovica, Precko, Markovici, Zemun, Curzola, Teodo, Ragusa, Visoko, Banovici, Banatski Karlovac, Vrsac, Bor e Petrovaradin. Altrettanto celebri sono poi alcune strutture carcerarie che funzionarono nelle seguenti città: Lubiana, Kocevije, Sisak, Belgrado, Stara Gradiska e Lepoglava. Cfr. Ibidem, p. 244.
[51] Questa parola appartiene alla lingua slava e significa “soldati”; in questo caso ci si riferisce alle bande di partigiani comunisti che costituivano il braccio armato del movimento di Tito.
[52] A tale proposito consiglio la lettura della storia di Norma Cossetto, dettagliatamente narrata in Rumici, op. cit., pp. 124-132. Anche altre donne conobbero le stesse sorti, a riprova del gusto per il macabro diffuso tra talune orde di partigiani di Tito, che concepivano il divertimento in un modo davvero blasfemo, ovvero quello di seviziare il corpo ancora vivo delle sventurate approfittandone anche sessualmente.
[53] A proposito del recupero dei corpi, per dover di cronaca vanno ricordate le imprese compiute dalle squadre dei Vigili del Fuoco di Pola capitanate dal maresciallo Harzarich, che tra il 16 ottobre e il 12 dicembre effettuarono 31 esplorazioni all’interno di foibe e cavità artificiali che riportarono alla luce 217 salme di militari e civili. Cfr. Pupo – Spazzali, op. cit., pp. 26-27.
[54] Rumici, op. cit., p. 97.
[55] Pupo – Spazzali, op. cit., p. 49.
[56] Traggo la cit. da Rumici, op. cit., p. 185. Cfr. Oddone Talpo, Le terre adriatiche nel dramma delle due guerre mondiali, in: AA.VV., I dalmati per Trieste. Storia del ’900 nell’area dell’Adriatico orientale, Libero Comune di Zara in Esilio, Trieste 2001, p. 43.
[57] Rumici, op. cit., p. 189.
[58] Ibid., p. 189.
[59] Traggo la citazione da: Pupo, op. cit., p. 89. Cfr. al riguardo il dispaccio del comitato centrale del KPS al comitato per il Litorale sloveno n. 89 del 29 aprile 1945, in AS, AZKS, CK KPS 2, ae 91; cfr. anche le direttive contenute nei messaggi di Boris Kraigher al comitato centrale del KPS, in AS, AZKS, CK KPS 2, ae 90.
[60] Acronimo di Odjel za Zastitu Naroda, che tradotto significa “Sezione per la difesa del Popolo”. Tale organo era stato investito delle sue funzioni dai vertici del KPS, a partire dall’autunno del 1944. Cfr. Pupo – Spazzali, op. cit., p. 19.
[61] Pier Antonio Quarantotti Gambini, Primavera a Trieste, Mondadori, Milano 1951, p. 99.
[62] Gli ultimi reparti tedeschi si trincerarono nella zona fortificata di Fisella sperando nella venuta degli Alleati, ai quali si sarebbero voluti arrendere per evitare di consegnarsi all’esercito partigiano di Tito; tuttavia il 7 maggio la Germania sottoscrisse la sua resa incondizionata in Europa, e così pure l’ammiraglio tedesco Waue firmò il giorno seguente la resa degli ultimi militari germanici a Pola. Quanto ai combattenti italiani della RSI, questi si arresero già il giorno 6 maggio, dopo essere stati completamente accerchiati dalle unità partigiane comuniste e dopo aver riportato pesanti perdite negli ultimi disperati combattimenti.
[63] Traggo la citazione da Rumici, op. cit., p. 242; Cfr. Lino Vivoda, L’esodo da Pola. Agonia e morte di una città italiana, Nuova Litoeffe, Piacenza 1989, p. 47.
[64] L’Accordo di Belgrado fu stipulato il 9 giugno 1945 tra Angloamericani e Jugoslavia; sanciva la divisione temporanea della Venezia Giulia in due zone: la Zona “A” sotto l’amministrazione del Governo Militare Alleato (GMA), che comprendeva le città di Trieste e Gorizia e l’enclave di Pola; la Zona “B”, sotto il controllo del Governo Militare Jugoslavo (GMJ), che si estendeva in tutta la rimanente parte della regione, ovvero tutta l’Istria e gli entroterra di Trieste e Gorizia. La linea di demarcazione delle due zone fu denominata “Linea Morgan”.
[65] Pupo, op. cit., p. 105.
[66] Pupo, op. cit., p. 108.
[67] Era stata istituita dal Consiglio dei Ministri degli Esteri riunitosi a Londra per la trattativa riguardante il confine italo-jugoslavo nel settembre 1945; dopo aver riscontrato l’inconciliabilità delle posizioni dei due paesi, il Consiglio nominò una commissione quadripartita (Francia, Inghilterra, URSS e USA) da inviare nella Venezia Giulia per constatare l’assetto etnico del territorio e per formulare delle congrue proposte di soluzione alla vertenza confinaria: dal 9 marzo al 5 aprile 1946 la Commissione visitò l’area contesa.
[68] Testimonianza rilasciata da Sergio Cionci all’autore in data 28 settembre 2005 a Gorizia.
[69] Guido Rumici, Infoibati (1943-1945). I nomi, i luoghi, i testimoni, i documenti, Mursia, Milano 2002, pp. 172-173.
[70] Traggo la citazione dalla Relazione di Luigi Tomaz per il giorno del ricordo 2005, supplemento n. 2 di Comunità Chersina, n. 73, aprile 2005, p. 7. Il testo della lettera è stato precedentemente pubblicato dalla rivista Fiume - rivista di studi fiumani, anno VI, aprile 1986, n. 11, pp. 14-15.
[71] Pupo, op. cit., p. 83.
[72] Organo di stampa del PCI giuliano.
[73] Traggo la citazione da Rumici, op. cit., p. 179; cfr. l’Archivio IRSMLFVG di Trieste, Fondo Venezia Giulia, b. IV, doc. n. 337.
[74] Pupo, op. cit., p. 102.
[75] Pupo, op. cit., p. 113.
[76] Ibid., p. 113.
[77] Pupo, op. cit., p. 120.
[78] La Zona A si estendeva da Duino fino alla città di Trieste compreso il suo centro urbano e l’immediata periferia a sud del capoluogo giuliano.
[79] La Zona B aveva una superficie maggiore rispetto alla Zona A, e si estendeva lungo la penisola istriana nella parte nord-occidentale di essa.
[80] Le parole si riferiscono a una dichiarazione scritta di Boris Kidric, esponente sloveno dell’epoca; traggo la citazione da Pupo, op. cit., pp. 155-156.
[81] Traggo la citazione da Pupo, op. cit., p. 154; cfr. Ordinanza n. 29, in “Bollettino ufficiale della Delegazione del Comitato Regionale di Liberazione Nazionale per il Litorale sloveno”, I (1946), n. 4, 14 gennaio 1946.
[82] Pupo, op. cit., p. 158.
[83] Il Cominform rappresentava la struttura che accoglieva tutti i partiti comunisti d’Europa in un unico ufficio di consultazione, monitorato e presieduto dall’Unione Sovietica che impartiva le linee guida di riferimento da osservare.
[84] Pupo, op. cit., p. 167.
[85] Albaro Vescovà, Ceroi, Crevatini, Elleri e altri villaggi del Muggiano già appartenenti alla Zona A furono ceduti alla Zona B.
[86] L’esodo giuliano-dalmata si disseminò nelle Americhe, in Oceania, e addirittura in Sudafrica, oltre che in Italia.
[87] Pupo – Spazzali, op. cit., p. 219.
[88] Ibid., p. 219.
[89] Erano le strutture preposte alla “rieducazione politica” dei comunisti cominformisti, ovvero dei comunisti fedeli alla linea internazionalista di Stalin; il più famigerato era il campo di Goli Otok, ove si consumarono innumerevoli atrocità che di “umano” avevano soltanto il mandante, ovvero il maresciallo Tito. Per un accurato approfondimento del tema si veda: Giampaolo Pansa, Prigionieri del silenzio. Una storia che la sinistra ha sepolto, Sperling & Kupfer Editori, Milano 2004.
[90] Pupo – Spazzali, op. cit., pp. 221-222.
[91] Traggo la citazione da Pupo, op. cit., p. 206; cfr. Giani Stuparich, Trieste emigra, in “Il Lavoratore”, 1° agosto 1955.
[92] Piazza, op. cit., p. 46.
[93] Traggo questo spunto da una citazione contenuta in: Pupo – Spazzali, op. cit., pp. 61-63. Si veda inoltre: G. Beari, La “foiba”, in “Vita Nuova”, settimanale della diocesi di Trieste, 4 marzo 1944.
[94] Ibid., p. 61.
[95] Ibid., p. 62.
[96] Traggo la citazione da Pupo – Spazzali, op. cit., p. 135. L’estratto appartiene ad un art. uscito in “Primorskij Dnevnik” del 17 agosto 1989.
[97] Galliano Fogar è uno storico triestino e studioso della Venezia Giulia del Novecento. Ricopre inoltre l’incarico di segretario dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli – Venezia Giulia.
[98] Pupo - Spazzali, op. cit., pp. 138-139.
[99] Pupo – Spazzali, op. cit., p. 141.
[100] Ibid., p. 142.
[101] Ibid., p. 142.
[102] Bogdan Novak è uno studioso sloveno anticomunista che per ovvie ragioni fu costretto all’esilio negli Stati Uniti, dove poté dedicarsi allo studio della questione di Trieste e delle foibe della primavera del 1945, considerate come la conseguenza della vittoriosa conclusione della rivoluzione comunista jugoslava; le sue tesi saranno successivamente riprese anche dalla storiografia slovena degli anni Novanta. Cfr. Ibidem, p. 155.
[103] Traggo questo estratto da: Pupo – Spazzali, op. cit., pp. 158-159. L’opera di riferimento è: B. Novak, Trieste 1941-1954. La lotta politica, etnica e ideologica, Mursia, Milano 1973.
[104] Ibid., p. 159.
[105] Diego de Castro negli anni Cinquanta adempì al delicato ruolo di consigliere politico italiano presso il Governo militare alleato della Zona A. Cfr. Ibid., p. 160.
[106] Traggo questo estratto da: Ibid., p. 161. L’opera di riferimento è: D. de Castro, La questione di Trieste. L’azione politica e diplomatica italiana dal 1943 al 1954, Lint, Trieste 1981, vol. I, p. 212, nota 445.
[107] Traggo la citazione da Pupo – Spazzali, op. cit., p. 167. Cfr. Elio Apih, Trieste, in “Storia delle città italiane”, Laterza, 1988, pp. 165-167.
[108] Traggo questo estratto da: Ibid., p. 169. L’opera di riferimento è: Roberto Spazzali, Foibe: un dibattito ancora aperto. Tesi politica e storiografica giuliana tra scontro e confronto, Editrice Lega Nazionale, Trieste 1990, p. 640.
[109] Raoul Pupo, Matrici della violenza tra foibe e deportazioni, in F. Dolinar e L. Tavano (a cura di), Chiesa e società nel Goriziano fra guerra e movimenti di liberazione, Istituto di storia sociale e religiosa, Gorizia 1997.
[110]
Traggo la citazione da Pupo – Spazzali, op.
cit., p. 172. Cfr. Ibidem, p. 242.
[111] Ibid., p. 172.
[112] Giampaolo Valdevit, Foibe: l’eredità della sconfitta, in Id. (a cura di), Foibe, il peso del passato. Venezia Giulia 1943-1945, Marsilio, Venezia 1997.
[113] Traggo questo estratto da: Pupo – Spazzali, op. cit., p. 175. L’opera di riferimento è: Ibid., pp. 23-31.
[114] Traggo la citazione da Ibid., p. 176.
[115] Nevenka Troha è considerata dagli addetti ai lavori una delle voci più attendibili della storiografia slovena; è docente di storia contemporanea presso l’Università di Lubiana e ha fatto parte della commissione storico-culturale italo-slovena che ha lavorato alla stesura della relazione Rapporti italo-sloveni 1880-1956, in “Italia e Slovenia alla ricerca di un passato comune”, op. cit., pp. 71-97.
[116] Traggo questo estratto da: Pupo – Spazzali, op. cit., pp. 194-195. L’opera di riferimento è: Nevenka Troha, Fra liquidazione del passato e costruzione del futuro. Le foibe e l’occupazione jugoslava della Venezia Giulia, in G. Valdevit (a cura di), op. cit., p. 95.
* Per quanto riguarda le vicissitudini subite dagli italiani giuliano-dalmati, va detto che in questa sede si considerano come estremi di riferimento l’autunno del 1943 (primi infoibamenti) e il 1956 (conclusione dell’esodo di massa degli ultimi italiani della Zona B); tuttavia è doveroso ricordare che la questione giuliano-dalmata si è successivamente protratta fino ad oggi, poiché vi sono ancora dei contenziosi da sanare tra Italia, Slovenia e Croazia sulla questione dei beni abbandonati dagli esuli italiani e su altre vertenze giuridico-amministrative di vario tipo.
* u.c. = ultima consultazione