Capitolo II

 

IL CONFINE ORIENTALE NELL’IMMEDIATO DOPOGUERRA. L’ATTIVITA’ DIPLOMATICA ITALIANA E DELLE POTENZE OCCIDENTALI

 

 

 

2.1: L’OCCUPAZIONE MILITARE JUGOSLAVA DELLA VENEZIA GIULIA.

 

L’occupazione di Trieste da parte delle truppe jugoslave, soluzione unilaterale in pieno contrasto con quanto stabilito negli accordi delle Grandi Potenze, creò  indignazione negli ambienti istituzionali e diplomatici italiani.

L’attività compiuta dal Ministro degli Esteri, Alcide De Gasperi, antecedentemente l’occupazione delle forze titine della Venezia Giulia, fu notevole.

In una lettera riservata agli Ambasciatori in Italia di Stati uniti e Gran Bretagna, Kirk e Charles, il Ministro trentino manifestava la necessità che la Venezia Giulia fosse occupata dalle truppe alleate anglo-americane.[1]  In data 23 marzo 1945 il Ministro De Gasperi istruisce all’Ambasciatore a Washington, Tarchiani,   d’intrattenere il Dipartimento di stato, attirando la sua attenzione sul confine orientale. Secondo il Governo italiano, eventuali azioni unilaterali jugoslave comprometterebbero fortemente le future relazioni amichevoli fra il nostro Paese e il nuovo Stato jugoslavo.

L’intenzione degli Ambasciatori italiani presso le Grandi Potenze era quella di fare intendere che la questione della Venezia Giulia non fosse considerata come una semplice controversia fra Italia e Jugoslavia, bensì era fondamentale anche in relazione al futuro assetto della nuova Europa.

Rassicurazioni positive vennero comunicate a De Gasperi dall’Ambasciatore Tarchiani.[2]   Il diplomatico rassicurò da Washington che, in data 5 aprile, in un colloquio con il Dipartimento di Stato gli furono date informazioni più che positive circa il futuro della Venezia Giulia. Sostanzialmente espresse una comunanza d’intenti fra il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti e il nostro Paese. Peccato che queste promesse, solo venticinque giorni più tardi, resteranno inattuate. Gli americani fecero sapere che le questioni territoriali dovevano rimanere impregiudicate fino alla Conferenza della Pace e che i territori della Venezia Giulia dovevano essere occupati solo dalle forze alleate combattenti in Italia, con esclusione delle truppe interessate (Jugoslave). Gli Stati Uniti espressero anche un loro vigile interessamento sulla questione giuliana.

E’ risaputo che l’appoggio alle pretese egemoniche jugoslave, negli equilibri delle Grandi Potenze, provenisse da Mosca. Infatti, il nostro Ambasciatore al Cremlino, Pietro Quaroni, che fra l’altro vantava un rapporto d’amicizia personale con il rappresentante del Governo di Belgrado a Mosca, Ivan Subasic, intuì prima di tutti la difficoltà di potere intrattenere relazioni diplomatiche con le Autorità jugoslave[3]. Telegrafò a De Gasperi di avere avuto un colloquio privato con Ivan Subasic. Questi fece intendere che da parte jugoslava non c’era alcuna intenzione di trattare con noi il confine Orientale.

Quaroni dedusse che nel complesso la situazione “è per noi poco favorevole”, che gli Jugoslavi ancora ci ritenevano un Paese imperialista e fascista. Purtroppo essi non riconoscevano nessuno dei nostri sforzi: la cobelligeranza, l’avere combattuto in Istria al loro fianco contro il comune nemico, la ripresa democratica istituzionale del nostro Paese dopo la caduta del fascismo. Tanto meno volevano intrattenere relazioni bilaterali per al nuova delimitazione dei confini, sapendo che con noi avrebbero sempre avuto motivi di discussione.

La situazione nella Venezia Giulia nel maggio del 1945 era drammatica.  Nonostante i buoni propositi delle diplomazie occidentali, Trieste e tutta la costa istriana si trovò innanzi al fatto compiuto. Le truppe titine entrarono a Trieste il primo maggio, a Fiume il 3 maggio e a Pola il 4 maggio.

Il generale Freyberg, quando giunse in città il 2 maggio, declinò l’offerta fattagli dal C.L.N. locale di assumere i poteri della città.[4]  Ciò determinò a Trieste e in tutta l’Istria l’assunzione dei pieni poteri da parte delle truppe jugoslave che immediatamente esautorarono il C.L.N. italiano, tanto che non furono più riconosciuti i suoi ordini. Fu imposto il coprifuoco dalle quindici alle dieci del mattino[5], gli orologi vennero spostati di un’ora per uniformare il tempo a quello della Jugoslavia, gli istituti bancari ed assicurativi furono chiusi. La stampa fu soppressa ad eccezione di un unico quotidiano, il “Nostro Avvenire”, di tendenza slavo-comunista, diretto da Mario Pacor. In tutte le città della Venezia Giulia occupata dagli Jugoslavi vennero proibite tutte le manifestazioni di carattere italiano, tanto che le milizie occupanti comuniste sparavano alle bandiere italiane oppure le distruggevano.[6]  Il 5 maggio, ad Aidussina, una grande assemblea per la costituzione del Consiglio Sloveno proclamò l’annessione del litorale Adriatico alla madre Jugoslavia. Grandi cortei vennero organizzati per le vie di Trieste dagli Jugoslavi che attraversarono la città inneggianti alla Russia e a Tito.

Innanzi  a tutto ciò il Governo italiano era completamente paralizzato, non poteva avere alcuna relazione ufficiale con Trieste e le notizie le riceveva dal C.L.N. locale ormai completamente esautorato da qualunque compito.

Nell’Istria la situazione per l’Italia era ancora più drammatica, tanto da essere definita da De Castro “spaventosa”. Era in corso quell’operazione di indebolimento dell’elemento italiano che fu scientemente voluta da Tito ed ammessa serenamente da Kardelj, il quale riferì di essere stato mandato da Tito in Istria ad indurre gli Italiani ad andarsene ad ogni costo; in tale direzione operò.[7]

L’Istria occidentale risentì della durezze jugoslava anche sotto il profilo economico. Gli uffici pubblici non erano in grado di funzionare poiché chiusi dal Comitato di liberazione, furono allontanati, se non obbligati a scappare o arrestati, la maggior parte dei funzionari italiani. Gli stabilimenti, il silurificio di Fiume ed i cantieri furono occupati dai Comitati di fabbrica. Immediato licenziamento ed epurazione di tutti gli Italiani che, secondo il discutibile giudizio dei tribunali popolari, vennero accusati di collaborazionismo con il fascismo.

Anche sul fronte diplomatico non pervenivano notizie rassicuranti ; le promesse fatteci nel mese precedente dalle autorità diplomatiche occidentali circa l’occupazione  integrale della Regione alto adriatica da parte delle truppe Alleate si dimostrarono infondate. Il Ministro degli Esteri De Gasperi diede il via alla sua attività di sollecito presso le Ambasciate italiane a Parigi, Londra, Washington e Mosca[8]. In data primo maggio telegrafa nelle sedi diplomatiche citate ed esprime tutte le sue preoccupazioni circa l’ingresso delle truppe titine oltre la frontiera orientale e a Trieste. Ribadisce che la questione dei confini debba essere rimandata in tempi di pace più propizi per la negoziazione.

Intanto, anche in relazione alle comunicazioni pervenute al nostro Ministero degli Esteri,  pareva sempre più evidente che la questione dell’Alto Adriatico rientrasse in un contesto di strategie prestabilite circa l’atteggiamento delle Grandi Potenze.

Pietro Quaroni, da Mosca, in data 3 maggio, telegrafava l’esplicito appoggio dell’Unione Sovietica alle rivendicazioni jugoslave per la frontiera oltre l’Isonzo.[9] Anzi, il diplomatico italiano a Mosca faceva intendere che, da parte della stampa sovietica, la questione di Trieste e dell’Alto Adriatico non fosse interesse dell’opinione pubblica italiana, ma , bensì, dietro all’ostinazione del governo Regio si mascherassero rimasugli della vecchia politica imperialista e nazionalista tipicamente fascista.

In relazione a ciò, De Gasperi, telegrafò all’ambasciatore in Unione Sovietica che tutti i partiti italiani, compresi quelli di sinistra, “hanno preso posizione circa Trieste e la Venezia Giulia italiane”[10]. Le rimostranze dello Statista trentino si fecero sempre più insistenti nei confronti dei Nostri Rappresentanti presso le Ambasciate occidentali. In data 11 maggio[11] istruì a Tarchiani (a Washington) e a Niccolò Carandini (a Londra) di fare le più ampie riserve contro gli atti di sovranità compiuti in Venezia Giulia dalla Jugoslavia. Manifestava le proteste circa le volontà jugoslave di risolvere con atti arbitrari ed unilaterali questioni che i Governi alleati s’impegnarono a lasciare impregiudicate fino alla conclusione della pace. Raccomandava ai nostri Ambasciatori di recarsi al Dipartimento di Stato e al Foreign Office ad illustrare la situazione nei termini descritti. Era necessario sconfessare anche l’opinione del Cremlino, secondo cui la questione dell’Alto adriatico sarebbe “rimasuglio nazionalistico”. Viceversa, gli avvenimenti della Venezia Giulia, secondo De Gasperi, incidevano profondamente anche sulla situazione interna del Paese.

La politica del fatto compiuto nella Venezia Giulia da parte dell’occupatore jugoslavo creò notevole indignazione negli ambienti diplomatici italiani. Ma la semplice contrarietà agli atteggiamenti titini poteva fare ben poco, quindi era necessaria la più ampia attività delle nostre sedi diplomatiche all’estero. In tale direzione agì il Ministro degli Esteri De Gasperi.

Tarchiani, in data 19 e 21 maggio, comunicò al Ministro italiano che Belgrado[12] “ ha fatto sapere avere gli analoghi diritti degli Alleati circa la Venezia Giulia”. Il nostro rappresentante a Washington cominciava a prospettare situazioni sempre meno favorevoli per l’Italia nell’Alto Adriatico, il sogno di mantenere i confini del 1939 iniziava a svanire. Il Dipartimento di Stato  degli Stati Uniti, comunicava Tarchiani, accennava a riprendere in considerazione la linea Wilson.

La situazione si faceva preoccupante a Washington e a Londra, ovvero laddove l’attività politico-diplomatica doveva essere a noi più favorevole, si può immaginare il tono delle notizie che pervenivano dall’Unione Sovietica.

Quaroni riferì che gli sviluppi della questione di Trieste e della frontiera orientale erano seguiti con molto nervosismo da Mosca. Il Cremlino sosteneva in toto la politica del fatto compiuto jugoslava[13], però, per quanto Quaroni potesse dedurre, la Russia non avrebbe sostenuto i fratelli jugoslavi in questa fase della delimitazione dei confini; non era nell’interesse sovietico mostrarsi come l’unica grande Potenza vincitrice che appoggiava l’atteggiamento delle truppe titine. Mosca consigliava a Belgrado di cedere il meno possibile e di evitare, però, il conflitto armato per Trieste.

Si stava materializzando l’idea che le conversazioni fra Alexander e Tito fossero orientate verso la divisione della Venezia Giulia in due zone d’occupazione, seguendo la linea Wilson. De Gasperi in relazione a ciò istruisce, in data 6 giugno, il nostro Ambasciatore a Londra, pregandolo d’intervenire presso il Foreign Office.[14]

Il giorno successivo, 7 giugno, giungeva a De Gasperi una lettera dell’Ambasciatore britannico Charles[15], il quale affermava che la proposta finale fosse già stata consegnata a Tito e che l’occupazione jugoslava ad est della linea di demarcazione fosse dovuta a ragioni di carattere militare ed avrebbe riguardato popolazioni slave. La cosa più preoccupante era che Sir Noel Charles nella sua missiva non facesse alcun riferimento alla linea Wilson.

Prima di addentrarci nel merito degli accordi di Belgrado e del pregiudizio che essi hanno arrecato alle aspettative ed alla politica estera italiana, è interessante soffermarsi su quelli che possono essere considerati i capisaldi, le tesi principali con cui l’Italia stava conducendo la sua battaglia per la Venezia Giulia[16] . L’Italia riteneva necessario che la Venezia Giulia fosse occupata interamente dalle forze Alleate e che questa occupazione non pregiudicasse la Jugoslavia, in quanto le questioni territoriali dovevano giungere illibate al tavolo della pace e che, viceversa, l’occupazione jugoslava non avrebbe operato in tale direzione.

Il secondo punto cardine della diplomazia e del  Governo italiano era il non riconoscere “il fatto compiuto”, in quanto significava accettare l’anarchia contro la moralità internazionale e contro  i principi etico politici che riguardavano tutte le nazioni. Con ciò, comunque, si poneva da parte nostra la necessità d’instaurare una feconda amicizia con gli Jugoslavi, anche accettando una posizione di compromesso.

La terza questione sollevata fu porre all’attenzione delle Grandi potenze le atrocità compiute dagli Jugoslavi durante la loro occupazione, mettere in evidenza l’intensità con il quale il problema giuliano era sentito nel nostro Paese e il rischio che un’ingiusta sistemazione del problema in questione sarebbe stato pericoloso per il mantenimento di un ordine democratico ed avrebbe portato a rigurgiti nazionalisti[17].

Il giorno 9 giugno, la stampa e la radio diedero la notizia dell’Accordo di Belgrado[18]. Il testo raggiunse le nostre rappresentanze diplomatiche a Londra ed a Washington e trasmesso dalle stesse al Ministro degli Esteri.  Il giorno seguente l’intero testo dell’accordo apparve, tradotto, anche sui principali quotidiani italiani[19]. Il 10 giugno De Gasperi fece all’ANSA una dichiarazione che prevedeva un esplicito riconoscimento alla diplomazia occidentale per il sostegno all’Italia , ma nello stesso tempo il forte rammarico derivante dalla mancata occupazione delle truppe Alleate di tutto il territorio conteso. Purtroppo le eccezioni e le rimostranze degasperiane circa le difficili trattative condotte dagli anglo americani, finirono per irritare, in modo particolare, i Britannici[20]. Carandini, infatti, comunicava da Londra l’insoddisfazione inglese rispetto le nostre legittime rimostranze. Era evidente che in un momento delicato come questo fosse assolutamente da evitare qualunque incidente diplomatico.

Successivamente alla pubblicazione dell’accordo Alexander – Tito, De Gasperi iniziò una  attività di sollecito presso i nostri Ambasciatori. Il Ministro degli Esteri riteneva che l’accordo di Belgrado lasciasse, per la parte istriana, una certa latitudine d’interpretazione. In data 12 giugno ebbe un colloquio con gli Ambasciatori a Roma[21] degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, Charles e Kirk, il giorno seguente istruì le nostre Ambasciate a Washington e Londra. In queste due comunicazioni si chiedeva che la linea di demarcazione fra le due zone della Venezia Giulia fosse la strada nazionale fra Trieste e Pola; soprattutto si ribadiva la necessità che i cosi detti “ancoraggi della costa occidentale dell’Istria” venissero, celermente, occupati dalle truppe alleate, partendo dal presupposto dell’italianità indiscutibile di città come Muggia, Capo d’Istria, Isola, Pirano, Umago, Cittanova, Parenzo, Orsera, Rovigno e Fasano. Si misero al centro della questione le garanzie a favore degli italiani al di là della linea di demarcazione, in particolare la città di Fiume.

Gli Jugoslavi tra il 12 ed il 15 giugno, abbandonarono le città di Pola, Trieste e Gorizia occupando militarmente la zona ad est della linea Morgan. Il 13 giugno con la costituzione del Governo Militare Alleato, il comando della zona di Trieste venne assunto dal colonnello Alfred C. Bowman e l’incarico di Commissario Provinciale del G.M.A. venne affidato al Tenente Colonnello Francis J. Armstrong[22].

A Duino, in data 20 giugno, venne ratificato un Accordo tra il Comando Alleato e il Comando dell’Esercito jugoslavo. Lo scopo di questo trattato era fissare in modo sicuro le questioni che sorgevano nell’interpretazione dell’Accordo di Belgrado del 9 giugno.

L’atteggiamento non rassegnato di de Gasperi continuava presso le nostre rappresentanze diplomatiche a Londra e a Washington, anche presso il capo delle forze alleate Ammiraglio Stone[23]. A questi, in particolare, rimproverava una soluzione assai sfavorevole per l’Italia, che lasciava in Jugoslavia oltre 150000 italiani. Alle nostre Ambasciate  di Usa e Gran Bretagna De Gasperi lamentava che gli Accordi di Belgrado del  giugno consacravano per nove decimi il fatto compiuto da Tito. Purtroppo però le rimostranze italiane presso le forze occidentali non raggiungevano i risultati sperati[24]. Anzi, bisognava fare attenzione a non irritare ulteriormente gli anglo-americani, visto che, in prospettiva di Conferenza di Pace, erano la nostra speranza.

L’Ambasciatore Quaroni, anche  in relazione al fatto che esercitava la sua attività di diplomatico in Russia, dapprima in data 24 giugno poi il 16 luglio telegrafava circa la questione della frontiera orientale[25]: “ E’ bene non farsi illusione alcuna”, diceva l’allora rappresentante del Governo italiano a Mosca, “la Russia appoggia ed appoggerà tutte le richieste jugoslave, specialmente nella questione politica di Trieste”. Riferì, a differenza degli altri nostri Ambasciatori, che gli accordi di Belgrado dovevano essere da noi accolti con gioia e non con  rammarico. Che nemmeno il “Padre eterno” sarebbe stato in grado di sloggiare gli jugoslavi da Trieste. La Russia si era accorta che il fatto compiuto aveva reso antipatico Tito di fronte all’opinione pubblica mondiale.

Quaroni avvertiva che i Russi avrebbero fatto il possibile per riottenere alla Conferenza della pace Trieste. Strategicamente, per il Cremlino, la porta sui Balcani alle Potenze  occidentali era inamissibile.

La lungimiranza di Quaroni dedusse che la linea Tito-Alexander aveva molte probabilità di divenire  la base di discussione per la frontiera definitiva. “Sarebbe bene per noi”- disse Quaroni- “visto come stanno le cose, assicurarci che nei futuri negoziati la linea Morgan non venga ulteriormente peggiorata”. Il che era tutt’altro che impossibile, ad opinione del diplomatico. Fortunatamente, in data sedici luglio, da Mosca il nostro Ambasciatore telegrafa a De Gasperi di avere avuto un colloquio con Antonov, comunista russo di vecchio stampo, rappresentante dell’agenzia di stampa Tass e ben inserito negli  ambienti decisionali sovietici. Questi riferisce che non era intenzione dell’Urss subire l’astio italiano in seguito ad una soluzione a noi sfavorevole[26].

L’occupazione delle truppe di Tito, ad est della linea Morgan, andava sempre più consolidandosi. Ciò determinò l’inizio dell’esodo della popolazione italiana che, terrorizzata, fuggirà dalle angherie dell’amministrazione jugoslava.

 

 

2.2:  LA CONFERENZA DI POTSDAM

 

La Conferenza di Potsdam, la più lunga fra le conferenze interalleate di guerra, ebbe inizio nella città dei sobborghi orientali di Berlino il 17 luglio e terminò il 2 agosto del 1945. Essa ebbe un andamento fortemente caratterizzato dalla nuova condizione nella quale i protagonisti si trovavano. Truman era infatti nuovo a queste esperienze internazionali, non aveva ancora raggiunto alcun grado di confidenza con Churchill e nutriva una spiccata diffidenza nei confronti di Stalin.[27]

Dopo la resa della Germania, le Nazioni Unite si trovarono di fronte tutti i problemi relativi alla ricostruzione dell’assetto europeo senza per altro essersi liberate del conflitto ancora in corso in Giappone. A Potsdam gli americani erano ben decisi ad ottenere la collaborazione dei sovietici sia nel definire l’assetto di pace in Europa, sia per lo sviluppo del conflitto con il Giappone.

Churchill ribadiva la convinzione che il tempo lavorasse in favore dei sovietici ed insisteva con Truman perché si arrivasse quanto prima ad un incontro a tre con Stalin, conservando nel frattempo tutte le posizioni di forza di cui si disponeva, sospendendo il ripiegamento delle forze americane verso il Pacifico e mantenendo l’occupazione di tutti i territori tedeschi nei quali erano avanzate le unità di Eisenhower[28].

Senza aderire alla linea di contrapposizione nei confronti dei sovietici, suggerita da Churchill, ed in relazione all’impiego di un mezzo di pressione quale il mantenimento delle proprie truppe nei territori tedeschi, gli Stati Uniti avevano assunto un atteggiamento di maggiore cautela nei rapporti con il Kremlino e avevano fatto ricorso al loro potenziale economico utilizzandolo come diretto strumento di pressione. Negli scambi di vedute sul futuro del vecchio continente che intercorrevano fra le due sponde dell’Atlantico uno degli argomenti più importanti era l’Italia.

La crisi di Trieste non aveva mancato di ripercuotersi anche sul progetto di trattato con l’Italia completato dal Foreign Office il 19 maggio e messo a disposizione del comitato interministeriale per gli armistizi e il dopoguerra. Rispetto alla bozza del marzo precedente le soluzioni previste dal nuovo testo apparivano anche meno definite: per la parte territoriale, più che decidere l’ampiezza e la sorte delle aree che l’Italia avrebbe ceduto definitivamente, esse miravano ad ottenere subito l’assenso di Roma alle soluzioni finali che i vincitori avrebbero adottato in un secondo momento. A causa delle acute tensioni si preferiva infatti rinviare decisioni che avrebbero potuto essere laceranti per la solidarietà fra le Nazioni Unite. Veniva così soppressa ogni ipotesi di cessione territoriale diretta alla Jugoslavia non solo riguardo alla parte orientale della Venezia Giulia. Anche per Zara e le isole dalmate il cui passaggio sotto la sovranità di Belgrado, pur essendo scontato, si preferiva rinviare ad un momento successivo per evitare l’emergere delle pretese di Tito sulla regione giuliana.

Per la Venezia Giulia e per Zara, l’Italia avrebbe dovuto rinunciare a tutti i suoi diritti  a favore degli Stati Uniti, dell’Unione Sovietica, della Gran Bretagna e della Francia; impegnarsi a riconoscere le misure adottate dalle grandi potenze per l’amministrazione provvisoria di quei territori e la validità degli atti da esse compiuti dal momento dell’entrata in vigore del trattato al momento dell’attribuzione definitiva delle aree cedute a garantire infine l’accettazione della sistemazione finale comprese le questioni relative alle proprietà, alla nazionalità e al trasferimento degli abitanti e al tracciato delle nuove frontiere.

Di tale tracciato e della sorte di Trieste non si faceva alcun cenno nel testo del trattato. Nel memorandum illustrativo che lo accompagnava si precisava che l’angolo nord-orientale (Tarvisio) della zona contesa avrebbe potuto andare all’Austria mentre ogni sistemazione che avesse privato gli italiani di Trieste e delle zone prevalentemente abitate da loro connazionali nell’isontino e nel goriziano avrebbe causato un vivo risentimento nella penisola e, pertanto, era esclusa ogni possibilità di accogliere le estreme richieste jugoslave.

Il 18 luglio, mentre incominciava la Conferenza di Potsdam, Carandini e Tarchiani si rivolgevano al Foreign Office e al Dipartimento di Stato comunicando di avere appreso che il trattato che si stava preparando conteneva clausole molto dure per il loro paese e chiedendo che , se proprio non era possibile eliminarle, venisse rinviata la conclusione della pace[29].    

In realtà sia gli americani che gli inglesi non erano a Potsdam con l’intenzione di fissare i termini del trattato di pace con l’Italia, ma solo per deciderne il tenore generale e le modalità di preparazione. Ritenevano infatti opportuno che la soluzione dei problemi della pace in Europa venisse cercata preliminarmente da un Consiglio dei Ministri degli Esteri delle cinque grandi potenze vincitrici, cioè: Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna, Francia e Cina.   

Gli americani, anche in base a quanto riferito da Tarchiani[30] in una nota a De Gasperi, erano andati con l’intenzione di ottenere nei nostri confronti una pace favorevole. In seguito ad informazioni ottenute in via confidenziale dal Nostro Ambasciatore a Washington, c’era stato un miglioramento in nostro favore nei circoli dirigenti di Londra. Sia Stati Uniti che Gran Bretagna non avrebbero mai consentito, nei nostri confronti, una pace  “ingiusta ed oppressiva”.

L’Unione Sovietica rinunciava ad affrontare il problema del regime di occupazione della Venezia Giulia. Gli jugoslavi rimanevano così soli nel sostenere nei confronti degli occidentali le loro posizioni espresse con rigida chiarezza fin da Duino[31].

 Il comunicato di Potsdam[32] era tutt’altro che chiaro e le interpretazioni sul funzionamento delle future discussioni relative alla pace variavano molto ma, indipendentemente dalle singole posizioni delle Grandi Potenze, pareva esserci un denominatore comune: l’Italia sarebbe stata ammessa ad esporre il proprio punto di vista attraverso una delegazione che sarebbe stata inviata a Londra.

2.3: IL FALLIMENTO DELLA CONFERENZA DI LONDRA. (11 SETTEMBRE – 3 OTTOBRE 1945)

 

Il periodo antecedente l’inizio del Consiglio dei Ministri degli esteri a Londra si contraddistinse per il rifiuto ufficiale del Ministro De Gasperi di chiedere il plebiscito nella Venezia Giulia. Il Ministro degli Esteri, in data 25 agosto, comunicava a Quaroni a Mosca la necessità di evitare il plebiscito[33], in quanto poteva essere pericoloso e creare il precedente per una soluzione parallela in Alto Adige (terra particolarmente cara a De Gasperi). Secondo lo Statista trentino era importante riallacciare trattative dirette con Belgrado. In tale direzione istruì l’Ambasciatore Quaroni a Mosca, vista l’unità d’intenti della diplomazia sovietica e di quella jugoslava.

Le speranze italiane di riallacciare il dialogo con Belgrado restarono vane, così come De Gasperi comunicava a Carandini e all’incaricato d’affari a Washington, Di Stefano[34]. Nessuno sforzo italiano venne riconosciuto  da parte jugoslava, nostro obiettivo era quello di fare intendere all’opinione pubblica mondiale che le difficoltà che si frapponevano alla normalizzazione dei rapporti dei rapporti fra i due Paesi non pervenivano da parte italiana.

Ancora una volta l’Ambasciatore Quaroni, dalla sede diplomatica più ostile nei nostri confronti, telegrafava a De Gasperi circa la situazione in Jugoslavia[35]. Comunicava un suo colloquio con il signor Shapiro, corrispondente a Mosca dell’United Press, il quale era appena tornato da un viaggio in Jugoslavia. La situazione politica di quel Paese vedeva il regime comunista titino “solidamente stabilito”, anzi, in caso di elezioni libere avrebbe avuto una maggioranza assoluta. A Belgrado tutti erano convinti di riuscire ad ottenere Trieste. Secondo Shapiro, Tito non dava molta importanza alla questione dei confini orientali, ma conduceva questa battaglia per soddisfare gli elementi nazionalisti croati e sloveni. Quaroni concludeva la sua nota rammentando che Shapiro fosse “un cacciatore di  notizie” e avesse una larga conoscenza dei Balcani.

Per inquadrare la drammaticità del momento che precedeva la Conferenza di Londra è interessante soffermarsi sulla lettera personale scritta al Ministro De Gasperi dal Vescovo di Trieste, Monsignore Antonio Santin[36]. In data 3 settembre, il Vescovo invocava solo giustizia[37]. L’Istria, a detta di Mons. Santin, apparteneva all’Italia, come le appartengono la Liguria, il Piemonte e la Toscana. A suo parere la linea Wilson andava considerata alla stregua di un dogma di fede, che non poteva essere rettificato in peggio per l’Italia. E forse la parte più toccante della lettera era laddove Mons. Santin rammentava a De Gasperi che i quaranta giorni di occupazione jugoslava di Trieste avevano avuto carattere di autentica barbarie, sicuramente paragonabili, se non peggiori, a quelle compiute dai nazifascisti. La volontà dell’Autorità Ecclesiastica triestina era quella di alzare i toni per rendere consapevole l’Italia della gravità di quanto stesse succedendo in Venezia Giulia.

L’undici settembre si riunì a Londra il Consiglio dei Ministri degli Esteri, l’Italia riponeva grosse aspettative da questa Conferenza. La riunione era stata fissata per l’uno settembre, poi venne rimandata al giorno undici, preceduta da una conferenza stampa del Segretario di Stato americano Byrnes, il quale aveva confermato che la questione italiana sarebbe stata trattata per prima.

L’asse maggiore delle corrispondenze diveniva quello tra l’Ambasciata a Londra e Roma, con diramazioni alle altre tre principali Ambasciate.

Lo stesso giorno dell’apertura della Conferenza, De Gasperi istruì i nostri ambasciatori circa la necessità di fare in modo che la consultazione fosse effettiva, dandoci la possibilità di esporre e discutere.

La conferenza per il Nostro Ministro degli Esteri non poteva prescindere dalla nostra diretta partecipazione. La nostra consultazione doveva avvenire durante i lavori del Consiglio dei Ministri, non a Conferenza conclusa[38].

L’11 settembre, Carandini confermava in una lettera personale a De Gasperi che la Conferenza aveva accettato di discutere, come primo, il Trattato con l’Italia. Gli era poi stato assicurato che gli Americani, i Britannici, e i Cinesi sarebbero stati favorevoli all’italianità di Trieste con porto internazionalizzato e ad una divisione della penisola istriana in base, all’incirca, alla linea Wilson[39].

Il 14 settembre veniva comunicato ufficialmente alla nostra ambasciata a Londra che i Ministri degli Affari Esteri avevano deciso di richiedere al Governo italiano se desiderasse presentare i suoi punti di vista al Consiglio circa la questione della frontiera jugoslavo-italiana  e sul futuro della città e del porto di Trieste[40]. Carandini raccomandava a De Gasperi d’intervenire personalmente; oltre alle comunicazioni verbali avremmo potuto lasciare al Consiglio un Memorandum scritto corredato da documentazione.

Il 15 settembre, sempre Carandini, comunicava l’evidente atteggiamento ango-americano per l’italianità di Trieste e l’internazionalizzazione del porto[41]. Al contrario, pareva campo di battaglia la ripartizione dell’Istria lungo la linea Wilson, forti opposizioni provenivano dal Ministro degli esteri della Russia, Molotov.

Ovviamente la partecipazione  al Consiglio dei Ministri degli Esteri era prerogativa anche del Ministro jugoslavo Edvard Kardelj. L’esposizione dei due delegati (jugoslavo e italiano) non si compì il giorno 16 settembre ma il giorno 18, causa guai fisici dello sloveno Kardelj (si dice che avesse sofferto di mal d’aria venendo in aereoplano). Il discorso[42] di quest’ultimo si basava su argomentazioni etniche, in base alle quali i Croati e gli Sloveni erano gli originari abitanti della Regione. In tutta l’Istria, a parere di Kardelj, solo più tardi s’infiltrarono gli oppressori italiani. Egli puntava l’indice contro la snazionalizzazione fascista e la politica imperialista[43].

L’intervento di De Gasperi[44], viceversa, si basava sul concetto di “solidarietà europea”. Lo Statista trentino dichiarò di non voler fare un discorso tattico, di essere conscio dei sacrifici che dovevano essere fatti in nome della solidarietà europea e della ricostruzione di un’Europa più grande.

I temi utilizzati da De Gasperi fecero rammentare che vittime del fascismo non furono solo gli Jugoslavi, ma anche tanti Italiani, e che il Trattato di Rapallo fu liberamente concluso. Infine, sosteneva la centralità della linea Wilson. De Gasperi fece un appello al Consiglio dei Ministri degli Esteri perché prendesse immediate misure di emergenza al fine di attenuare le drammatiche conseguenze economico -sociali  a est della linea Morgan. Era necessario intervenire per combattere la disoccupazione e la fame nella zona B.

Il 20 settembre, da Londra, De Gasperi comunicava al Segretario generale agli esteri, Prunas, le decisioni di massima del Consiglio dei Ministri affari esteri circa la questione della Venezia Giulia. Prevedeva una internazionalizzazione limitata al porto di Trieste. L’assegnazione della Venezia Giulia fra Italia e Jugoslavia “avverrà su criteri etnici con lo scopo di ridurre al minimo le minoranze sotto il dominio straniero”[45], proseguiva il Ministro degli esteri, “dopo giornate di trepidazione siamo tranquillizzati perché se ancora niente è assicurato, si è tuttavia aperta una porta verso una equa soluzione”.

Al Segretario Genereale degli Esteri Prunas, in data 21 settembre, telegrafò anche l’Ambasciatore Carandini. Comunicò che per la Venezia Giulia fosse in atto una politica di temporeggiamento. Carandini seppe, da fonti moto vicine a Byrnes, che la tattica americana era quella di ritardare i negoziati, anziché subire il dettato moscovita che prevedeva le così dette zone d’influenza[46].

Carandini era anche riuscito a sapere che gli Jugoslavi avevano chiesto il confine italo – austriaco del 1866; nella seduta successiva lo avevano, addirittura, spostato a ovest, includendo nella Jugoslavia: Cividale, Tarcento, Monte Musi, Resciutta, Zuc del Bor e Monte Cavallo.

Il 22 settembre, De Gasperi, da Londra, telegrafava a Prunas di avere avuto un breve colloquio con Byrnes[47] . Il Segretario di Stato americano confermava la buona impressione destata all’opinione pubblica delle Potenze occidentali, in seguito al nostro intervento in sede di Conferenza dei Ministri degli esteri. Washington, per bocca di Byrnes, condivideva le argomentazioni degasperiane circa la delimitazione del Confine orientale.

Ma, con nostro rammarico, come denunciava Carandini, in data 4 ottobre 1945[48], la Conferenza dei cinque Ministri degli esteri andava considerata alla stregua di un “fallimento diplomatico”! Carandini riteneva che il mancato conseguimento di alcun risultato andasse ricondotto all’assoluta mancanza di preparazione dei lavori conferenziali. Le tesi che si erano scontrate nella Conferenza erano, ovviamente, inconciliabili. Gli Americani, senza però manifestarlo esplicitamente, avrebbero voluto  la linea Wilson; gli Inglesi pensavano di sostenere che si dovesse applicare il principio etnico; i Russi volevano che le campagne conglobassero le città e che la Venezia Giulia fosse un tutt’uno da assegnare interamente alla Jugoslavia.

Le tesi preconcette delle Grandi Potenze si disinteressavano completamente delle argomentazioni esterne di qualunque provenienza esse fossero (italiane, sudafricane, neozelandesi o australiane).

Dopo la Conferenza di Londra l’unico vero obiettivo centrato dai quattro Ministri degli Esteri fu rinviare a più avanti la questione Venezia Giulia, dopo una preventiva visita in loco di un’apposita Commissione dei confini[49].

 

 

 

2.4:  L’AZIONE DIPLOMATICA ITALIANA DAL NOVEMBRE 1945 ALLA CONFERENZA DI MOSCA. 

 

Nonostante non si fosse raggiunto con la Conferenza del Consiglio dei Ministri di Londra alcun risultato plausibile, la diplomazia italiana non si scoraggiò e proseguì la sua politica persuasiva nei confronti delle Grandi Potenze, in relazione a una equa soluzione del confine giuliano.

Notevole fu lo scambio d’informazioni fra il Governo italiano e la nostra rappresentanza diplomatica a Mosca, retta da Pietro Quaroni. De Gasperi intuì  l’importanza d’instaurare relazioni amichevoli e dirette con Belgrado, con il consenso Mosca. Quaroni, il 31 ottobre 1945[50], comunicò di avere avuto una conversazione con l’ambasciatore jugoslavo a Mosca, Popovic, nel corso di un ricevimento all’ambasciata di Cecoslovacchia. Il colloquio, al quale presenziava anche il sovietico Vyshinky, si svolse amichevolmente; ciò faceva ben sperare circa i futuri contatti diretti fra l’Italia e la Jugoslavia. Dalla piacevole discussione si delinearono i principi che reggevano gli atteggiamenti jugoslavi e russi in relazione alla Venezia Giulia.

Vyshinky disse che i rapporti fra noi e gli Jugoslavi sarebbero tornati ottimi nel momento in cui ci fossimo decisi ad abbandonare le nostre pretese su Trieste. In questa conversazione da salotto si scopriva la volontà della diplomazia sovietica: fare in modo che la difficile questione venisse risolta direttamente dai due paesi.

In questa occasione, Quaroni, accennò alla soluzione del Plebiscito. Opinione comune era che questo fosse mal digerito da tutti, da De Gasperi, che temeva si formasse un precedente poi utilizzabile in Alto Adige; dalla Jugoslavia, consapevole che un regolare plebiscito avrebbe dato risultati a favore dell’italianità della Regione Giuliana; e dalla Russia che assecondava la volontà di Belgrado.

Nel frattempo si faceva sempre più insistente la voce che riteneva la nomina degli esperti una farsa, in quanto le posizioni delle Grandi potenze erano già state stabilite. Sempre Quaroni, però, grazie a un colloquio avuto con  un alta personalità sovietica  che partecipò alla conferenza di Londra, smentì categoricamente questa illazione. Gli esperti, disse il diplomatico a Mosca, “avranno ordini ben precisi di procedere ad un esame accurato della zona dal punto di vista etnico e di suggerire una linea di demarcazione”[51].

De Gasperi accolse e fece tesoro delle comunicazioni fattegli da Quaroni. Si poteva facilmente ribadire che da parte nostra, già più volte ci si era messi nel tentativo di ristabilire civili contatti con Belgrado, ma costantemente s’incontrava un ostinato rifiuto. Nonostante ciò, in data 19 novembre, De Gasperi[52] riferì a Quaroni  la nostra volontà di riprendere contatto con Belgrado. Se proprio la Jugoslavia rifiutava una nostra presenza diplomatica, a Roma invece i tempi erano maturi. Il nostro governo dimostrava umiltà e voglia di collaborazione bilaterale.

De Gasperi informava a Tarchiani, Carandini e Saragat di richiedere i “buoni uffici” presso i loro rispettivi Governi per esplorare a fondo la possibilità di accordi diretti con la Jugoslavia[53]. Da parte nostra si voleva che si trattassero direttamente: la questione dei rifugiati jugoslavi in Italia e la questione dei deportati italiani nella Venezia Giulia.

Riassumendo, prima di arrivare alla Conferenza di Mosca, dopo il fallimento di quella di Londra, l’Italia perseguiva tre obiettivi:

1)     la pace provvisoria, difficile da concedere perché gli Alleati non erano interessati a riconoscerla agli stati protetti da Mosca;

2)     la cessazione dello status di armistizio,

3)     l’inizio di relazioni dirette italo – jugoslave. Quanto meno instaurare colloqui con il rappresentante jugoslavo nel Comitato Consultivo Alleato, il titoista Smodlaka junior, per poi giungere a vere e proprie relazioni diplomatiche. 

La conferenza di  Mosca non decise nulla circa la Venezia Giulia che in realtà non era nemmeno negli argomenti da discutere. Sarebbe stata, invece, molto importante in relazione alle modalità di svolgimento della Conferenza della Pace.

Byrnes riuscì a fare accettare a Stalin l’elenco dei ventuno paesi partecipanti alla Conferenza di Parigi. Fu annunciata al mondo la futura convocazione della Conferenza e venne stabilito che le Grandi Potenze non sarebbero state vincolate alle raccomandazioni dei Paesi minori durante la Conferenza stessa[54].

La Russia riuscì ad attribuire in via esclusiva, alle tre Grandi Potenze, i ruoli di giudici dotati di poteri discrezionali amplissimi. Ciò determinò l’unanimità nelle decisioni e la necessità del compromesso fra le opposte tendenze, con la facoltà per il Cremlino di abusare del diritto di veto e obbligare Britannici e americani ad avvicinarsi il più possibile alla volontà di Mosca.

Altra conseguenza negativa della Conferenza di Mosca fu l’equiparazione del Trattato italiano agli altri Trattati; tutto ciò era per noi negativo e vanificava le speranze fatteci dalle potenze occidentali.

Nello scenario politico italiano il 1945 si contraddistinse anche per la formazione del governo De Gasperi. Nacque il 10 dicembre, quarantotto ore dopo l’ammiraglio Stone comunicò la restituzione all’amministrazione italiana di tutto il territorio “da Pantelleria al Brennero”, con la sola eccezione della Venezia Giulia e della provincia di Udine.

Era dunque il primo governo, dall’armistizio in poi, ad acquistare la piena giurisdizione sul territorio nazionale. Si apriva l’età degasperiana, si sarebbe chiusa otto anni più tardi in un contesto economico, per l’Italia, trasformato e ricostruito[55].

Non era casuale che il Governo fosse presieduto dal ministro degli Esteri; il pieno reinserimento dell’Italia tra le libere nazioni era per De Gasperi l’obiettivo preminente, cui dedicava il massimo delle cure. L’Italia non era mai stata governata da un esponente del partito cattolico. Il leader della DC era leader di una eterogenea compagine governativa che rifletteva la struttura del CLN.

 

 

 

2.5:  LE AMBIGUITA’ DEL P.C.I. E LA QUESTIONE GIULIANA

 

Sin dal giugno del 1941 il P.C.I. aveva accettato in linea di principio che le unità partigiane di orientamento comunista, operanti nel settore giuliano, venissero poste sotto il controllo delle strutture partigiane jugoslave; in precedenza è stato trattato il tema riguardante il distaccamento della Brigata Garibaldi e la sua unione alle formazioni slovene. In quegli stessi giorni le organizzazioni partigiane italiane non comuniste operanti nella Venezia Giulia evidenziavano la loro diffidenza verso i partigiani jugoslavi e il loro acceso nazionalismo; questi ultimi non fecero mai nulla per celare le loro mire annessionistiche[56].

Il problema di Trieste e della Venezia Giulia mise Togliatti in una posizione pericolosa e difficile. Egli doveva seguire le direttive di Mosca senza farsene completamente schiavo e nello stesso tempo far apparire il suo partito come un “partito nazionale” che difendeva l’italianità di Trieste.

Nel 1945 pareva ai principali osservatori che la politica filo – titina condotta dal PCI seguisse tre scopi distinti: 1) accettazione del fatto compiuto titino. 2) Continuare a sbandierare il principio dell’autodeterminazione. 3) Soddisfare quel briciolo di italianità che poteva rimanere nell’ideologia internazionalista[57].

Il concetto di massima che ispirava la politica togliattiana era basato sul necessario accordo diretto con la Jugoslavia, contravvenendone le aspirazioni quando potessero danneggiare la politica nazionale del PCI.

E’ evidente la politica del non compromettersi, una politica piuttosto ambigua che proclamava, prima dell’occupazione triestina, di considerare alla stregua di nemici del popolo coloro che si fossero opposti al fatto compiuto jugoslavo, ma che, dopo la Conferenza di  Londra, appoggiava la risoluzione del principio etnico, così come voluto dalla “madre” Russia. Ma, il concetto di principio etnico per il PCI non significava rifarsi a criteri di appartenenza e di lingua, bensì, come espresso da Longo alla Commissione Esteri della Consulta, bisognava rifarsi ai desideri degli abitanti della Venezia Giulia “riuniti in organizzazioni popolari democratiche”.

Questa uscita di Longo imbarazzò molto gli ambienti diplomatici italiani, venne interpretata a Mosca e dall’Ambasciatore jugoslavo al Cremlino come volontà della popolazione italiana residente in Istria di essere annessi alla nuova Jugoslavia[58]. Prunas rispose a Quaroni , affermando che la dichiarazione di Longo fosse  falsa e del tutto arbitraria.

L’ambiguità di Togliatti diede vita , nell’estate del 1945, al Partito Comunista della Venezia Giulia. Questa formazione politica prese posizioni marcatamente annessionistiche. In data 24 maggio votò, ad Abbazia, l’annessione alla Jugoslavia. I dissensi interni del PCI con la  federazione giuliana culminarono il 30 settembre quando Togliatti fece votare una risoluzione che sconfessò l’azione del PCIVG e minacciò di rilevarne pubblicamente il dissenso[59]. Il segretario nazionale del PCI disse di “ comprendere, ma non giustificare la condotta dei compagni triestini”[60].

La posizione dei comunisti triestini fu apertamente filoslava fino al 28 giugno 1948, data della scissione tra Belgrado e Mosca[61]. Bisogna distinguere due periodi: quello che precede la venuta di Vittorio Vidali, nel marzo del 1947 e il successivo. Nel primo l’obbedienza è tanto cieca da giungere talvolta al grottesco, tale periodo fu caratterizzato dalle tesi annessionistiche, che venivano formulate non in base a criteri etnici, ma esclusivamente su principi ideologici.

Con la direzione di Vittorio Vidali[62] il partito comunista del Territorio Libero di Trieste assunse una maggiore autonomia; questi, convinto internazionalista,  intuì che fra gli Jugoslavi si nascondeva un gretto nazionalismo. Le marcate differenze fra i comunisti giuliani di etnia italiana e quelli di etnia croato-slovena si evidenziarono allorquando Tito venne espulso dal blocco Cominformista[63], si scoprì infatti che nelle carceri jugoslave vi erano moltissimi condannati politici di origine italiana[64].



[1] DOCUMENTI DIPLOMATICI ITALIANI, serie X (1943-1948), Vol. II, Doc. n. 91, pag. 117

Lettera riservata del Ministro degli Esteri De Gasperi agli Ambasciatori a Roma di Gran Bretagna e Usa, Charles e Kirk, 14 marzo 1945.

   D.D.I., serie X, vol. II, Doc. n. 104, pag. 138. De Gasperi a Tarchiani, Roma, 23 marzo 1945. 

[2]  D.D.I., serie X, vol. II, Doc. n. 114, pag. 153. Tarchiani a de Gasperi, Washington, 5 aprile 1945

[3] D.D.I., serie X, vol. II, N. Doc. 128, pag. 172.  Quaroni al Ministro degli Esteri De Gasperi; Mosca, 17 aprile 1945.

Il nostro diplomatico manifestò la volontà italiana di riallacciare rapporti diplomatici con gli Jugoslavi

[4] SANTIN ANTONIO, Al tramonto. Ricordi autobiografici di un vescovo, LINT, Trieste, 1978

  ENNIO MASERATI, L’occupazione jugoslava di Trieste, Del Bianco Editore, Udine, 1966

[5] ELIO APIH, Trieste,  La Terza, Bari,  1988

[6] ROBERTO SPAZZALI, Epurazione di frontiera. 1945-1948. Le ambigue sanzioni contro il fascismo nella Venezia giulia. Libreria Editrice Goriziana, Gorizia, 2000.

Lo storico triestino Roberto Spazzali cita nella sua opera le osservazioni di Sylvia Sprigge, corrispondente del Manchester Guardian. Essa osservò immediatamente il carattere annessionistico dell’occupazione jugoslava, che si stava legittimando a Trieste e nell’Istria occidentale attraverso i decreti emessi dal Comitato regionale di liberazione Nazionale.

ANTONI PITAMITZ, “Tutta la verità sulle foibe. Le stragi di italiani nella Venezia Giulia.” In “Storia Illustrata”, n.306 maggio 1983, tratto da Difesa Adriatica, periodico dell’Associazione Venezia Giulia e Dalmazia. N.3, anno 2000, pag. 6.

Il De Castro denunciò la sparizione di cittadini italiani ad opera delle truppe titine. Il discorso sulle foibe verrà affrontato successivamente

[7] EDVARD KARDELY, “Il vero volto storico della questione di Trieste”, tratto  dalla rivista “Tempi e cultura”- Rivista semestrale dell’Istituto Regionale per la Cultura Istriana. Anno IV, Primavera 2000, pag. 38

[8] D.D.I., serie X, vol. II, DOC. 163, pag. 226. De Gasperi a Quaroni, Tarchiani, Carandini, Saragat. Il Ministro degli esteri manifestava la sua preoccupazione per l’ingresso delle truppe jugoslave nel confine orientale.

[9] D.D.I., serie X, Vol. II, Doc.  165, pag.228 , Quaroni a De Gasperi.; Mosca, 3 maggio 1945.

[10] D.D.I., serie X, vol. II, Doc. 183, pag. 247, De Gasperi a Quaroni,; Roma,  10 maggio 1945

[11] D.D.DI, serie X, vol. II, Doc. 184, pag. 248, De Gasperi a Tarchiani e Carandini; Roma, 11 maggio 1945

[12] D.D.I., serie X, vol. II, Doc. 207, pag. 282. Tarchiani a De Gasperi; Washington, 19 maggio 1945

[13] D.D.I., serie X, vol. II, Doc. 217, pag 298. Quaroni a De Gasperi; Mosca, 25 maggio 1945

[14] D.D.I., serie X, vol. II, Doc. 241, pag. 331. De Gasperi a Carandini; Roma 6 giugno 1945

[15] D.D.I., serie X, vol. II, Doc. 244, pag. 336. Charles a De Gasperi; Roma, 7 giugno 1945

[16] De Castro, Op. citata, pag.336

[17] D.D.I., serieX, vol. II, Doc. 245, pag. 337. Prunas a Quaroni; Roma, 8 giugno 1845

[18] Si veda l’allegato a  pag. 111.

[19] D.D.I, Serie X, vol. II, Doc. 246,  Pag. 338; Carandini a De Gasperi. Londra, 9 giugno 1945.

L’Ambasciatore a Londra Carandini telegrafava a De Gasperi alle h. 22e 35 del 9 giugno il contenuto degli accordi fra Alexander e Tito circa il futuro della Venezia Giulia:

1)       vengono poste sotto controllo militare alleato intere zone ovest della linea che, passando un poco ad oriente di Trieste, include Gorizia, Caporetto, Tarvisio, Pola città ed ancoraggi Istria occidentale.

2)       Distaccamento jugoslavo , non più di duemila uomini resterà ad occidente della linea di demarcazione, costoro non potranno accedere al resto della zona occupata.

3)       Ristretto numero di osservatori jugoslavi ammessi presso il quartiere generale dell’ottava armata.

4)       Le truppe jugoslave dovranno ritirarsi entro le 8h. antimeridiane del 12 corrente mese.

5)       Restituzione degli arrestati e dei deportati unitamente alle proprietà confiscate.

6)       L’accordo non compromette nulla circa la definitività tanto della zona est come della zona ovest della linea suddetta.

[20]D.D.I, Serie X, vol. II, Doc. 248, pag. 341. Carandini a de Gasperi; Londra, 9 giugno 1945

        [21]  D.D.I., Serie X, Vol. II, Doc. 253, pag. 348. De Gasperi a Charles e Kirk; Roma, 12 giugno, 1945

     D.D.I., Serie X, Vol. II, Doc. 263, pag. 360. De Gasperi a Tarchiani e Carandini; Roma, 15 giugno, 1945. Viene espresso ufficialmente l’atteggiamento italiano circa l’accordo Alexander – Tito.

[22]AA.VV., Storia di un esodo, op. citata.

[23] D.D.I., Serie X, Vol. II, Doc. 279, pag. 376. De Gasperi a Stone. Roma, 21 giugno 1945.

[24] D.D.I, Serie X, Vol. II, Doc. 290, pag. 391. Tarchiani a De Gasperi. Washington, 26 giugno 1945.

Philips commenta a Tarchiani che l’accordo costituiva il massimo raggiungibile, che era definitivo e che non c’era alcuna intenzione di sparare per Trieste e la Venezia Giulia. Purtroppo Washington fa sapere ufficialmente che non sarebbero stati occupati gli ancoraggi, riponendo la massima fiducia sulla buona condotta delle Autorità jugoslave.

[25] D.D.I., Serie X, vol. II, Doc. n. 342 e 343, pag. 457 e 460. Quaroni a De Gasperi. Mosca, 16 e 17 luglio 1945.

 

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[26] Nel doc. numero 343 Antonov ammette che nell’entourage di Tito si trovano mascherati da comunisti o da progressisti elementi ultra nazionalisti.  

[27] ENNIO DI NOLFO, Storia delle relazioni internazionali 1918-1992, Editore Laterza, Bari, 1994. Pag. 556

[28] ANTONIO DE ROBERTIS, in Le grandi potenze, op. citata, pag.357.

[29] D.D.I., Serie X, vol. II, Doc. n.349, pag. 470, Tarchiani e Carandini a De Gasperi, Washington, 18 luglio 1945.

[30] D.D.I, serie X, vol. II, Doc. 403, pag. 536.  Tarchiani a De Gasperi. Washington, 10 agosto 1945. 

[31] Gli jugoslavi infatti richiedevano che nella zona A venissero lasciate in funzione le strutture amministrative esistenti al momento in cui gli  alleati avevano assunto il controllo della zona ad ovest della linea di demarcazione concordata. Essi ritenevano inaccettabile l’atteggiamento degli alleati in quanto reintroducendo la legislazione e l’amministrazione italiana davano l’impressione di annettere le zone contese all’Italia. Tratto da: ANTONIO DE ROBERTIS, Le grandi potenze,  op. citata, pag. 372. 

[32] Diego De Castro,  La questione, op. citata, pag. 357.

[33] D.D.I., Serie X, Vol. II, Doc. 457, pag. 622. De Gasperi a Quaroni.  Roma, 25 agosto 1945

[34] D.D.I., Serie X, vol. II, Doc. 461, pag. 624. De Gasperi a Carandini e Di Stefano. Roma, 25 agosto 1945

[35] D.D.I., serie X, vol. II, Doc. n. 473, pag.644.  Quaroni a De Gasperi. Mosca, 28 agosto 1945

[36] SERGIO GALIMBERTI, Santin, testimonianze dell’archivio privato, MGS  press, Trieste, 1996.

SERGIO GALIMBERTI, Santin, un vescovo solidale, MGS       press, Trieste, 2000.

Lo scenario storico entro cui si muove mons. Antonio Santin è incredibilmente complesso. Nasce a Rovigno, cittadina italiana del multietnico impero austro-ungarico. Studia dapprima nelle scuole italiane a Rovigno e Capodistria per poi trasferirsi come seminarista a Vienna. I tempi e i luoghi di mons. Santin sono particolarmente convulsi: dal clericale impero austro-ungarico allo stato liberal-massonico, dal nazifascismo agli sventurati giorni dell’occupazione jugoslava, dall’amministrazione militare alleata fino alla definitiva assegnazione all’Italia di Trieste.

Viene considerato per il suo impatto storico civile come il tutore supremo di fronte “ai vari dominatori del momento”. Si batte per cercare di salvare la vita agli ebrei e agli antifascisti, agli italiani e agli jugoslavi imprigionati dai nazifascisti. Manifesta la sua contrarietà alla firma del trattato di pace che prevede la costituzione del TLT, la cessione di Pola e Fiume alla Jugoslavia e la divisione della sua diocesi.

Un fatto che è rimasto impresso nella storiografia giuliana e che documenta la ferocia del regime jugoslavo è quello risalente all’aggressione subita dal presule allorquando si reca a Capodistria, nel maggio del 1947, per amministrare le cresime e viene aggredito pubblicamente, insultato, ferito e costretto a riparare a Trieste sotto scorta armata.

Nel 1948, ingiustamente, è al centro, a Trieste  e in tutta la Venezia Giulia, di una feroce campagna antireligiosa slavocomunista. 

[37] D.D.I. Serie X, vol. II, Doc. n. 488, pag. 665,  Santin a De Gasperi. Trieste, 3 settembre 1945

[38] D.D.I., Serie X, Vol. II, Doc. n. 512, pag.692,  De Gasperi a Tarchiani, Quaroni, Carandini e Saragat. Roma, 11 settembre 1945

[39] D.D.I., Serie X, Vol. II, Doc. n. 518, pag. 706. Carandini a De Gasperi. Londra, 12 settembre 1945

[40] D.D.I., Serie X, Vol. II, Doc. n. 528, pag. 723. Carandini a De Gasperi,. Londra, 15 settembre 1945

[41] D.D.I., Serie X, Vol. II, Doc. n. 532, pag. 726. Carandini a De Gasperi. Londra, 15 settembre 1945

[42] Diego De Castro, La questione, op. citata, pag. 236

[43] D.D.I., Serie X, vol. II, Doc. n. 547, pag. 743. Carandini a Prunas. Londra, 19 settembre 1945.

[44] PAOLO CACACE,  Vent’anni di politica estera italiana, Editore Bonacci, Roma, 1990, pag. 159.

PASTORELLI PIETRO, La politica estera italiana nel dopoguerra, Il Mulino, Bologna, 1987.

[45] D.D.I., Serie X, Vol. II, Doc. n. 552, pag. 747. De Gasperi a Prunas. Londra, 20 settembre 1945.

[46] D.D.I., Serie X, Vol. II, Doc. n. 556, pag. 751. Carandini a Prunas. Londra, 21 settembre 1945

[47] D.D.I., Serie X, Vol. II, Doc. n. 563, pag. 757. De Gasperi a Prunas. Londra, 22 settembre 1945

[48] D.D.I., Serie X, Vol. II, Doc. n. 601, pag. 815. Carandini a De Gasperi, Londra, 4 ottobre 1945

    D.D.I., Serie X, Vol. II, Doc. n. 603, pag. 817. Carandini a De Gasperi. Londra, 4 ottobre 1945

[49] ANTONIO DE ROBERTIS, le Grandi potenze, op. citata. Pag. 445

[50] D.D.I., Serie X, Vol. II, Doc. n. 653, pag. 926. Mosca, 31 ottobre 1945

[51] D.D.I., Serie X, Vol. II, Doc. n. 619, pag. 836. Quaroni a De Gasperi.  Mosca, 12 ottobre 1945

[52] D.D.I., Serie X, Vol. II, Doc. n. 697, pag. 988. De Gasperi a Quaroni. Roma, 19 novembre 1945

[53] D.D.I., Serie X, Vol. II, Doc. n. 711, pag. 1008. De Gasperi a Tarchiani, Carandini e Saragat. Roma, 23 novembre 1945.

[54] JEAN BATTISTE DUROSELLE, Storia diplomatica, op. citata.  Pag. 397-399.

[55] GIULIO ANDREOTTI, De Gasperi visto da vicino, Rizzoli, Milano, 1986. Pag. 140.

    PIERO OTTONE, De Gasperi, Editore Della Volpe, Milano, 1968.

[56] Basti pensare che nel 1943 il Movimento di liberazione Antifascista Nazionale Jugoslavo proclamava a gran voce il diritto di annettere  l’Istria, Trieste, Fiume e Zara pretendendo addirittura l’avallo del CLNAI. Il  9 settembre del 1944, Kardelj si accordò con Vincenzo Bianco e Palmiro Togliatti  circa il diritto per la IX corpus di occupare le città citate. Togliatti manifestò in più riprese la sua preferenza intorno ad una eventuale occupazione titina piuttosto che Alleata.

Materiale tratto da:

GIORGIO BOCCA, Palmiro Togliatti , Ediz. Laterza, Bari 1973.

RAOUL PUPO, La rifondazione nella politica estera italiana: la questione giuliana (1944-46). Del Bianco Editore, Udine, 1979. Pag. 62

[57] GIORGIO BOCCA, Palmiro Togliatti, op. citata, pag. 501.

Vittorio Vidali, segretario del PCI disse una volta riguardo alla questione orientale: “Anche un internazionalista come me a forza di batterlo e batterlo, finisce per gettare fuori il sangue nazionalistico che gli è rimasto dentro”.

[58] D.D.I, Serie X, vol. II, Doc. n. 653, pag. 926. Quaroni a De Gasperi. Mosca, 31 ottobre 1945.

[59] Dissenso che verrà poi dato ufficialmente in data 6 gennaio 1946

[60] G. BOCCA, Palmiro Togliatti, op. citata, pag. 498-499 

[61] DIEGO DE CASTRO, in La questione, op. citata. Pag. 380.

[62] VITTORIO VIDALI, Ottanta, gli anni di Vittorio Vidali: Trieste,27 settembre 1980. Tipografia  Stella, Trieste 1980.

    VITTORIO VIDALI, Giornale di bordo, Editore Vangelista, Milano, 1977.

    VITTORIO VIDALI, Ritorno alla città senza pace: il 1948 a Trieste. Editore Vangelista, Milano, 1982.

[63] GIACOMO SCOTTI, Gli Otok, gli italiani nei gulag di Tito, Edizioni Lint, Trieste 1997

[64] I comunisti italiani, espressione della volontà di Togliatti,  erano ritenuti imperialisti e nazionalisti, legati alle direttive del partito comunista italiano e pertanto fedeli a Mosca. Ciò nonostante, difficoltà di dialogo fra slavo-comunisti e comunisti italiani nella Venezia Giulia risalivano al 1945.  A tal proposito, PAOLO SEMA, El maestro de Piran. Ricordando Antonio Sema, la vita, la famiglia, l’insegnamento tra l’Istria e Trieste a cavallo delle due guerre. Aviani Editore, Trieste. Pag. 266.

 Paolo Sema, narrando le vicende dell’autunno del 1945 nella sua città natale (Pirano), fa riferimento ad una lettera inviata a Togliatti da parte dei comunisti italiani di Pirano che avevano da poco subito lo scioglimento d’autorità della locale sezione del PCI. In tale scritto gli aspetti narrati si caratterizzano per la loro drammaticità. Sema ricorda passionalmente al segretario nazionale del PCI il clima di terrore e umiliazioni che nemmeno il fascismo aveva instaurato nell’Istria nord occidentale; racconta dell’incomunicabilità realizzatasi assai presto in Istria tra il complesso della popolazione italiana e le autorità jugoslave.