Capitolo IV
4.1: LA RIUNIONE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI DEGLI ESTERI A NEW YORK E LA VISITA DI TIGLIATTI A TITO
Alla Conferenza dei Ministri degli Esteri, dal 4 novembre al 2 dicembre 1946, che si riunì a New York, parteciparono anche alcuni membri del Comitato giuliano costituitosi a Roma: De Castro, Luzzato, Dalma e Pecorari.
Dal luglio al novembre 1946
l’Italia e la Jugoslavia cercarono inutilmente di raggiungere un accordo
diretto. Nessuno dei due Stati era però disposto a cedere e ad addivenire ad un
compromesso attuabile. Inoltre, dal paragrafo precedente, è stata dimostrata la
contrarietà più assoluta, di Stati Uniti e Gran Bretagna, alle così dette
trattative dirette. Non si volevano modificare decisioni già accettate dal
Consiglio dei Ministri degli Esteri. (Non dimentichiamo che le trattative
bilaterali iniziarono dopo il 2 luglio del 1946, data in cui i Ministri degli
Esteri avevano già concordato i nuovi confini).
L’Ambasciatore Tarchiani
comunicava al nuovo Ministro degli Esteri, Pietro Nenni, che, nella prima
riunione del Consiglio dei Ministri degli Esteri tenutasi a New York, si era
convenuti circa la necessità di sentire i delegati italiani e jugoslavi per
l’attuazione del nuovo statuto di Trieste[1].
Il 6 novembre, il delegato
italiano Tarchiani, illustrò al Consiglio dei Ministri degli Esteri la tragedia
dell’Istria occidentale, il TLT ed il suo impossibile futuro[2].
Questo stesso giorno, nel
pieno svolgimento della sessione di New York, successe un fatto fondamentale
nelle difficili relazioni fra i Governi di Jugoslavia e Italia: il segretario
del PCI -Palmiro Togliatti- decise
d’incontrare personalmente a Belgrado il grande capo della Jugoslavia, il
Maresciallo Tito. Togliatti propose uno
scambio in base al quale l’Italia avrebbe ceduto Gorizia in cambio di Trieste.
Un tale accordo fece
particolare scalpore in Italia, venne accolto diversamente in relazione alle
diverse posizioni politiche. Tutto il blocco del PCI si schierò a favore
dell’accordo, “l’Unità” quel giorno titolava in prima pagina: “Viva l’intesa
italo-jugoslava! Il Maresciallo Tito è disposto a lasciare Trieste all’Italia”[3].
Il quotidiano riportava una
lunga intervista a Palmiro Togliatti, appena tornato da Belgrado, che
confermava il consenso di Tito a lasciare Trieste all’Italia in cambio di
Gorizia, che, secondo il segretario del PCI, era una città slava a tutti gli
effetti anche secondo i dati forniti dal nostro Ministro degli Esteri.
Il ministro Nenni comunicò
immediatamente alla nostra Delegazione il colloquio avuto da Togliatti in quel
di Belgrado con il Maresciallo[4].
In una successiva nota, Nenni comunicò ai delegati italiani l’impressione
positiva destata dai colloqui di Belgrado per quel concerne il discorso dei
prigionieri politici italiani siti in Jugoslavia, ma l’impossibilità per
l’Italia di rinunciare a Gorizia, città riconosciuta italiana dalle Quattro
grandi potenze, e ribadì l’imprescindibilità della linea etnica e del ricorso
al plebiscito allorquando fossero sorte contestazioni[5].
Le Grandi Potenze non
parevano contrariate ad un’intesa diretta fra noi e la Jugoslavia, come
comunicò Carandini da New York in un colloquio avuto col direttore generale
degli affari politici del Ministero degli Esteri francese, Couve de Mourville[6];
questi era favorevole ad una soluzione diretta, visto che l’Italia in base
all’andazzo dei lavori in Conferenza della Pace non poteva più contare nemmeno
sulla linea francese.
La sortita autonoma di
Togliatti, inizialmente, indispettì molto il Ministro Nenni. Nei suoi Diari[7]
disse esplicitamente: “Tito rinuncia ciò che non ha e richiede ciò che
abbiamo!”; non poteva pubblicamente
sconfessare la trattativa di Togliatti perché in quel periodo vigeva il patto
d’unità d’azione tra i comunisti ed i socialisti, un marcato dissenso avrebbe
potuto incrinare il citato patto del fronte della sinistra italiana del
dopoguerra.
Le posizioni più avverse
provenivano dai CLN di Gorizia e Monfalcone e dalla Democrazia Cristiana[8].
L’undici novembre 1946
assumeva un ruolo di mediatrice la Francia, gli Jugoslavi si avvalevano di
contatti indiretti attraverso la Delegazione francese per introdurre delle
proposte[9].
La proposta Berard[10]
si contraddistinse per la particolare somiglianza con la soluzione del 1954 (il
Memorandum di Londra), il cui contenuto venne ratificato definitivamente col
Trattato do Osimo (1975).
L’offerta jugoslava,
avallata dai Francesi, consisteva: a) nella cessione di un sobborgo di Gorizia
alla Jugoslavia; b) piena sovranità italiana sulla città di Trieste, ma con
assoluta rinuncia ai territori ricompresi nella così detta Zona B; c) impegno
per attivare una solida cooperazione fra i due Paesi.
Questa proposta fu
accantonata, così come indicò il Segretario generale agli Esteri, Prunas, in
una telefonata che egli stesso fece all’Ambasciatore Tarchiani[11].
In definitiva, come già nel
corso della Conferenza di Parigi, anche durante la Conferenza di New York non si raggiunse alcun accordo
preciso. Tutto dipendeva dalle decisioni della Conferenza di Mosca del 1945 che
impose una procedura in base alla quale il Trattato di pace andava considerato
alla stregua di diktat della Quattro grandi potenze.
Quindi potevano ritenersi
vani tutti i tentativi compiuti dalle Autorità diplomatiche italiane e
jugoslave circa il raggiungimento di un accordo diretto per la soluzione della
complessa questione orientale. I
Quattro grandi parevano favorevoli alle intese dirette italo-jugoslave, in
realtà non le volevano; perché né le
potenze occidentali né il blocco dei Paesi dell’Est desideravano modificare gli
accordi raggiunti. Era sicuramente discutibile la logica di base della
stipulazione dei Trattati. A Mosca, nel 1945, purtroppo, venne deciso che i
Paesi direttamente interessati non potessero trattare ma solo presentare
memorie; furono poi esautorate da tutti i poteri le nazioni minori.
A New York il Consiglio dei
Ministri degli Esteri tornava ad affrontare la questione spinosa del confine
giuliano. Questa volta i rappresentanti delle grandi potenze si trovavano di
fronte le deliberazioni della Conferenza della Pace; il loro atteggiamento
verso di esse era però di diversa natura. Mentre gli americani e i britannici
erano disposti ad accettare i deliberati dei ventuno adottati con la maggioranza
dei 2/3, i sovietici non rinunciavano a sostenere le proprie ragioni sui
singoli punti dei trattati, anche quando esse divergevano dall’orientamento di
quattordici, o più, dei loro alleati[12].
Per la nuova frontiera e per
Trieste, articoli 3, 4 e 16 del trattato di pace con l’Italia, i Russi si erano
espressi in maniera conforme alle altre grandi potenze e alla maggioranza dei
partecipanti alla Conferenza nell’approvare i tre articoli, già determinati in
seno al Consiglio di ministri degli Esteri. Avevano così accettato l’adozione
della linea francese come confine della Jugoslavia con l’Italia e con il
Territorio libero di Trieste, l’istituzione di questa nuova entità
internazionale e alcuni principi molto generali sui caratteri dello statuto del
nuovo territorio.
I francesi avevano invece
una posizione più sfumata, pur dicendosi anch’essi favorevoli all’accoglimento
delle raccomandazioni di Parigi, assumevano quale loro priorità il
raggiungimento dell’accordo unanime, all’interno del Consiglio dei Ministri
degli Esteri, mostrandosi pronti a suggerire essi stessi quelle modifiche che
potevano agevolare l’intesa fra le grandi potenze. In tal modo veniva
confermata la politica seguita da Bidault fino a quel momento e questo
orientamento si consolidava ulteriormente per effetto della crisi di governo
provocata a Parigi dalla consultazione elettorale, che aveva fatto del partito
comunista francese una forza politica di grande rilievo.[13]
La Conferenza continuava con
la discussione dello Statuto di Trieste[14].
Tarchiani riferiva che le grandi Potenze non avevano ancora richiesto al
Consiglio di sicurezza d’invitare l’Italia e la Jugoslavia a mettersi d’accordo
per scegliere il Governatore del TLT; il regime vigente si sarebbe protratto a
lungo e i delegati di Stati uniti e Gran Bretagna avevano richiesto al
Consiglio stesso di occuparsi della questione dei diritti umani della ZONA B.
L’attività dei Delegati
italiani si faceva sempre più complessa, anch’essi si rendevano conto che le
loro sollecitazioni non portavano ad alcun risultato, erano mere formalità in
quanto tutto era già stato deciso. Nicolò Carandini comunicava che la linea
francese e lo Stato libero dovevano essere definitivamente confermati. La
soluzione di Parigi la si doveva ritenere come la base per qualsiasi accordo
diretto con gli Jugoslavi[15].
La maggiore difficoltà derivava dall’esatta interpretazione delle decisioni
maturate dall’accordo fra Tito e Togliatti[16].
Infatti, dal colloquio che l’Ambasciatore Quaroni ebbe con il delegato
jugoslavo Simic, appariva che seppur Tito riconoscesse Trieste, nessuna
speranza poteva essere ricondotta circa la cessione di Gorizia e Monfalcone
all’Italia.
Simic avanzava l’ipotesi che
le eventuali trattative dirette dovevano partire dal principio sancito dal
Maresciallo nel colloquio con Togliatti: Trieste come regime autonomo sotto al
sovranità italiana, nei limiti delle garanzie riconosciute agli Sloveni a New
York, ovvero senza alcun corridoio e con l’immediata retrocessione di Gorizia e
Monfalcone alla Jugoslavia. Anche Bebler riferiva che nel caso avessimo voluto
negoziare direttamente con gli
Jugoslavi avremmo dovuto fare concessioni territoriali. Infine, gli Jugoslavi
ribadirono la loro totale contrarietà a firmare un trattato basato sulla linea
francese.
I quattro grandi avevano
deciso la soluzione del Confine Orientale aderendo in pieno alla risoluzione
definitiva del 3 luglio[17].
Le discussioni continuarono, oggetto di notevoli controversie fu la formazione
dello Statuto del TLT e nella discussione circa il ritiro delle truppe
d’occupazione ed il regime provvisorio del Territorio Libero[18].
All’ordine del giorno la
Delegazione italiana poneva all’attenzione delle grandi potenze il clima di
terrore introdotto dagli apparati governativi jugoslavi a scapito della gente
italiana[19].
Il 26 novembre in un
colloquio che l’Ambasciatore Tarchiani[20]
ebbe con l’assistente segretario degli Stati Uniti, Dunn, definì impossibile
qualsiasi accordo con gli Jugoslavi, vista la loro ultima proposta circa
l’assegnazione all’Italia di Trieste in cambio dell’estensione della sovranità
jugoslava sulle province di Gorizia e Monfalcone.
Il 28 novembre la
Delegazione a New York informò il Ministro degli Esteri, Nenni, che la seduta
della Commissione del pomeriggio precedente aveva raggiunto accordi di massima
importanti[21]: a) entro
90 giorni il Governatore doveva procedere al ritiro delle truppe dal territorio
Libero; b) le elezioni avrebbero dovuto luogo nel TLT dopo quattro mesi dopo
l’insediamento; c) in caso di mancato raggiungimento di accordo circa la nomina
del Governatore, l’attuale Governo militare avrebbe mantenuto i suoi poteri e
continuato nel suo compito.
Sembrava ormai tutto
concluso ed il 29 novembre cominciarono a piovere da Trieste le proteste a Roma
per la permanenza dei 5000 militari jugoslavi nel TLT[22],
un territorio per l’85% abitato da Italiani.
Il 2 dicembre, la Jugoslavia aveva presentato al Consiglio dei Ministri degli Esteri una nuova proposta scritta circa la linea di frontiera, con evidenti modifiche rispetto a quella illustrata nel discorso del delegato jugoslavo del 6 novembre. Tale linea di demarcazione avrebbe lasciato Monfalcone all’Italia[23], ceduto Gorizia alla Jugoslavia assieme alla Zona B e ad una parte a sud della linea A (la linea di San Dorligo).
Bonnet[24]
spiegava a Tarchiani che gli Jugoslavi stavano abbandonando “lembo per lembo”
le loro pretese. Gli stessi Jugoslavi continuavano nelle loro pretese per
l’assegnazione di Gorizia.
Importante fu un colloquio
fra l’Ambasciatore Quaroni e Couve de Murville[25].
Il Direttore Generale degli affari politici del Ministero degli Esteri francese
aveva richiesto l’opinione di Quaroni sulla proposta Berard. Quaroni fu
esplicito: Già esistevano forti controversie circa la ratifica del trattato di
pace, ulteriori riduzioni non sarebbero state accettate!”
In un altro colloquio avuto
con Dunn, Tarchiani[26]
veniva informato che, il giorno precedente, Molotov aveva parlato con Byrnes
“per indurlo a rivedere il suo atteggiamento e consentire dei miglioramenti
territoriali a Gorizia e nella Zona B in favore degli Jugoslavi”. Byrnes
rispose che da parte degli Stati Uniti non si ammettevano discussioni in seno
alle decisioni dei Quattro. Il 10 dicembre, l’Ambasciatore Tarchiani telegrafò
al Ministro degli Esteri , Pietro Nenni, che Dunn confermava che la firma del
Trattato di pace con l’Italia sarebbe avvenuto in un periodo che andava fra il
primo ed il quindici di febbraio del 1947, con tutta probabilità nella città di
Parigi[27].
L’accordo fra i Quattro
veniva firmato il 12 dicembre, la compilazione dei testi definitivi continuò
per alcune settimane e furono
consegnati alla nostra ambasciata a Washington solo il 16 gennaio 1947[28].
Prima della firma, l’undici
dicembre, Molotov, quando tutto ormai era stabilito, su pressione di Belgrado,
ribadì che Trieste andava assegnata alla Jugoslavia, altrimenti “rischiava
l’intero accordo”. Byrnes con assoluta fermezza rispose che l’accordo era
quello convenuto e non si sarebbe cambiato; se l’Unione Sovietica non l’avesse
firmato avrebbe avuto luogo lo stesso con l’assenso dei Tre Grandi e di tutte
le Nazioni che l’avrebbero accettato[29].
4.2: LA FIRMA E LA RATIFICA DEL TRATTATO DI PACE
Il grande dilemma creatosi
in seno al Governo italiano era firmare o meno il Trattato di Pace. Quaroni, in
data 26 dicembre del 1946, aveva preparato due acute relazioni al Ministro
degli Esteri, Pietro Nenni[30].
L’Ambasciatore cominciava la sua lunga analisi soffermandosi sulla situazione
politico diplomatica degli Stati Uniti d’America; egli riteneva che l’unica
persona che in quel Paese voleva che noi firmassimo fosse Byrnes, profondamente
seccato dalle lunghe discussioni. L’opinione pubblica americana, viceversa, era
convinta che noi avessimo subito molte ingiustizie e che fossero stati violati
i principi per cui gli stessi Stati Uniti erano entrati in guerra. Era
necessario, però, che “il nostro rifiuto di firma fosse presentato o motivato
in modo da renderlo simpatico agli Americani”. A tal motivo occorreva: a) non
protestare per le amputazioni territoriali, ma per il modo in cui furono fatte
senza consultare il genus loci presente. Era necessario richiedere
esplicitamente un plebiscito; b) fare presenti le disastrose condizioni
economiche in relazione alle pesanti riparazioni; c) non toccare le questioni
inerenti le colonie.
Il pensiero di Quaroni lo si
riteneva rivoluzionario nell’ottica dell’attualità politica italiana del tempo.
Infatti, a Roma, esisteva una corrente che consigliava la firma del Trattato
come diktat. Quaroni, viceversa, riteneva che il rifiuto della firma in America
sarebbe stato considerato come un gesto di grande dignità per l’Italia ed
avrebbe portato quale unica conseguenza il protrarre del regime d’occupazione
da parte alleata. Tecnicamente, come causa di giustificazione, avremmo potuto
asserire che la ratifica esulasse dalle competenze attribuite all’Assemblea
Costituente.
Intanto il Ministro degli
Esteri, Pietro Nenni, comunicava al suo collega jugoslavo, Stanoje Simic, le
difficoltà insite nella soluzione bilaterale nella questione della frontiera[31].
Il Governo italiano
insisteva sulla primitiva proposta: riprendere le relazioni diplomatiche e
concludere gli accordi commerciali, rinviando il regolamento del problema
territoriale.
L’orientamento del nostro
Governo, nonostante le illuminate conclusioni di Pietro Quaroni, si stava
indirizzando verso la firma del Trattato; l’Italia riteneva che il contenuto
dell’accordo si sarebbe poi potuto modificare. Quando ci pervenne la notifica
ufficiale del Trattato all’Italia[32],
Pietro Nenni diramò, in data 23 gennaio 1947, a tutte le nostre rappresentanze
diplomatiche chiarimenti sull’interpretazione dell’articolo 90 del Trattato di
pace[33].
L’articolo 90 del Trattato
di pace poteva essere oggetto di diverse interpretazioni[34].
Un dispaccio ministeriale, datato 22 gennaio, garantì che il Trattato sarebbe
potuto entrare in vigore con la firma e la ratifica delle Quattro grandi
potenze e la firma e la ratifica dell’Italia. Avremmo potuto, eventualmente,
firmarlo e poi non ratificarlo, lasciando il brutto gesto della mancata firma
agli Jugoslavi.
Si giunse così al 10
febbraio 1947[35]. Dopo un
anno e mezzo di infruttuose trattative il governo italiano era costretto a
firmare nel salone dell’orologio di Quay d’Orsay. Una pace punitiva che privava
l’Italia dell’Istria, di Zara, nonchè delle isole di Cherso, Lussino, Lagosta e
Pelagosa. L’Italia firmò protestando; il giorno stesso Sforza inviò una nota
alle Potenze Alleate dichiarando che il popolo italiano si sarebbe aspettato
una revisione immediata del Trattato. Il parlamento italiano ratificò il
Trattato di pace il 31 luglio 1947 che entrò in vigore il 15 settembre 1947.
L’Italia perdeva così
Trieste e tutta la Venezia Giulia, ad eccezione di Gorizia e della piana di
Monfalcone, e vedeva le sue frontiere tornare approssimativamente coincidere
con quelle ottenute con la terza guerra d’indipendenza del 1866.
Tutti i territori ad oriente
della linea francese passavano alla Jugoslavia mentre solo una parte di quelli
ad occidente rimanevano all’Italia: la fascia costiera da Duino a Cittanova
d’Istria, con al centro Trieste, veniva infatti sottratta anch’essa alla
sovranità di Roma e destinata all’istituendo Territorio Libero di Trieste.
Nella nuova entità
internazionale, nella parte settentrionale rimaneva l’amministrazione
anglo-americana, nella parte a sud della linea Morgan continuava a funzionare
l’amministrazione jugoslava.
In realtà il TLT, così
faticosamente raggiunto dai quattro Ministri degli Esteri, non si attuò mai,
rimaneva lo scoglio del Governatore, su di esso si arenò il disegno elaborato
dalle grandi potenze.
4.3: L’ESODO
Le partenze di italiani dai
territori contesi non iniziarono dopo la ratifica del Trattato di Pace e la
conseguente possibilità di optare, bensì alcuni anni prima. Un caso particolare
è quello della città di Zara[36],
nella quale la fuga della popolazione italiana raggiunse le punte più elevate
negli anni 1943/44, con motivazioni in gran parte diverse dall’esodo che si
sviluppò negli anni successivi dall’Istria e da Fiume.
La città, enclave italiana
in territorio jugoslavo, già nei primi giorni dopo l’armistizio dell’8
settembre 1943, venne occupata dalle forze tedesche e ne fu decretata
l’annessione allo Stato fantoccio croato di Ante Pavelic. Dopo questo fatto
iniziarono i bombardamenti alleati sulla cittadina: in un anno ce ne furono ben
54, che provocarono morti e distruzioni; la popolazione incominciò a sfollare,
molti cercarono un mezzo per ritornare in Italia o si rifugiarono nelle
campagne circostanti dove il pericolo di bombardamenti era minore, ed è in
questo periodo che avvenne l’esodo più massiccio per la città. Su una
popolazione che nel 1940 contava circa ventimila abitanti, nel maggio del 1945
erano rimaste diecimila persone, di cui sembra settemila jugoslavi giunti nella
cittadina dopo l’arrivo delle formazioni partigiane. In relazione a tutto ciò
solo una piccola parte abbandonò Zara in seguito ai nuovi confini.
Si pensa che l’accanimento
derivasse dal fatto che Tito fosse riuscito a convincere i comandi
angloamericani dell’importanza strategica che aveva Zara per i tedeschi.
Anche l’esodo di Pola fu per
certi versi particolare[37];
cittadina di oltre trentamila abitanti, in sostanza tutti italiani, Pola subì
quarantacinque giorni di occupazione dell’esercito di liberazione jugoslavo,
finchè fu inserita nel quadro di competenza amministrativa degli alleati,
l’anomalia constava nel fatto che la zona circostante era amministrata dagli
Jugoslavi.
I cittadini di Pola
seguirono con grande apprensione gli avvenimenti e le notizie che arrivavano
dalle varie sedi in cui si riunivano i Delegati delle grandi potenze[38].
L’U.A.I.S (Unione Antifascista Italo-Slava) nella città di Pola, che era sotto
l’amministrazione alleata, ebbe meno margine di manovra di quello che le era
consentito nel resto dell’Istria, dove il cosiddetto potere popolare
autogestito aveva già preso le prime misure politiche ed economiche nei
confronti degli abitanti della regione (nazionalizzazioni, ammasso dei
beni,ecc.).
Lo spettro dell’esodo iniziò
a farsi strada nel maggio del 1946 quando giunsero in città notizie che la
proposta di linea francese avrebbe potuto essere accettata dalle potenze
alleate. In tale situazione lo scontro fra filo-italiani e filo-jugoslvai si fa
particolarmente cruento, le associazioni come l’U.A.I.S. o l’Unione degli
Italiani dell’Istria e Fiume continuarono a propagandare l’assioma
“esule=fascismo”, non interpretando il sentimento di una popolazione il cui
principale desiderio era vivere nella Nazione Madre.
Nel mese di ottobre a Pola
l’esodo era ormai dato per certo; da reazione istintiva si era trasformato in
un fatto concreto e acquistò uno spessore organizzativo iniziando ad incidere
sulla vita quotidiana degli abitanti. La certezza definitiva si ebbe il 16
ottobre con l’approvazione della linea Bidault che sancì il passaggio di Pola e
dell’Istria centro-meridionale alla Jugoslavia.
Nei mesi successivi l’esodo
si svolse con ritmo incessante concludendosi poco prima della ratifica del
trattato. Il quindici settembre del 1947 ci fu il passaggio formale alla sovranità
jugoslava di una città che nel giro di pochi mesi era stata abbandonata di
quasi trentamila dei suoi trentaduemila abitanti[39].
La città di Fiume fu
occupata dalle truppe jugoslave il 2 maggio del 1945. Il giorno dopo
rappresentò per Fiume l’annessione alla Jugoslavia, annessione piena fin dal
primo momento nonostante la particolare situazione della città nell’ambito delle trattative internazionali. Le
conclusioni della Conferenza della Parigi legittimeranno un dato consolidato e
dimostratosi sin dai primi giorni irreversibile, grazie ad una serie di rapidi
e profondi cambiamenti nella struttura economica, sociale e politica della
città.
L’andamento delle trattative
internazionali cancellerà ben presto nella stessa coscienza dei suoi abitanti
ogni residua speranza di chi ancora credeva nel ripristino della situazione
precedente o in una creazione di uno stato indipendente.
Anche i fiumani italiani[40],
che costituivano la larga parte del tessuto etnico cittadino, scelsero la via
del ritorno in patria; si calcola che nel 1946 già oltre ventimila persone
avessero lasciato la provincia.
La firma del Trattato di
Parigi, in data 10 febbraio 1947, aprì una tristissima parentesi per coloro che
invece vivevano nei territori ceduti alla Jugoslavia i quali, come previsto
dall’articolo 19, avevano la facoltà di optare entro un anno per la
cittadinanza italiana. La legislazione emessa dal Belgrado agli inizi del
dicembre del 1947, affidò ai Comitati Popolari Distrettuali il compito di
esaminare la legittimità delle richieste di opzione. L’applicazione di queste
disposizioni fu ovunque molto restrittiva; era infatti in gioco la credibilità
della Jugoslavia come garante dei diritti nazionali delle minoranze esistenti
all’interno del suo territorio.
Le cifre di questo esodo sono
oggi fonte di discussione tra i molti studiosi che si occupano di questo tema.
L’”Opera Profughi” censì 201.440 persone, ma si calcola che il numero delle
persone costrette ad esodare possa oscillare fra le 250.000 e le 350.000.
[1] D.D.I., Serie X, Vol. IV. Doc. n. 471, pag 585. Tarchiani a Nenni. New York, 5 novembre 1946.
[2] D.D.I., Serie X Vol. IV. Doc. n. 473, pag. 586. Tarchiani al Consiglio dei Ministri degli Esteri. New York, 6 novembre 1946.
[3] ROBERTO GUALTIERI, in “Togliatti e la politica estera”, op. citata. Pag. 123 e ss.
[4] D.D.I., Serie X, Vol. IV. Doc. n. 478, pag. 592. Nenni alla Delegazione italiana a New York. Roma, 7 novembre 1946.
[5] D.D.I., Serie X, Vol. IV. Doc. n. 480, pag. 593. Ministro degli Esteri, Pietro Nenni, alla Delegazione a New York. Roma, 7 novembre 1946.
[6] D. D.I., Serie X, Vol. IV. Doc. n. 485, pag. 596. Carandini al Direttore generale Affari politici del Ministro Esteri francese, Couve de Mourville. New York, 8 novembre 1946.
[7] PIETRO NENNI, Diari tempo di guerra, Vol. I. Edizioni Sugar, Milano, 1981, pag. 295-296-297.
[8] Il Popolo, quotidiano della DC, scatenò una feroce campagna di stampa contro il viaggio di Togliatti a Belgrado; il quotidiano parlava esplicitamente di “città vendute per trattative private”, di “prigionieri trattati come pacchi dono dai comunisti italiani”.
[9] D.D.I, Serie X, Vol. IV. Doc. n. 497, pag. 606. L’Ambasciatore Tarchiani al Ministro Pietro Nenni. New York, 11 novembre 1946.
[10] Berard era il Consigliere d’Ambasciata di Francia a Washington.
[11] D.D.I, Serie X, Vol. IV. Doc. n. 502, pag. 610. Prunas a Nenni. Roma, 13 novembre 1946.
[12] RAOUL PUPO, La rifondazione, op. citata. Pp.186 e ss.
[13] ANTONIO DE ROBERTIS, Le grandi potenze ,op. citata, pag.539.
[14] D.D.I, Serie X, Vol. IV. Doc. n. 512, pag. 618. La Delegazione italiana a New York al Ministro degli Esteri, Pietro Nenni. New York, 15 novembre 1946.
[15] D.D.I., Serie X, Vol. IV. Doc. n. 523 , pag. 625. Carandini a Nenni. New York, 20 novembre 1946.
[16] D.D.I, Serie X, Vol. IV. Doc. n. 524, pag. 625. Quaroni a Nenni. New York, 20 novembre 1946.
[17] D.D.I, Serie X, Vol. IV. Doc. n. 527, pag. 629. Delegazione italiana a New York al Ministro Pietro Nenni. New York, 21 novembre 1946.
[18] D.D.I, Serie X, Vol. IV. Doc. n. 532, pag. 633. La Delegazione italiana a Nenni. New York, 22 novembre 1946.
[19] D.D.I, Serie X, Vol. IV, Doc. n. 546, pag. 645. Nenni alla Delegazione a New York. Roma, 26 novembre 1946.
Da fonte giuliana veniva segnalato al Ministro degli Esteri, Pietro Nenni, che nella Zona B era in corso un’operazione di sequestro di beni senza precedenti. I colpiti erano Italiani di umili origini: pescatori, contadini ed artigiani.
[20] D.D.I, Serie X, Vol. IV. Doc. n. 553, pag. 655. Tarchiani a Dunn, assistente al Segretario di Stato degli Stati Uniti. New York, 27 novembre 1946.
[21] D.D.I, Serie X, Vol. IV. Doc. n. 559, pag. 661. La Delegazione italiana a Nenni. New York, 28 novembre 1946.
[22] D.D.I, Serie X, Vol. IV. Doc. n. 567, pag. 668. Nenni alla nostra Delegazione a New York. Roma, 30 novembre 1946.
[23] D.D.I, Serie X, vol. IV. Doc. n. 577, pag. 679. Tarchiani a Dunn. New York, 5 dicembre 1946.
[24] D.D.I, Serie X, Vol. IV. Doc. n. 578, pag. 681. Colloquio fra Tarchiani e l’Ambasciatore di Francia a Washington, Bonnet. New York, 5 dicembre 1946.
[25] D.D.I, Serie X, Vol. IV. Doc. n. 579, pag. 682. Quaroni a Couve de Murville. New York, 5 dicembre 1946.
[26] D.D.I, Serie X, Vol. IV. Doc. n. 586, pag.688. Tarchiani a Dunn. New York, 7 dicembre 1946.
[27] D.D.I, Serie X, Vol. IV. Doc. n. 590, pag. 691. Tarchiani a Nenni. New York, 10 dicembre 1946.
[28] D.D.I, Serie X, Vol. IV. Doc. n. 596, pag. 706. Tarchiani a Nenni. New York, 12 dicembre 1946.
[29] DIEGO DE CASTRO, “La questione”, op. citata, pag. 528.
[30] D.D.I, Serie X, Vol. IV. Doc. n. 625, pag. 727. Quaroni a Nenni. Roma, 26 dicembre 1946.
[31] D.D.I, Serie X, Vol. IV. Doc. n. 631, pag. 746. Nenni al Ministro degli Esteri jugoslavo, Simic. Roma, 28 agosto 1946.
[32] D.D.I, Serie X, Vol. IV. Doc. n. 683, pag. 783. Benzoni a Nenni. Londra, 22 gennaio 1947
[33] D.D.I, Serie X, Vol. IV. Doc. n. 687, pag. 786. Nenni alle nostre rappresentanze diplomatiche a Parigi, Londra, Mosca e Washington. Roma, 23 gennaio 1947.
D.D.I, Serie X, Vol. IV. Doc. n. 697, pag. 795. Nenni alle Nostre rappresentanze diplomatiche europee. Roma, 25 gennaio 1947.
Il Ministro Nenni istruiva circa le difficoltà per il Governo italiano nel firmare il trattato di pace in mancanza di assicurazioni alleate riguardo la procedura di revisione.
[34] L’articolo 90 recitava: “Il presente trattato , di cui i testi in inglese, francese e russo, dovrà essere ratificato dalle Potenze Alleate Associate. Esso dovrà essere ratificato anche dall’Italia. Entrerà in vigore immediatamente dopo il deposito delle ratifiche dell’Unione Sovietica, della Gran Bretagna, degli Stati Uniti e della Francia. Gli strumenti di ratifica saranno, nel più breve tempo possibile, depositati presso il Governo della Repubblica Francese.
Per quanto concerne ciascuna delle Potenze Alleate e Associate, i cui strumenti di ratifica verranno depositati in epoca successiva, il Trattato entrerà in vigore dalla data del deposito.
Il presente Trattato sarà depositato negli archivi del Governo della Repubblica francese, che rimetterà copie autentiche a ciascuno degli Stati firmatari”.
[35] Vedere gli allegati a pp. 114, 115 e 116..
[36] ODDONE TALPO, Dalmazia, op. citata.
ARRIGO PETACCO, L’esodo, la tragedia negata degli italiani d’Istria, Dalmazia e Venezia Giulia. Edizioni Mondadori, Milano. 1999.
[37] GAETANO LA PERNA, Pola Istria, op. citata
AMLETO BALLARINI, L’olocausto sconosciuta, Edizioni occidentali, Roma, 1985.
AA.VV., Storia di un esodo, op. citata pp.106 e ss.
[38] Il 22 marzo del 1946 arrivò a Pola la Commissione interalleata incaricata di derimere la questione confinaria e la popolazione polese scese in piazza per un’imponente manifestazione a favore della soluzione italiana. ARRIGO PETACCO, L’esodo, op. citata. Pag. 200 e ss.
[39] FLAMINIO ROCCHI, L’esodo, op. citata.
NELIDA MILANI – ANNA MARIA MORI, Bora, Edizioni Frassinelli, Milano, 1998.
LUIGI PAPO, E fu esilio, Irci, Edizioni Italo Svevo, Trieste, 1997.
[40] ALFREDO BONELLI, Fra Tito e Stalin; cominformisti a Fiume. Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, Trieste, 1994.
MARIO DASSOVICH, Italiani in Istria e a Fiume 1945/1977. Edizioni Lint, Trieste 1990.