CAPITOLO 1

BREVE STORIA DELL’ISTRIA FINO ALLA II GUERRA MONDIALE

 

    1. - INSEDIAMENTI ITALIANI NELL’ADRIATICO ORIENTALE

L’Istria è un triangolo rovesciato di 4.956 chilometri quadrati; la base è di 67 chilometri e va da Muggia ad Abbazia, inserendosi nelle prime pendici del Carso triestino. Le Alpi Giulie e le creste dei monti Tricorno, Nevoso e Maggiore la difendono dai lati di settentrione e levante. Le sue coste, quasi speculari, misurano 500 chilometri e sono divise dal Capo Promontore.

I geologi la dividono in tre settori: l’Istria bianca, "un’enorme spugna pietrificata", ne costituisce la parte settentrionale, l'Istria grigia, così chiamata per i calcari sciolti nell’età terziaria, ne occupa la parte centrale, e infine l’Istria rossa, che si estende nei centri di Parenzo, Orsera e Fontane ne costituisce la parte residua.

Il nome "Istria" sembrerebbe poter derivare da "Histrum", un fiume affluente del Danubio, che solcava allora la penisola. I suoi primi abitanti, "usciti" dalle caverne nell’età del bronzo, edificarono i caratteristici "castellieri", costruzioni di pietre a secco con una cinta per le persone e una per custodire gli animali (ne sono stati numerati oltre 500).

La sua popolazione era composta da veneti nel nord, liburni lungo la costa e da istri nel sud; una rilevantissima infiltrazione celtica, che ebbe luogo nel V secolo a.C., mescolò definitivamente tutte queste etnie.

Intorno al V secolo a.C. i primi colonizzatori greci approdarono sulle isole di Curzola, Lissa e Lesina, dove fondarono colonie commerciali e da qui colonizzarono poi alcune zone della terraferma dalmata dove ora sorgono le città di Spalato e Ragusa.

Nel II secolo a.C. i romani fecero la loro comparsa nella regione; l’imperatore Augusto riuscì ad annettere l’intero territorio degli illiri e sotto Tiberio, vent’anni più tardi, la zona divenne provincia romana con il nome di "Illiricum".

Venne così aperta la strada alla romanizzazione e centri della nuova cultura divennero Pola in Istria e Zara e Salona in Dalmazia.

Durante la dominazione romana il cristianesimo cominciò a diffondersi nella zona.

Per sei secoli l’Istria visse nella cosiddetta "Pax Romana", e per i romani stessi divenne un problema da risolvere in relazione alla sicurezza dei traffici nell’Adriatico e allo sviluppo delle colonie costiere del Veneto; dopo continue ribellioni e decenni di alterne vicende fu nuovamente, ma parzialmente sottomessa tra il 178 e il 177 a.C. e solo ai tempi di Cesare contro cui si era schierata durante la guerra civile, poté esserlo completamente.

Augusto la compresse nella decima regione, "Venetia et Histria", e da allora godette di un lungo periodo di pace e di prosperità che durò fino al crollo dell’impero.

La romanizzazione fu rapida, ma di gran lunga più intensa, lungo le coste che non all’interno.

Con la caduta dell’Impero Romano le ondate dei barbari attraversarono le Alpi e gli abitanti dell’Istria si rifugiarono sulle isole della costa non raggiungibili dai carriaggi, costruendo dei ponti ed infine degli istmi. L’Istria passò a Ravenna e fu sfruttata da Teodorico come dispensa della città reale. Intorno al 620 d.C. ci furono varie ondate di slavi, sloveni e croati che occuparono tutto il litorale dal corso della Cettina fino alle rive dell’Arsia.

Un secolo più tardi, per la vittoria riportata da Carlo Magno sui Bizantini nella Calabria, queste regioni passarono temporaneamente sotto il dominio franco; la lotta per la conquista della Regione Giulia comunque si riassume storicamente come lotta fra Romani e Germani.

E’ del IX secolo l’inizio della presenza della Repubblica di Venezia nell’Istria; il dominio della "Serenissima" inizialmente incontrò difficoltà nello spirito di indipendenza degli istriani, nell’opposizione dei Duchi di Baviera, dei Conti di Carinzia, dei Weimar, dei Conti di Gorizia e dei Patriarchi di Aquileia. Col tempo però gli Istriani, da sconfitti e nemici, diventarono alleati integrandosi nella cultura, nell’arte e nei costumi veneziani. A tutt’oggi le contrade istriane sono pervase dai segni della secolare presenza della Serenissima.

Gli slavi, dopo le invasioni barbariche, riapparvero in alcune località dell’Istria del XVI secolo, quando Venezia "importò" migliaia di persone di etnia slava nelle campagne di Pisino, Rovigno, Parenzo e Pinguente, tutto ciò per ripopolare una regione provata dalle guerre contro i turchi e dalle pestilenze (basti pensare che nei primi anni del 1600 l’Istria era ridotta a 39 mila abitanti).

Fiume invece subì varie dominazioni, tra le quali possiamo ricordare quella dei Signori di Duino e dei Conti di Walsee; i fiumani non videro mai di buon occhio la dominazione veneziana sulla attigua regione, poiché consideravano Venezia un porto concorrente.

Il vecchio confine della Serenissima passava infatti presso Fianona, circa trenta chilometri ad ovest della città quarnerina.

Nel 1797, con il Trattato di Campoformio, dopo oltre mille anni di dominio veneziano, l’Istria passò sotto l’amministrazione della monarchia austriaca, per un periodo che, se escludiamo il decennio del Regno Napoleonico d’Italia, durò oltre 120 anni. Il dominio austriaco inserì la regione a pieno titolo nei circuiti commerciali del Mediterraneo, molti mercanti tedeschi ed austriaci installarono agenzie d’affari con l’Oriente e tutta l’Europa, diffondendo un relativo benessere tra la popolazione.

Fiume, come porto commerciale dell’Ungheria (Corpus separatum), diventò un centro cosmopolita di affari, subendo tra le altre cose un contrastatissimo ventennio di sovranità croata, terminato nel 1868 con il ritorno della città autonoma sotto la corona di "Santo Stefano".

La politica degli austriaci nei confronti degli abitanti dell’Istria fu la medesima che caratterizzò il loro governo in tutte le terre da loro conquistate, quella del "divide et impera"; essi, ai quali bisogna però riconoscere un’efficientissima organizzazione amministrativa, utilizzarono gli attriti tra la parte italiana della popolazione che abitava principalmente i centri cittadini e la costa occidentale e la parte slava sparpagliata nelle campagne, per rafforzare il loro potere.

Gli episodi d’irredentismo sia italiano che croato, furono però ugualmente molteplici; da parte nostra possiamo ricordare martiri come Oberdan, Sauro, Filzi e Rismondo e, ad esempio, la costituzione della Società che mazzinianamente si chiamò "Giovane Fiume", la quale sotto la maschera di un programma di innocui divertimenti per la maggioranza dei giovani italiani presenti in città, organizzò una propaganda incessante per l’annessione di Fiume alla madrepatria; l’irredentismo italiano si inserì nel più ampio movimento di liberazione nazionale che nel 1861 avrebbe portato all’unità d’Italia, con le eccezioni però di Trento, Trieste e dell’Istria stessa.

Fu solo con il Trattato di Versailles del 28 giugno del 1919, il quale sancì la fine della prima guerra mondiale, che la Venezia Giulia fu assegnata all’Italia. Questo trattato fu completato con quello di Rapallo del 22 novembre del 1920 che assegnò all’Italia la città di Zara e le isole di Cherso, Lussino, Lagosta e Pelagosa e dal Trattato di Roma del 27 gennaio 1924 che le assegnò la città di Fiume e cedette Porto Baross alla Jugoslavia.

Durante la guerra del 1915/18 ben 2107 giuliani, dei quali 1030 ufficiali, oltrepassarono clandestinamente la vecchia frontiera italo-austriaca e si arruolarono nell’esercito italiano rischiando la forca. Questo spirito di italianità trovò conferma nel primato relativo dei caduti giuliani; la Venezia Giulia infatti ebbe 30 caduti ogni 1000 abitanti, e sono un’enormità se pensiamo che al secondo posto in questa amara classifica risultò il Friuli con 16 morti su 1000.

I trattati di pace, oltre a dare all’Italia le città di Trento e Trieste a larga maggioranza etnica italiana e l’Istria che etnicamente, facendo una media tra le varie fonti in nostro possesso, possiamo dire grossomodo divisa in due parti, le cedettero le regioni dell’Alto Adige e di quella che sarebbe stata in futuro la provincia di Gorizia (Idria, Tolmino, Aidussina e Postumia), nelle quali a mala pena l’Italia era conosciuta; addirittura un terzo del territorio e della popolazione slovena furono assoggettate all’Italia, il che costituiva una grossa perdita per una nazione così piccola.

Questo fu sicuramente un primo motivo d’attrito fra l’Italia e il neo costituito regno di Jugoslavia, che si vedeva sottrarre territori abitati compattamente da sue popolazioni.

Una menzione a parte merita l’annessione di Fiume: al contrario dell’Istria, che fu direttamente annessa con il Trattato di Versailles, Fiume, che pure faceva parte del "compensi" del famoso Patto Segreto di Londra con il quale le potenze alleate attirarono l’Italia nella prima Guerra Mondiale, rimase alla Jugoslavia.

Il fatto suscitò nella popolazione della città un gravissimo sdegno. La città di Fiume, etnicamente a grande maggioranza italiana, ma con un retroterra abitato quasi esclusivamente da croati, era sempre stata al centro di una diatriba fra le mire annessionistiche dei due stati; inoltre la tradizione autonomistica era fortissima in questa città poiché per molti anni era stata, come corpus separatum, un porto franco dell’Ungheria, offrendo alla storia nomi di grandi "statisti" come Ossoinack, Maylander, Grossich, Prodam e Gigante.

Nel 1919 la città fu quindi occupata dai "legionari di D’Annunzio", che con questa azione clamorosa rivendicarono l’annessione allo stato Italiano. L’occupazione dannunziana probabilmente, oltre a mirare all’annessione di Fiume, voleva risolvere in un secondo tempo la questione della Dalmazia e assicurare all’Italia l’Adriatico orientale promessole dai firmatari stessi del Patto di Londra; il governo italiano, guidato da Giolitti, però, in grave imbarazzo di fronte all’iniziativa del poeta e delle sue milizie, nel Natale del 1920, attaccò la città disperdendo le milizie volontarie.

Il Trattato di Rapallo del 1920 previde una soluzione di compromesso per il capoluogo quarnerino: la creazione dello Stato Libero di Fiume, legittimato da elezioni democratiche nel 1921; questo esperimento fu affossato nel 1922 da un colpo di mano fascista, preludio a susseguenti accordi italo-jugoslavi.

Fu solo nel 1924, quando già il fascismo aveva preso il potere in Italia, che il Trattato di Roma sbrogliò definitivamente la polemica. All’Italia fu assegnata la città, mutilata però di una parte del suo porto (Porto Baross), per la gioia della popolazione, che, almeno all’interno del comune, era a grande maggioranza italiana.

La pace per le cosiddette terre irredente sembrava finalmente arrivata. Già nel 1920 però Mussolini disse una verità destinata a non farsi scalfire da ciò che successe negli anni successivi: "….Quella gente (gli jugoslavi, N.d.A.) non avrà mai per noi amicizia sincera e la ragione è un formidabile equivoco; per noi il confine naturale giusto, sacro e sacrosanto è alle Alpi Giulie, per la Jugoslavia il confine sacro, giusto, naturale e sacrosanto è sull’Isonzo, non c’è possibilità di compromesso".

Il periodo della dominazione italiana coincise praticamente con il ventennio fascista e quindi le "nuove provincie" subirono i soprusi della sua politica snazionalizzante. L’Istria si trovò alla periferia politica ed economica, ad un capolinea dove gli investimenti industriali ed agricoli si fermavano e al di là c’era un muro balcanico.

Una terra di confine a popolazione mista, dove gli italiani costituivano la grande maggioranza nei centri urbani e nella costa occidentale, e gli slavi nelle campagne, aveva bisogno di una politica molto sensibile che non urtasse i delicati equilibri che da molti secoli reggevano il "modus vivendi" delle genti istriane, e tutto ciò avrebbe dovuto inserirsi in un contesto di progresso economico e amministrativo.

Possiamo dire che il fascismo non riuscì in nessuno di questi compiti. I gerarchi effettuarono infatti un’opera di nazionalizzazione forzata dell’elemento croato (e sloveno a Trieste e nel resto della Venezia Giulia), cambiando cognomi, chiudendo scuole in lingua slava, favorendo in molti modi, anche economicamente, l’elemento italiano nonché compiendo operazioni squadriste verso la popolazione slava, tra le quali è famigerato l’incendio a Trieste dell’Hotel Balkan.

La violenza degli episodi squadristi raggiunse nell’Istria una veemenza superiore a quella delle altre regioni dello "stivale", dando vita al cosiddetto "fascismo di frontiera" ove le azioni delle camicie nere si coloravano di una sfumatura razziale sconosciuta nelle altre località italiane praticamente tutte monoetniche.

L’intellighenzia slava, di recente formazione, tentò di raccogliersi intorno ad alcuni circoli culturali come l’Edinost di Trieste, ma la compiacenza della forza pubblica italiana verso le violenze squadriste conferì una scarsissima libertà di movimento a queste formazioni; il "popolo minuto" invece si raccolse intorno alla figura dei "narodnjaci", che possono essere paragonati ai patriarchi delle antiche famiglie, tentando di resistere in attesa che la "bora" passasse. E in effetti passò.

Cosa sarebbe successo nella Venezia Giulia se l’Italia, invece di subire la dittatura di Mussolini avesse vissuto una stagione di democrazia, è una domanda che assilla da sempre coloro che studiano questi fatti.

Noi pensiamo che a una domanda del genere sia impossibile rispondere; probabilmente uno Stato più sensibile però avrebbe favorito la pacifica convivenza tra le due etnie della regione (una prova l’abbiamo oggi in Alto Adige e in Valle d’Aosta) e in più, come è sempre successo in passato e come tra l’altro sta succedendo in Istria e a Fiume in questi anni, la cultura italiana avrebbe attratto come un magnete nella sua orbita le popolazioni slave o mistilingui determinando una possibile aggregazione a quella che comunque da qualsiasi parte si guardi è una civiltà con millenni di storia che tende a esercitare una forza centripeta verso gli elementi "allogeni" senza o con una giovane tradizione culturale alle loro spalle.

Questo discorso è ovviamente campato in aria poiché non esiste controprova; l’Italia e soprattutto l’Istria, in quanto regione di confine, subirono infatti il "ventennio", nonché l’ingresso in guerra al fianco della parte che poi sarà sconfitta. Tutto ciò avrebbe portato all’odio tra la parte croata e quella italiana che sarebbe sfociato nei tremendi episodi delle "foibe" e, dopo la fine della seconda Guerra Mondiale, alla vera e propria tragedia dell’esodo.

 

1.2 - GLI ANNI DAL 1941 AL 1946

E’ impossibile in questa sede occuparsi della genesi e dello svolgimento della seconda Guerra Mondiale. L’Italia, militarmente potenza di secondo rango, aveva con l’ingresso in guerra e con i fat-ti che seguirono, ricordiamo ad esempio l’annessione dell’"italianissima provincia di Lubiana", inasprito ulteriormente i rapporti fra le due componenti dell’Istria e di Fiume. Esponenti delle popolazioni slave avevano costituito già dal 1941 le prime formazioni partigiane entrando ben presto a far parte dell’esercito partigiano jugoslavo; la loro opera di penetrazione fu del resto favorita dalla presenza fra la popolazione slovena e croata di forti risentimenti e rancori covati a lungo nei confronti dell’Italia fascista che per vent’anni, come visto, aveva condotto una politica di oppressione nazionale particolarmente dura e violenta nei loro confronti.

Per tali motivi l’adesione di quelle popolazioni al movimento partigiano organizzato e indirizzato dai partiti comunisti sloveno e croato fu notevole, assumendo nel tempo carattere di massa.

L’8 settembre 1943 l’Italia firmò l’armistizio. I partigiani slavi ne approfittarono, dilagando disordinatamente nella Venezia Giulia, ad esclusione di Trieste, Pola e Fiume, che rimasero in mano ai tedeschi.

Questa prima occupazione slava durò solo 35 giorni; infatti i tedeschi, appoggiati da gruppi italiani, ripresero il dominio del territorio giuliano, rigettando oltre il vecchio confine gli ultimi gruppi slavi e costituendo a Trieste l’"Operationszone Adriatisches Kustenland" (zona di operazione del litorale adriatico) sotto il comando di un "Oberster Kommisar" (supremo commissario).

Questa zona rimase al di fuori di quella che era la Repubblica di Salò e quindi anche formalmente non fece più parte di nessun tipo di amministrazione italiana. L’idea dei tedeschi era quella, una volta vinta la guerra, di annettersi l’intera regione per avere così uno sbocco sul mare Adriatico.

Le popolazioni italiane che in Istria costituivano ancora la maggioranza, si videro perciò accerchiate; da un lato la prospettiva era la collaborazione con i nazifascisti, dall’altro l’inserimento nelle formazioni partigiane jugoslave, che molto intelligentemente e sfruttando l’indecisione sul da farsi del Partito Comunista Italiano non permisero la formazione di brigate italiane dotate di ampia autonomia.

La maggior parte delle persone optò per una passività che potremmo definire "pilatesca"; aspettare il corso degli eventi sperando in un futuro impegno delle forze italiane antifasciste nella regione; questa passività è stata molte volte scambiata dalla storiografia di oltre confine per indifferenza o peggio per implicita adesione al fascismo. Bisogna però dire che una scelta del genere era, anche per gli italiani di sentimenti antifascisti, che costituivano una buona parte della popolazione, molto difficile. I proclami delle forze partigiane slovene e croate erano, già durante la guerra, improntate al futuro ritorno dell’Istria e di Fiume, nonché chiaramente di tutta la provincia di Gorizia, alla loro Madre Patria, dove avrebbe regnato una volta sconfitti nazisti, ustascia, cetnici e quisling, una società comunista, popolare e autogestita.

Gli jugoslavi inoltre aspiravano al controllo totale della guerriglia anche per non contrarre debiti di riconoscenza verso gli italiani, i quali avrebbero potuto rivendicarli in futuro; non è un caso che a "liberare" Trieste nel 1945 furono esclusivamente slavi mentre le formazioni italiane inserite nel movimento di Tito erano state inviate "misteriosamente" a combattere alcuni giorni prima nell’entroterra balcanico.

L’evento bellico non si risolse, come sappiamo, secondo le previsioni dei tedeschi che verso la fine dell’aprile del 1945 si ritirarono dalla Venezia Giulia. Gli slavi occuparono tutta l’Istria comprese le città di Trieste, Gorizia, Pola e Fiume. Zara era nelle loro mani dal 30 ottobre del 1944. Questa seconda occupazione durò 45 giorni; nel periodo tra il 12 ed il 15 giugno gli jugoslavi, per ordine degli alleati, abbandonarono i centri urbani di Gorizia, Trieste e di Pola, che passarono alle dirette dipendenze del governo militare angloamericano.

Tutto il rimanente territorio giuliano-dalmata, comprese le città di Fiume e Zara, restò definitivamente sotto la Jugoslavia.

La Venezia Giulia era già, per le diplomazie internazionali, uno dei grandi problemi da risolvere dopo la fine del conflitto. Lo stesso Churchill, giunto a conoscenza del rapido avanzamento dell’Armata Partigiana di Tito, aveva chiesto nell’autunno del 1944, che le forze alleate sbarcassero nell’Istria, progetto abbandonato per l’opposizione del presidente Roosvelt e del capi di Stato Maggiore americani.

Solo dopo la conferenza di Yalta, nella quale divenne evidente la futura divisione del mondo in due blocchi, gli alleati si convinsero all’occupazione della Venezia Giulia scatenando una corsa forsennata tra le loro truppe e l’esercito regolare di Tito, vinta da questi ultimi.

 

 

1.3 - IL TRATTATO DI PACE DI PARIGI

Durante la Conferenza di Potsdam, durata dal 17 luglio al 2 agosto 1945 i capi di governo della Gran Bretagna, dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti stabilirono che il primo trattato di pace dopo la seconda Guerra Mondiale dovesse essere concluso con l’Italia. Il Consiglio dei Ministri degli Esteri di queste tre nazioni, con l’aggiunta di un rappresentante francese, iniziò i lavori nel settembre e nel luglio dell’anno successivo aveva pronto un progetto per la Conferenza di Pace di Parigi. I delegati dei 21 Stati che avevano dichiarato guerra all’Italia approvarono il testo senza grandi cambiamenti. Il 10 febbraio 1947 i delegati dei 21 paesi firmarono ufficialmente il nuovo Trattato di Pace con l’Italia.

Il problema più importante che caratterizzò i lunghissimi lavori della Conferenza di Pace con l’Italia, gettando la popolazione istriana in una sorta di panico collettivo, fu quello della nuova linea che avrebbe costituito il confine orientale del nostro paese.

Il Ministro Bidault, plenipotenziario francese, riconobbe l’eroico coraggio della Jugoslavia nella lotta contro il nazi-fascismo. La linea confinaria proposta dalla Francia era una tipica linea di compromesso diplomatico fra le proposte occidentali e quelle russe; essa introduceva un criterio geografico nuovo con il taglio trasversale dell’Istria all’altezza del fiume Quieto e lo giustificava con il principio della "bilancia etnica", una specie di taglio salomonico che prevedeva un’equivalenza nel numero delle minoranze che avrebbero dovuto vivere oltre confine. Uno degli errori di questa proposta fu che la base dei calcoli dei francesi era il censimento austro-ungarico del 1910, molto sorpassato e tra tutti i censimenti il più sfavorevole, per consapevole scelta austriaca, agli italiani.

Molotov, il massimo esponente della diplomazia sovietica, invece appoggiò tutte le richieste del nazionalismo jugoslavo più spinto; la linea russa correva parecchio ad occidente dello stesso confine italo-austriaco del 1866, chiedendo di annettere così al nuovo stato socialista territori compattamente abitati da italiani in cui c’erano nuclei insignificanti di popolazione slava. La linea russa arrivava alle porte di Udine.

La linea inglese e quella americana grossomodo coincidevano, tracciate con il criterio di assegnare all’Italia i territori dei comuni costieri nei quali gli italiani rappresentavano la maggioranza o addirittura la totalità della popolazione; per contro tutti i centri italiani dell’Istria interna ed orientale, nonché il grande centro italiano di Fiume, dovevano passare alla Jugoslavia.

La politica slava invece rispondeva al motto di Tito, "chiedere tutto per ottenere molto". Egli lanciò le sue pretese oltre Monfalcone, fino all’Isonzo, dando per scontato che le città italiane avrebbero dovuto seguire il destino dei loro retroterra decisamente slavi. Questo concetto, della preminenza della campagna sulla città, è infatti tuttora un caposaldo della cultura slava.

Per mediare queste posizioni le grandi potenze costituirono una commissione che avrebbe dovuto andare sul posto, studiare documenti e analizzare statistiche. L’idea, in sé buona, aveva due difetti. I quattro grandi avevano già deciso quattro linee differenti e non le avrebbero cambiate dopo i lavori della Commissione. Inoltre la Commissione non conosceva la regione; infatti non avrebbe visitato Fiume e le isole del Quarnero ritenendole croate.

Tutta la regione da visitare inoltre era già sotto l’amministrazione slava e mentre costoro potevano organizzare manifestazioni pubbliche con la mobilitazione di gruppi croati provenienti dall’interno, gli italiani dovevano ricorrere a canali clandestini. Gli slavi condussero una campagna capillare e martellante i cui estremi raggiunsero quelli toccati durante il fascismo, ad esempio con la slavizzazione dei cognomi sulle lapidi dei cimiteri.

La Commissione visitò cinque città e ventisette paesi dell’Istria occidentale, senza passare per le isole di Cherso e Lussino e inviando a Fiume una semplice "delegazione economica". A dimostrazione dell’efficienza della propaganda jugoslava possiamo ricordare che su 4000 petizioni pervenute alla Commissione, 3650 erano filo-slave.

I quattro conclusero l’inchiesta con le quattro decisioni con cui erano partiti.

La presenza di De Gasperi, principale rappresentante dell’Italia, alla Conferenza di Parigi fu invero dignitosa ma priva di risultati. Egli propugnò come soluzione la divisione confinaria seguendo la cosiddetta linea Wilson, ipotizzata al termine della prima guerra mondiale dall’allora Presidente statunitense, che comunque mutilava il territorio nazionale di Fiume e di Zara e delle isole di Cherso e Lussino.

Un’altra ipotesi presa in considerazione dall’Italia, ma mai portata avanti con grande convinzione, fu quella del "plebiscito", proposto dal neocostituito Comitato di Liberazione Nazionale dell’Istria (C.N.L.Is.), un organismo che raccoglieva senza distinzione politica tutti coloro che difendevano l’italianità di quella terra. Al "plebiscito" però erano tutti contrari, compresa l’Unione Sovietica che senza di esso aveva incorporato i territori Baltici. La stessa Italia non spinse mai troppo per questa soluzione poiché un plebiscito in Istria che, se svolto in un clima neutrale sarebbe stato probabilmente vinto, avrebbe creato un pericoloso precedente per le popolazioni dell’Alto Adige e della Valle d’Aosta, dove una consultazione popolare avrebbe dato sicuramente esito largamente sfavorevole.

De Gasperi affermò in quella sede che Trieste e Gorizia erano città italiane che svolgevano il ruolo di centri economici e culturali delle rispettive provincie. Per salvaguardare l’interesse di tali città il loro retroterra doveva essere unito all’Italia. La linea Wilson avrebbe assegnato all’Italia anche il bacino carbonifero dell’Arsa, che per un paese povero di energia come il nostro sarebbe stato un grosso beneficio.

Fiume inoltre smise di rappresentare una causa di tensione. De Gasperi ammise la sovranità della Jugoslavia sulla città, chiedendone però l’autonomia e inoltre chiese la protezione per la minoranza italiana di Zara; in compenso massimo focolaio di tensioni divenne Trieste.

La voce italiana era la voce di un paese sconfitto, anche se ufficialmente cobelligerante, un paese semi-distrutto da due anni di guerra civile, e da venti di una pesantissima dittatura che ne aveva minato la coscienza collettiva. Non dimentichiamo che le forze italiane di sinistra, almeno fino all’esclusione della Jugoslavia dal Cominform nel 1948, erano più propense ad appoggiare le tesi russo-slave piuttosto che quelle italiane, probabilmente impaurite dal possibile rinascere di un pericoloso nazionalismo e desiderose di veder arrivare più ad ovest possibile la "cortina di ferro".

Il 15 giugno del 1946 il Consiglio dei Ministri degli Esteri riprese i lavori, che continuarono fino agli inizi di luglio, e il 3 di luglio annunciò la soluzione: l’Italia doveva cedere alla Jugoslavia tutto il territorio situato ad oriente della cosiddetta linea francese. Il territorio situato ad occidente di tale linea, compreso fra il confine austriaco e l’Adriatico a nord di Duino e vicino a Monfalcone, sarebbe rimasto all’Italia.

Tutta la regione a sud di Duino e ad occidente della linea francese avrebbe formato un territorio indipendente, detto "Territorio libero di Trieste" (T.L.T.) la cui integrità ed indipendenza sarebbero state garantite dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Entrambe le parti si dimostrarono insoddisfatte per la costituzione del T.L.T., opponendosi strenuamente per cercare di ottenere l’importante città. L’internazionalizzazione di Trieste fu un tipico compromesso delle grandi potenze, ormai cristallizzate in due blocchi; fu così che la città e i suoi immediati dintorni diventarono una "terra di nessuno". Tra l’insoddisfazione generale il 10 febbraio del 1947 i rappresentanti delle 21 nazioni che partecipavano alla Conferenza per la Pace con l’Italia si riunirono di nuovo a Parigi e firmarono il Trattato. A causa dell’opposizione jugoslava ed italiana fu deciso che il Trattato di Pace sarebbe entrato in vigore dopo che le quattro grandi potenze lo avessero ratificato e avessero inoltre depositato le loro ratifiche presso il Governo Francese a Parigi. Ciò avvenne il 15 settembre 1947. Pertanto sia l’Italia, sia la Jugoslavia poterono affermare che il Trattato di Pace era stato imposto loro dalle quattro grandi potenze e non era stato concluso tramite un accordo libero e diretto tra i due stati confinari interessati.

Il nuovo confine orientale d’Italia, derivato da una sciagurata guerra condotta e persa dalla dittatura fascista, era quindi tracciato. L’estremo nazionalismo aveva portato al risultato opposto, la cessione pressoché totale e gratuita di un’intera regione a maggioranza etnica italiana e il conseguente massiccio esodo della maggior parte della popolazione stessa da queste terre causato da un regime che si sarebbe dimostrato altrettanto feroce, il regime comunista jugoslavo.

Il Trattato di Pace, stravolgendo completamente l’assetto confinario tra i due paesi, pose un nuovo problema: quello delle opzioni per la cittadinanza italiana che interessò una parte considerevole degli abitanti delle zone assegnate alla Jugoslavia dopo il 15 settembre 1947. All’articolo 19, più specificatamente ai paragrafi 1,2,3 e 4 il Trattato di Pace così recitava:

"I cittadini italiani che al 10 giugno 1940 erano domiciliati in territorio ceduto dall’Italia ad un altro stato per effetto del presente trattato (riguardò anche i territori di Briga e Tenda ceduti alla Francia, N.d.A.) ed i loro figli nati dopo quella data, diverranno [….] cittadini godenti di pieni diritti civili e politici dello Stato al quale il territorio viene ceduto, secondo le leggi che a tal fine dovranno essere emanate dallo Stato medesimo entro tre mesi dall’entrata in vigore del presente trattato. Essi perderanno la loro cittadinanza italiana al momento in cui diventeranno cittadini dello stato subentrante.

Il Governo dello Stato al quale il territorio è trasferito dovrà disporre […] che tutte le persone di età superiore ai 18 anni, e tutte le persone coniugate anche al di sotto di quest’età, la cui lingua usuale è l’italiano, abbiano facoltà di optare per la cittadinanza italiana entro il termine di un anno dalla entrata in vigore del presente Trattato. Qualunque persona che opti in tal senso conserverà la cittadinanza italiana e non si considererà aver acquisita la cittadinanza dello Stato al quale il territorio viene ceduto.

L’opzione esercitata dal marito non verrà considerata opzione da parte della moglie. L’opzione esercitata dal padre, o se il padre non è vivente dalla madre, si estende automaticamente a tutti i figli non coniugati di età inferiore ai 18 anni.

Lo stato al quale il territorio è ceduto potrà esigere che coloro che si avvalgano dell’opzione, si trasferiscano in Italia entro un anno dalla data in cui l’opzione viene esercitata e infine lo Stato al quale il territorio è ceduto dovrà assicurare conformemente alle sue leggi fondamentali a tutte le persone che si trovano nel territorio stesso, senza distinzioni di razza, sesso, lingua o religione il godimento dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ivi comprese la libertà di espressione, di stampa, di diffusione, di culto, di opinione politica e di pubblica riunione."

Questo regolamento internazionale, successivamente integrato dalla legge sulla cittadinanza adottata dalla Repubblica Federativa Socialista di Jugoslavia (R.F.S.J.) e da accordi stipulati tra i due Stati, relativamente al problema dei beni degli optanti, riguardava non solo i cittadini ancora residenti nelle terre passate alla Jugoslavia con il Trattato di Pace, ma anche coloro che si erano già trasferiti in Italia precedentemente al Trattato.

L’esercizio del diritto di opzione, la cui attuazione fu affidata ai "Comitati Popolari jugoslavi", con scarse garanzie per gli interessati di ricorrere contro abusi eventuali, presentava quindi un punto interrogativo sul modo in cui la popolazione italiana della regione avrebbe reagito alla nuova appartenenza nazionale.

Le potenze alleate, con il solo inserimento della clausola dell’opzione nel Trattato, avevano senza dubbio la certezza che grandi masse di popolazione si sarebbero spostate. Dal canto della Jugoslavia, il caso di un’adesione plebiscitaria della popolazione italiana alla possibilità di optare, avrebbe costituito una debacle imbarazzante del punto di vista politico. Un esodo massiccio avrebbe gettato un’ombra sulla descrizione jugoslava di un progresso economico e sociale in via di realizzazione nella zona e privato la regione di quadri tecnici ed intellettuali difficilmente sostituibili.

Il Governo italiano, se le opzioni avessero avuto successo, avrebbe sicuramente guadagnato credibilità nel consesso internazionale, ma, e su questo gli ambienti neo fascisti insistevano particolarmente, con lo spopolamento di gran parte della popolazione autoctona dell’Istria e di Fiume, si sarebbe precluso una futura, ma alquanto improbabile, revisione dei confini imposta dal Trattato di Pace.

La possibilità di optare fu sfruttata dalla larghissima maggioranza degli italiani presenti, e così si aprì una delle pagine più grigie e meno conosciute della storia contemporanea italiana: l’esodo dei giuliani, fiumani e dalmati.

 

1.4 - L’ESODO

Le partenze di italiani dai territori contesi non iniziarono dopo la ratifica del Trattato di Pace e la conseguente possibilità di optare, bensì alcuni anni prima. Un caso particolare è quello della città di Zara, nella quale la fuga della popolazione italiana raggiunse le punte più elevate negli anni 1943/44, con motivazioni in gran parte diverse dall’esodo che si sviluppò negli anni successivi dall’Istria e da Fiume.

La città, enclave italiana in territorio jugoslavo, già nei primi giorni dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, venne occupata dalle forze tedesche e ne fu decretata l’annessione allo Stato fantoccio croato di Ante Pavelic. Dopo questo fatto iniziarono i bombardamenti alleati sulla cittadina: in un anno ce ne furono ben 54, che provocarono numerosi morti e distruzioni; la popolazione incominciò a sfollare, molti cercarono un mezzo per ritornare in Italia o si rifugiarono nelle campagne circostanti dove il pericolo di bombardamenti era minore, ed è in questo periodo che avvenne l’esodo più massiccio per la città. Su una popolazione che nel 1940 contava circa 20 mila abitanti, nel maggio del 1945 erano rimaste 10 mila persone, di cui sembra 7mila jugoslavi giunti nella cittadina dopo l’arrivo delle formazioni partigiane. Quindi solo una piccola parte della popolazione abbandonò Zara in seguito al nuovo tracciato dei confini.

Si pensa che l’accanimento dimostrato dagli alleati verso la città dalmata fosse dovuto al fatto che Tito era riuscito a convincere i comandi angloamericani dell’importanza strategica che aveva Zara per i tedeschi, quando in realtà non ne aveva quasi nessuna.

Anche l’esodo da Pola fu per certi versi particolare; cittadina di oltre 30 mila abitanti, in sostanza tutti italiani, Pola subì 45 giorni di occupazione dell’esercito di liberazione jugoslavo, finché fu inserita nel quadro degli accordi tra gli alleati e Tito nella zona di competenza amministrativa dei primi; un senso di isolamento gravò quindi sulla città, che appena fuori dai suoi sobborghi era circondata dalla cosiddetta "linea Morgan", la quale delimitava la zona alleata da quella amministrata dalla Jugoslavia.

I cittadini di Pola seguirono con grande apprensione gli avvenimenti e le notizie che arrivavano dalle varie sedi in cui si riunivano i Delegati delle grandi potenze, e lo fecero in un clima di crescente tensione. Nella città operò il C.N.L.Is. che, come già visto, tentò di rappresentare in sede internazionale le aspirazioni della popolazione polese; questo organismo tentò di sostenere la competizione con l’Unione Antifascista Italo-Slava (U.A.I.S.), vera e propria cinghia di trasmissione delle forze filo-titine, che, tramite la sua stampa e i suoi sindacati, avrebbe tentato di perorare la causa jugoslava.

L’U.A.I.S. nella città di Pola, che non dimentichiamo era sotto amministrazione alleata, ebbe meno margine di manovra di quello che le era consentito nel resto dell’Istria, dove il cosiddetto potere popolare autogestito aveva già preso le prime misure politiche ed economiche nei confronti degli abitanti della regione (es. nazionalizzazioni, ammasso dei beni ecc.).

Il 22 marzo del 1946 arrivò a Pola la Commissione interalleata incaricata di dirimere la questione confinaria e la popolazione polese scese in piazza per un’imponente manifestazione a favore della soluzione italiana. Ben 20 mila persone vi parteciparono e tutto fa credere che i suoi inizi siano stati spontanei, incanalati in un momento immediatamente successivo dalle più battagliere tra le organizzazioni filo-italiane.Alla testa di questo corteo sventolavano numerose bandiere rosse; questo fatto, liquidato dai giornali dell’opposizione con parole di scherno, rifletteva però la divisione affiorata nello stesso movimento operaio nel quale, se si osservano i dati relativi agli scioperi filo-italiani e filo-slavi, appare che la grande maggioranza sembrava schierata su posizioni "italiane".

Lo spettro dell’esodo iniziò a farsi strada nel maggio del 1946 quando giunsero in città notizie che la "proposta di linea" francese avrebbe potuto essere accettata dalle potenze alleate; il C.N.L.Is, che probabilmente interpretava i sentimenti della popolazione, diede per scontato, nell’ipotesi di un passaggio di Pola alla Jugoslavia, un abbandono in massa della città come forma estrema della protesta.

La polemica tra i filo-italiani ed i filo-jugoslavi continuò sulle linee precedenti; per tutta la durata degli avvenimenti le associazioni "jugoslave" come l’U.A.I.S. o l’Unione degli Italiani dell’Istria e Fiume (U.I.I.F.) continuarono ad insistere sull’assioma "esule=fascista", non interpretando probabilmente il sentimento di una popolazione il cui principale desiderio era vivere nella Nazione Madre, e facendo ciò approfondirono ulteriormente il solco tra loro e la gran massa degli istriani sortendo l’effetto contrario a quello desiderato ed affrettando un avvenimento che sarà certo considerato dal Governo jugoslavo una sconfitta politica.

Nel mese di ottobre a Pola l’esodo era ormai dato per certo; da reazione istintiva si era trasformato, nella maggior parte della popolazione, in fatto concreto e acquistò via via uno spessore organizzativo iniziando ad incidere sulla vita quotidiana degli abitanti; si può citare ad esempio la costituzione di un ufficio per le pratiche relative alla partenza, e i progetti sulla futura destinazione in Italia (si vagheggiava la costruzione di una nuova Pola che avrebbe dovuto sorgere nei pressi di Roma) erano all’ordine del giorno. La certezza definitiva venne il 16 ottobre con la definitiva approvazione della Linea Bidault che sancì il passaggio alla Jugoslavia di Pola e dell’Istria centro-meridionale.

Nei mesi successivi l’esodo si svolse con ritmo incessante, concludendosi poco prima della data della ratifica del trattato con la partenza degli impiegati che fino all’ultimo garantirono il funzionamento dell’amministrazione. Il 15 settembre 1947 ci fu il passaggio formale alla sovranità jugoslava di una città che nel giro di pochi mesi era stata abbandonata da quasi 30 dei suoi 32 mila abitanti.

La città di Fiume fu occupata dalle truppe jugoslave il 2 maggio 1945. Il giorno dopo rappresentò per Fiume l’annessione alla Jugoslavia, annessione piena fin dal primo momento nonostante la particolare situazione della città nell’ambito delle trattative internazionali. Le conclusioni della Conferenza di Parigi legittimeranno un dato di fatto consolidato e dimostratosi sin dai primi giorni irreversibile, grazie a una serie di rapidi e profondi cambiamenti nella struttura economica, sociale e politica della città. L’andamento delle trattative internazionali cancellerà ben presto nella stessa coscienza dei suoi abitanti ogni residua speranza di chi ancora credeva nel ripristino della situazione precedente o vagheggiava, come i cosiddetti "autonomisti zanelliani" di grande tradizione nella città, una futura creazione di una Fiume "internazionale" o "stato indipendente".

Anche i fiumani italiani, che costituivano la larga parte del tessuto etnico cittadino, scelsero la via del ritorno in patria; si calcola che nel gennaio del 1946 già oltre 20 mila persone avessero lasciato la provincia. Partivano soprattutto impiegati e proprietari di piccoli esercizi impoveriti dalla politica economica jugoslava. Come anche a Pola, nella stessa Fiume il locale C.N.L. dichiarò che la città, non ritenendosi vincolata dalle decisioni di Parigi, avrebbe lottato per la liberazione anche dall’esilio.

Verso la fine del 1946 una parte non irrilevante dei fiumani aveva già abbandonato la propria città, mentre la grande maggioranza delle persone sembrava convinta che non vi fossero alternative all’esodo; la forza del C.N.L. locale era drasticamente ridotta in seguito all’abbandono della città da parte da diversi dei suoi membri e la presa di posizione vista in precedenza sembrava più un autorevole avallo ad una tendenza generale che un’iniziativa autonoma atta a modificare in qualche modo il corso degli eventi.

Lo stato d’animo della popolazione locale fu percepito da una persona di nazionalità slovena di recente immigrata a Fiume che disse: "In due millenni di invasioni, guerre e rivoluzioni nessuno è mai riuscito a smuovere i fiumani dalla loro città. Ci è riuscito Tito in due anni". Non riuscì certo a sollevare lo spirito dei cittadini di nazionalità italiana l’assassinio di molti esponenti dell’intellighenzia avvenuto in circostanze sospette, come quello di alcuni autonomisti quali il Dott. Mario Blasich, Giuseppe Sincich e il Dott. Nevio Skull, che erano, dagli jugoslavi, se possibile, più malvisti dei nazionalisti italiani stessi.

La firma a Parigi, in data 10 febbraio 1947, dei Trattati di Pace con i cinque stati europei ex alleati della Germania nazista (Italia, Bulgaria, Romania, Ungheria e Finlandia), se da un lato chiuse la vicenda bellica per gran parte della popolazione italiana, dall’altro aprì una tristissima parentesi per coloro che invece vivevano nei territori ceduti alla Jugoslavia i quali, come visto, in base all’art. 19 di questo Trattato, avevano la facoltà di optare entro un anno per la cittadinanza italiana a prezzo di lasciare però alle proprie spalle casa, affetti e lavoro.

La legislazione, che ai sensi del Trattato di Pace, fu emessa dal Governo di Belgrado agli inizi di dicembre del 1947, affidò ai Comitati Popolari Distrettuali e Cittadini il compito di esaminare la legittimità delle richieste di opzione. Come già visto in precedenza l’applicazione di queste disposizioni fu ovunque molto restrittiva; era in gioco infatti la credibilità internazionale della Jugoslavia come garante dei diritti nazionali delle minoranze esistenti nel suo seno.

I criteri restrittivi, relativi alle surrichiamate opzioni, diventarono in pratica un requisito da riconoscere agli interessati soltanto in base agli accertamenti discrezionali degli organi amministrativi locali e si rivelarono abbastanza presto ostacolo difficilmente superabile per molte delle persone residenti nella regione.

Alla luce delle diverse prassi seguite, secondo il C.N.L..Is., le pratiche burocratiche furono disbrigate in modi differenti a seconda delle zone; nelle località costiere la cittadinanza italiana sarebbe stata riconosciuta a tutti coloro che ne avessero fatta richiesta mentre a maggiori restrizioni, fino all’impedimento indiscriminato dell’esercizio di tale diritto, erano state invece sottoposte le popolazioni dell’interno.

Gli strumenti messi in opera dai Comitati Popolari per ostacolare l’esodo andarono dal tentativo di dissuasione tramite la propaganda, alla lentezza nell’esplicazione delle pratiche, all’arbitrio nelle decisioni finali verso le quali il ricorso era quantomeno aleatorio.

Ricordiamo che la lettera del Trattato imponeva di optare per la cittadinanza italiana anche a coloro che avevano lasciato le terre cedute prima dell’entrata in vigore dello stesso (questo fu il caso, ad esempio, di buona parte dei polesi e degli zaratini). Le pratiche sarebbero state disbrigate dalle varie Prefetture Italiane dei nuovi domicili degli esuli.

Le domande di opzione, che in un primo tempo sembravano abbastanza limitate, dopo l’aprile del 1948 si intensificarono, assumendo un ritmo più incalzante. Il movimento era di proporzioni plebiscitarie e parallelamente furono intensificati gli ostacoli frapposti al riconoscimento del diritto di optare. La crisi del 1948, scoppiata tra Tito e il Cominform, ingigantì il fenomeno ponendo una difficile alternativa a molti comunisti istriani e provocando anche tra questi la richiesta di opzione.

Di fronte alla lentezza delle procedure il Governo jugoslavo concesse, probabilmente su sollecitazione di quello italiano, alcune proroghe per la presentazione delle richieste e nell’ambito delle trattative dirette tra i due paesi si collocò la riapertura dei termini per la presentazione delle domande avvenuta in seguito ad accordi in data 23 dicembre 1950. La nuova ondata di opzioni ripropose i momenti di tensione che avevano caratterizzato quelli del 1948 e 1949.

Dopo la conclusione di quest’ultima fase di opzioni, non restò altra strada per coloro ai quali era stata respinta la domanda che servirsi del diritto di svincolo dalla cittadinanza jugoslava.

Le cifre di questo esodo sono a tutt’oggi fonte di discussione tra i molti studiosi che si occupano di questo tema. L’"Opera Profughi" censì 201.440 persone, ma si calcola che il numero effettivo di coloro che scelsero di abbandonare la propria terra possa oscillare tra le 250 mila e le 350 mila unità e forse avvicinarsi di più a quest’ultima cifra.

I profughi si riversarono in Italia a ondate, con qualsiasi mezzo a loro disposizione, come vecchi piroscafi, bragozzi, treni e carri. L’esilio segnò per loro l’abbandono della casa, del lavoro e della comunità cittadina e per molti la disperazione e la miseria. L’idea del potere jugoslavo che l’esodo avrebbe riguardato poche migliaia di borghesi e che il popolo si sarebbe aggregato volentieri alla Jugoslavia, come abbiamo visto, fu profondamente sbagliata. Soltanto l’esodo degli abitanti di Pola si svolse sotto la protezione degli Alleati, tutti gli altri abbandonarono la loro terra sotto il controllo poliziesco dei partigiani slavi.

Gli alleati non vollero che i profughi si raccogliessero a Trieste; essi, dal canto loro, chiesero di non essere dispersi e proposero una sottoscrizione nazionale per creare delle piccole città. Alcuni politici italiani proposero di insediare la maggior parte di questi in Alto Adige, dove le attrezzature alberghiere offrivano una decorosa sistemazione, ma probabilmente lo scopo sottinteso era di ribaltare la percentuale etnica di questa regione.

L’Italia non accolse molto bene, per usare un eufemismo, gli esuli; per molti erano "tutti fascisti". Spesso il loro arrivo fu accolto tra fischi e invettive. Paradossale è l’episodio svoltosi alla stazione di Bologna nel quale alcuni attivisti del P.C.I. impedirono alle dame di carità di portare la prima assistenza a questa povera gente, minacciando di far saltare i binari del treno.

Molti non capivano perché queste persone lasciassero la loro terra, dove trionfava il comunismo, per raggiungere un paese con le ginocchia piegate dalla sconfitta bellica. Il Governo italiano, temendo rigurgiti nazionalisti da parte degli esuli, li disperse in 109 "campi di raccolta" sparsi su tutto il territorio nazionale, utilizzando le caserme e i campi di prigionia che si erano appena svuotati. Le condizioni di vita in questi campi erano veramente pessime. Lo stato italiano non era preparato ad accogliere una simile massa di persone; si verificarono episodi assolutamente incresciosi come la schedatura dei profughi al pari di comuni delinquenti, mentre malattie e miseria flagellavano i campi di raccolta.

Almeno fino al 1948 la linea del P.C.I. non fu certo favorevole alla "popolarità" di queste genti. Lo stesso Togliatti sosteneva che gli istriani avrebbero dovuto rimanere in Jugoslavia a fare da ponte tra i due paesi superando ogni differenza ideologica nell’unità degli ideali democratici e solo dopo la svolta cominformista i comunisti italiani iniziarono ad accusare la Jugoslavia, cambiando parzialmente orientamento, sulla questione degli esuli.

Purtroppo queste persone rimasero molti anni nei campi di raccolta, che si svuotarono lentamente, grazie anche alla formazione di loro associazioni, le quali li aiutarono a trovare una collocazione sia lavorativa sia abitativa. L’aiuto dello stato giunse tardivo con la costruzione di alcuni quartieri cosiddetti "giuliano-dalmati" come quello di Roma e di Fertilia, vicino a Sassari.

A distanza di cinquant’anni questa vicenda, a nostro parere, rimane fra le più grigie della storia contemporanea del nostro paese. La scelta che queste persone hanno compiuto, scelta di fedeltà alla madrepatria, non può essere discussa in quanto dettata da motivazioni troppo personali, ma non è stata compresa da un’Italia che, uscendo da una dittatura asfissiante e da una guerra persa, probabilmente vedeva questa manifestazione di attaccamento come un rigurgito del fascismo.

La storiografia ufficiale ha dimenticato questa vicenda, tant’è che anche nei migliori "manuali" vi si accenna soltanto.

La massima parte dei cittadini italiani non ha mai sentito parlare di queste vicende e solamente negli ultimi tempi la stessa sinistra, ad esempio con un intervento di Violante sul tema, ha iniziato una giusta autocritica.

Speriamo che tutto ciò porti ad una rivalutazione degli avvenimenti e a una conoscenza più obiettiva ed estesa possibile di questi fatti ed è probabile che ciò possa avvenire nell’ambito del nuovo scenario politico disegnatosi soprattutto in Croazia, e nel quadro di un rinnovato interesse che stampa e televisione italiana sembrano ultimamente avere per le vicende che hanno interessato il "confine orientale".

Altrimenti sarebbe una grande perdita, soprattutto culturale, per il paese, non poter conoscere e valutare appieno avvenimenti che hanno fatto parte della sua storia.

1.5 - IL MEMORANDUM DI LONDRA – 1954

Sul tappeto italo-jugoslavo rimaneva aperto il problema del cosiddetto T.L.T., costituito formalmente con il Trattato di Pace di Parigi, ma sostanzialmente mai esistito. Questo territorio era diviso in due zone: A e B., la prima sotto amministrazione militare alleata, la seconda sotto quella jugoslava; la linea di demarcazione tra di esse correva pressappoco a sud di Muggia.

Nelle due zone subentrarono progressivamente l’influenza italiana e la piena amministrazione jugoslava, anche per l’impossibilità di arrivare ad un accordo sulla nomina del Governatore super partes previsto dal Trattato. Durante il periodo di esistenza di questa vera e propria terra di nessuno la situazione internazionale era ancora favorevole alla Jugoslavia che, nella tensione esistente tra i due blocchi, costituiva un alleato prezioso per lo schieramento occidentale. L’8 ottobre 1953 l’Inghilterra e gli Stati Uniti, con una dichiarazione "bipartita" informarono Roma e Belgrado di voler ritirare le loro truppe da Trieste, passandone l’amministrazione civile all’Italia e in una nota segreta aggiunsero che le loro truppe sarebbero intervenute soltanto se la Jugoslavia avesse tentato di occupare Trieste, ma non avrebbero protestato in caso di "loro" annessione della zona B.

La reazione di Tito fu ispirata alla solita politica del "chiedere tutto per ottenere molto". Nella sua biografia egli confessò che la sua paura era che mostrare scarsa decisione sulla questione avrebbe significato perdere anche la zona B e quindi tanto valeva proclamare "Monfalcone alla Jugoslavia".

In Istria e a Fiume ci furono molteplici manifestazioni contro gli italiani rimasti; nella città quarnerina in una notte furono abbattute tutte le tabelle bilingui e non furono mai più ripristinate. Il clima di tensione era pressoché insostenibile, le effigi di Pella, allora Presidente del Consiglio e interprete di una politica per nulla accondiscendente, furono bruciate.

I due stati non perdevano occasione per scambiarsi reciproche accuse sul trattamento riservato alle minoranze. Gli irredentisti italiani seguivano attentamente le condizioni in cui viveva la popolazione italiana nella zona B; le ingiustizie perpetrate a danno degli italiani erano prontamente denunciale dal C.N.L. dell’Istria e spesso ricevevano eccessiva risonanza nei giornali annessionisti di Trieste.

Il 15 ottobre del 1953 Pella chiese l’applicazione della dichiarazione bipartita: il ritiro delle truppe slave dalla zona B e il plebiscito nella zona A con i voti di coloro che erano nati prima del 1918. La posizione di Pella, giuridicamente e moralmente forte, trovò due nemici: la debolezza dei politici italiani e la posizione di forza, accresciuta dopo la morte di Stalin, che Tito poteva vantare nei rapporti con il blocco occidentale.

La Jugoslavia si oppose al plebiscito ben sapendo che a prescindere dalla composizione etnica la popolazione avrebbe preferito la libertà ad un sistema dittatoriale, sostenendo anche che un eventuale plebiscito sarebbe stato falsato dalle conseguenze della politica di snazionalizzazione operata dal fascismo. La polemica tra i due Governi durò alcuni mesi e giunse a composizione nel maggio del 1953 con una conferenza a Londra cui parteciparono anche gli Stati Uniti, l’Inghilterra e l’Unione Sovietica.

Il 5 ottobre 1954 fu firmato, sempre a Londra, il cosiddetto "Memorandum d’intesa" che comprendeva nove articoli e due allegati e oltre a sistemare sostanzialmente in maniera definitiva i confini dei due Stati, costituì una sorta di carta dei diritti per la nostra minoranza vivente nell’ex zona B dell’Istria fino alla stipulazione, nel 1975, del Trattato di Osimo. Sostanzialmente, per quanto riguarda i confini, il Memorandum previde il ritiro degli anglo-americani dal T.L.T. e la restituzione all’Italia e alla Jugoslavia dell’amministrazione civile delle rispettive zone.

Il 6 ottobre Tito, dichiarandosi soddisfatto dell’accordo, chiese ed ottenne una modifica a suo favore della linea di demarcazione, ottenendo altre sei miglia quadrate di territorio con quattro comuni e 3500 abitanti che si svegliarono improvvisamente "jugoslavi" e scapparono all’istante.

Molti degli abitanti dell’ex zona B ripararono in Italia, aumentando, anni dopo, le cifre dei profughi giuliano-dalmati. Infatti, più di 21 mila abitanti lasciarono la zona B. Trieste comunque era tornata italiana. Concludendo si può affermare che l’accordo, pur costituendo un sacrificio sia per gli italiani sia per gli jugoslavi, poiché entrambe gli stati persero parte del loro territorio, portò anche dei vantaggi ai due paesi, stabilendo una più stretta collaborazione politica, economica e culturale.

Il capitolo quindi era definitivamente chiuso e gli accordi di Osimo del 1975, che sancirono la formale cessione della zona B alla Jugoslavia, ne furono solamente un’appendice scontata.

 

1.6 - LE FOIBE

E’ doveroso almeno accennare alla tragedia delle "Foibe", che esercitò un condizionamento non indifferente sulla polemica sviluppatasi nell’immediato dopoguerra tra i due schieramenti a riguardo del problema di Trieste e dell’Istria.

Le foibe sono voragini rocciose create dall’erosione violenta di molti corsi d’acqua. Raggiungono i 200 metri di profondità e si perdono in tanti cunicoli nelle viscere della terra; le pareti viscide e nere, tormentate da sporgenze e da caverne, terminano su un fondo di melma e di detriti. Gli eccidi che vi avvennero sostanzialmente ebbero una dinamica regolare: gli sventurati (e generalmente si trattava di italiani) rastrellati dai partigiani slavi venivano portati sull’orlo dell’abisso e spogliati, dopodiché erano legati ai polsi tra loro con del filo di ferro. Una volta messi in fila veniva ucciso il primo, che trascinava nella foiba gli altri, ancora vivi.

Non è nostra intenzione trattare sistematicamente questo tema poiché richiederebbe un lavoro di ricerca molto più approfondito, quindi ci limiteremo ad esporre brevemente i fatti ricordando che ancora oggi, a 50 anni di distanza, le principali pubblicazioni italiane sul tema, secondo il loro schieramento politico, divergono sul numero degli infoibati (da poche centinaia a dodicimila) e sulla causa stessa delle foibe (rivolta contadina o tentato genocidio).

La prima ondata di violenze iniziò dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, quando i partigiani titini dilagarono in Istria approfittando dello sbandamento dell’esercito italiano. Per le popolazioni croate e slovene della zona, duramente provate dalla dittatura fascista, prese concretamente corpo l’insurrezione popolare e la ribellione contro lo stato italiano. Questa non fu solamente una rivolta contro il fascismo e ciò che era in stretto rapporto con esso, ma degenerò in molti momenti in una vendetta verso ciò che era più generalmente italiano. La reazione slava si configurò come una sorta di "jacquerie" in cui, a farne le spese, era tutto ciò che negli anni precedenti aveva rappresentato il "potere e il padrone italiano".

Come in ogni "jacquerie" la violenza toccò punti estremi arrivando a configurarsi in vendette personali e delazioni; ma si può dire senza scadere nella retorica che migliaia di persone, buona parte delle quali innocenti, fecero una fine atroce.

La seconda ondata di infoibamenti avvenne dopo la liberazione dell’Istria dai tedeschi e cioè dopo il 3 maggio 1945 ed il leitmotiv di due anni prima riprese. E’ probabile che siano circa 10 mila le persone che, dopo essere state fatte prigioniere, furono trucidate in questo orrendo modo. In territorio italiano si trovano tutt’oggi le importanti foibe di Monrupino e Basovizza, che sono state dichiarate, nel corso degli anni, Monumento Nazionale.

E’ di pochi anni fa la dichiarazione del Presidente della Camera On. Violante che rivalutò questi "morti sconosciuti" cancellati dalla nostra storia e le sue frasi, accolte con piacere dalle Associazioni degli esuli, crearono invece numerose polemiche negli ambienti della sinistra italiana, di cui peraltro Violante è un importante esponente.

Secondo noi è auspicabile che il colore politico non influenzi una disamina storica coerente; lo stesso Generale Vladimir Dedijer dedica alle foibe un capitolo del suo terzo volume della bibliografia su Tito. Egli parla di oltre 3500 vittime, solo per quanto riguarda il "secondo periodo", tra cui tutti i dirigenti triestini del partito socialista, pericolosi per la loro insofferenza alle tesi annessionistiche filo-slave, e molti soldati alleati neozelandesi.

Quindi un avvenimento di una simile portata non deve, secondo noi, restare misconosciuto come successo sino ad oggi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1.7 - CONCLUSIONI

Gli avvenimenti della seconda vicenda bellica videro perciò la cessione alla Jugoslavia di molte terre situate al nostro confine orientale. Mentre per alcune, come il Carso goriziano, non si può obiettare, in quanto abitate quasi esclusivamente da slavi, per altre, come l’Istria e Fiume, si trattò di una cessione sofferta, forse evitabile, che provocò da quelle terre un esodo di proporzioni bibliche verso la Nazione Madre.

I comunisti jugoslavi seppero giocare abilmente sia con gli alleati sia con i comunisti italiani, tanto che ottennero praticamente più di quello che potevano sperare. Se si può muovere un appunto al P.C.I. è sicuramente quello di essersi arroccato su posizioni internazionaliste, mentre nell’esercito di Tito le mire nazionaliste e scioviniste sull’Istria e su Fiume erano ben chiare; prova ne è che gli slavi non permisero la costituzione di nessun battaglione partigiano italiano veramente autonomo nella regione, per poter meglio controllare tutti i gangli della guerra di liberazione.

Non dimentichiamo però che furono molti gli italiani che scelsero di rimanere nella regione istriana; la motivazione principale di questa scelta coraggiosa fu l’opportunità di partecipare dall’interno alla costituzione di una società comunista. Molti operai ed intellettuali arrivarono dall’Italia a dare man forte agli istriani rimasti e alle loro istituzioni, tra le quali la principale era sicuramente l’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume (U.I.I.F.), per apportare il contributo della cultura e del lavoro italiano alla fratellanza dei popoli jugoslavi.

Tra costoro che rimasero e gli esuli si aprì un solco; per decenni si affrontarono al grido di "comunisti traditori" e "sporchi fascisti" e solo ultimamente il dialogo è ripreso. Noi, da parte nostra, non possiamo giudicare la scelta compiuta sia dagli uni sia dagli altri. Come ci è stato riferito da un importante esponente della minoranza italiana in Istria "Questa è una storia che cola sangue, da qualsiasi parte la si guardi: chi è partito è esule in patria, chi è rimasto è straniero nella sua terra". Noi questa storia possiamo solo cercare di raccontarla.