CONCLUSIONI

 

 

L’Istria rappresenta da sempre uno spinoso oggetto storiografico che si apre a diverse interpretazioni e ha mille sfaccettature. Vi è però un denominatore comune: la sua “italianità“, che viene dalla storia, dalla geografia, dalla popolazione, dalla letteratura. Italianità che non si è mai piegata davanti al nemico. Schiacciata al Congresso di Vienna, messa all’angolo prima dalla sconfitta di Lissa, poi dalla firma della Triplice Alleanza, torna in auge con la prima guerra mondiale.

 L’Austria, dopo l’attentato di Sarajevo, il 28 giugno 1914, all’erede al trono Francesco Ferdinando e a sua moglie, dichiarava guerra alla Serbia, al suo fianco si schierava la Germania, mentre l’Italia si dichiarava neutrale. L’Italia aveva potuto dichiararsi neutrale grazie al fatto che il trattato d’Alleanza con la Germania e l’Austria aveva un carattere eminentemente difensivo.  

L’Italia sostenne la tesi dell’inesistenza del “casus foederis”; non era quindi obbligata ad intervenire nella guerra e solo l’esame dei suoi interessi poteva in futuro consigliarle l’atteggiamento da assumere.

Questa decisione del Governo italiano divise l’opinione pubblica. Per alcuni l’Italia doveva restare neutrale finché gli interessi del Paese non fossero stati messi in causa e nel frattempo rafforzarsi militarmente per essere pronta davanti ad ogni evenienza. Fautore di questa prima tesi era il Governo e la maggior parte dei partiti costituzionali che rappresentavano la maggioranza alla Camera e nel Paese.

L’Italia doveva rimanere neutrale fino all’ultimo, preservando così le proprie energie economiche e non esponendo a scosse l’organismo nazionale. Fautori di questa seconda tesi erano alcuni parlamentari ed ex-ministri di parte costituzionale, fra i quali l’ex Presidente del Consiglio On. Luzzatti e la maggioranza dei socialisti ufficiali.

L’Italia non poteva rimanere neutrale e doveva senz’altro prendere le armi per realizzare le sue aspirazioni nelle Alpi Orientali e nell’Adriatico. Fautori di questa terza tesi erano i socialisti riformisti, alcuni fra i deputati radicali, quasi tutti i deputati repubblicani, i deputati nazionalisti e alcuni deputati liberali.

La dichiarazione di guerra dell’Italia avvenne il 24 maggio 1915 e suscitò negli Imperi centrali un forte sentimento di sdegno e di risentimento, oltre all’accusa di slealtà e di tradimento.

Vi erano state all’ultimo momento delle concessioni dell’Austria-Ungheria all’Italia, giunte però troppo tardi, che riguardavano il Trentino e l’Isonzo, ma non corrispondevano neanche lontanamente agli obiettivi che la politica italiana si era posta, tra cui la difesa dell’italianità, un confine sicuro, diverso da quello imposto nel 1866, e una posizione strategica nell’Adriatico.

La Convenzione è stata firmata a Londra, prima della nostra entrata in guerra, dai rappresentanti del Governo italiano, francese, inglese, russo, e fu tenuta nascosta finche il Governo bolscevico di Pietroburgo non ne diede comunicazione alla stampa,  per poi essere pubblicata in Austria, e in Inghilterra. L’Austria ebbe così modo di usare questo documento per screditare il Governo italiano e il suo comportamento. Documento che il Governo Italiano considerava come un risultato positivo della nostra diplomazia, che portava gli Alleati a conoscenza delle nostre aspirazioni territoriali per quanto riguarda il confine orientale, e che ci salvaguardava da possibili incomprensioni sulle nostre aspirazioni proprio con questi ultimi.

La Convenzione di Londra assicurava all’Italia: la città di Trieste, e i suoi dintorni, la contea di Gorizia e Gradisca, tutta l’Istria fino al Quarnero, inclusa Volosca e le isole istriane, Cherso e Lussino, ed altre isole minori. Da Volosca s’inizia il tratto di costa lasciato alla Croazia, il quale arriva fino a Lissarizza ( 135 Km. Circa in linea retta), e naturalmente comprende Fiume, il maggior centro italiano dopo Trieste, dall’altra parte della costa. Da Lissarizza, vale a dire dal confine settentrionale della provincia di Dalmazia, comincia la parte di Dalmazia assegnata all’Italia, la quale giunge a sud fino ad una linea che parte dal mare vicino Capo Planka. Il resto della costa da Capo Planka alla foce del Drin, la Serbia e il Montenegro sono interessati, sarà incluso dalle Potenze dell’Intesa nel territorio di questi due paesi, ai quali pertanto spetteranno i porti di Spalato, Ragusa, Cattaro, Antivari, Dolcino, e San Giovanni di Medua. Il porto di Durazzo era stato affidato allo Stato maomettano dell’Albania, L’Italia otteneva così anche il pieno possesso di Valona, l’isola di Saseno e un territorio d’estensione sufficiente ad assicurare Valona contro pericoli d’indole militare, approssimativamente tra il fiume Vojussa al nord e all’est, e il distretto di Scimar al sud.[1]

Questo documento non menzionava la Jugoslavia, ma si riferiva al Montenegro, alla Croazia e alla Dalmazia, e sottintendeva il perdurare della duplice Monarchia, ma la dissoluzione dell’Austria-Ungheria divenne per l’Italia uno dei suoi principali obiettivi di guerra.

Un altro documento di grande importanza che  segnò i nostri rapporti con gli jugoslavi era il Patto di Roma. Per spiegare l’origine del Patto di Roma bisogna premettere che Sloveni, Croati e Serbi, cioè, gli slavi del sud o jugoslavi, erano divisi fra l’Austria-Ungheria, la Bosnia Erzegovina, il Montenegro e la Serbia. Come fra i czeco-slovacchi, così fra loro si è disegnato un movimento per l’unità e l’indipendenza che ogni giorno guadagna terreno e che mira a riunire i territori abitati da queste popolazioni in uno Stato libero, la Jugoslavia, le basi del quale furono gettate a Corfù, in una convenzione firmata il 20 luglio 1917, da Pasic, Presidente del Consiglio serbo, e dal dott. Trumbic, presidente del comitato jugoslavo. La Convenzione di Londra non si opponeva esplicitamente all’unità jugoslava, ma nemmeno la contemplava: essa parlava di Croazia, Serbia e Montenegro. Molti italiani pensavano invece, che era interesse primario del nostro Governo, non solo non opporsi alla formazione di una Jugoslavia, ma favorirla con tutte le forze. Mentre, infatti, le rivalità fra slavi del sud e italiani, determinate dall’essere mischiato nello stesso territorio che gli uni e gli altri si disputavano, potevano essere risolte, un nemico, con il quale non si poteva scendere a patti era organizzazione statale austriaca e l’elemento tedesco magiaro che le dominava. Degli slavi del Sud l’Austria-Ungheria voleva perpetrare la divisione e l’assoggettamento, perché i tedeschi potessero infiltrarsi tra loro e gli italiani e scendere da padroni nell’Adriatico. Agli italiani l’Austria voleva impedire il completamento della loro unità, la sicurezza nell’Adriatico, la penetrazione economica in Oriente, lo sviluppo insomma di gran nazione.

Sulla concezione di questi interessi comuni alcuni italiani avevano gettato le basi di un congresso a Roma dei rappresentanti delle nazionalità oppresse dall’Austria-Ungheria nella convinzione che senza la liberazione di questi popoli ( italiani, polacchi, rumeni, boemi, jugoslavi) non fosse stato possibile né raggiungere le nostre aspirazioni nazionali, né garantirci per l’avvenire da ogni possibile rivincita tedesco-magiara.

I rappresentanti delle nazionalità riconobbero nella monarchia austro-ungarica lo “ strumento della dominazione germanica”, l’ostacolo fondamentale alla realizzazione delle loro aspirazioni, e affermarono la necessità della lotta comune, perché ciascun popolo potesse conseguire la totale liberazione e la completa unità nazionale nella libera unità statale. I rappresentanti italiani e jugoslavi formularono una dichiarazione supplementare nella quale essi:

1.     Riconoscono che l’unità e l’indipendenza della Nazione jugoslava era interesse vitale dell’Italia, come il completamento dell’unità nazionale italiana è interesse vitale della nazione jugoslava. Perciò i rappresentanti dei due popoli s’impegnavano a svolgere tutta la loro opera affinché durante la guerra e al momento della pace, queste finalità delle due nazioni fossero state interamente raggiunte.

2.     Affermarono che la liberazione del mare Adriatico e la sua difesa contro ogni pretesa ed eventuale nemico erano un interesse vitale dei due popoli.

3.     S’impegnarono a risolvere amichevolmente, anche nell’interesse dei due popoli, le singole controversie territoriali sulla base dei principi di nazionalità e del diritto dei popoli di decidere della propria sorte e in modo da non ledere gli interessi vitali delle due Nazioni, che sarebbero stati definiti al momento della pace.

4.     Ai nuclei di un popolo che dovranno essere inclusi nei confini dell’altro sarà riconosciuto e garantito il diritto al rispetto della loro lingua, della loro cultura e dei loro interessi morali ed economici.

Come si è potuto costatare né italiani, né jugoslavi, menzionarono la questione territoriale in alcun modo. Gli jugoslavi, rappresentanti di un’idea ed un’aspirazione del loro popolo, erano sprovvisti di qualsiasi autorità legittima, non potevano, quindi, fare concessioni.

Gli italiani, che avevano assicurato le loro rivendicazioni in una convenzione con gli Alleati, non avevano mai pensato di sostituirsi al loro Governo e consentire a rinunzie o stipulare modifiche di quella stessa convenzione.

Alla stipulazione del Patto di Roma avevano partecipato i diversi rappresentanti di correnti di pensiero, vi erano alcuni i quali per ragioni storiche e strategiche, la secolare italianità di lingua e di cultura della costa dalmata, mai domata dalla dominazione austriaca, l’esistenza su questa costa di posizioni necessarie alla sicurezza italiana nell’Adriatico, la possibilità di aderire ad un sistema politico ostile all’Italia, sostiene i diritti dell’Italia sulla Dalmazia. Vi erano altri invece, i quali condividevano  il pensiero di Mazzini, Tommaseo, e altre figure del nostro Risorgimento, reclamavano Trieste e l’Istria, chiedevano in ogni modo, garanzie per gli italiani della Dalmazia, ma consideravano l’annessione di una parte di questa regione avulsa dal resto del territorio nazionale, come ingiusta per la gran preponderanza che aveva in Dalmazia l’elemento slavo, come non necessaria alla nostra sicurezza nell’Adriatico, come pericolosa per i fastidi, che questa annessione avrebbe comportato, ma soprattutto per l’onere grave che sarebbe derivato per la sua protezione in caso di guerra, e la conseguente inimicizia della Jugoslavia.

Correnti ben diverse quindi, ma tutte concordavano nel ritenere la liberazione delle nazionalità oppresse e la formazione di una Jugoslavia unita come supremo interesse italiano e che la definizione delle questioni territoriali sarebbe stato da rinviarsi  alle trattative di pace, sulla base dei criteri enunciati nel Patto di Roma.

C’è un’ultima considerazione da fare ed è questa: se l’Austria fosse rimasta in piedi, l’Italia non avrebbe mai visto realizzate le sue aspirazioni, le quali, mentre non contrastavano con l’esistenza della Jugoslavia, contrastavano invece con l’esistenza di una Monarchia potente, che premeva sul mare Adriatico con tutte le sue forze e con quelle della sua alleata la Germania.

Il 4 novembre 1918 fu firmato l’armistizio con l’Austria-Ungheria, dieci giorni dopo quello con la Germania, il momento della Conferenza di pace si stava avvicinando, ma all’Italia mancava l’approvazione del Presidente Wilson alle sue aspirazioni.

Il Presidente Wilson aveva fatto entrare gli Stati Uniti d’America in guerra nel 1916, l’apporto militare conferito fu fondamentale per giungere alla vittoria finale dell’Intesa, e questo gli aveva garantito di essere riconosciuto come l’arbitro della Conferenza di pace.

Già l’ 8 gennaio 1918 Wilson aveva enunciato i 14 punti, con i quali esprimeva la sua idea per la pace mondiale, chiara era l’intenzione di non riconoscere eventuali accordi segreti stipulati per la guerra e quindi negava ogni valore al nostro Patto di Londra. Inoltre il nono punto, dove si parlava, di riassetto delle frontiere italiane secondo linee di nazionalità chiaramente riconoscibili, era talmente ambiguo da prestarsi a tutte le possibili interpretazioni. Alla luce di tutto ciò l’Italia avrebbe dovuto cercare l’accordo con Wilson, presentando le nostre aspirazioni, poiché legittime, e non frutto dell’imperialismo, in maniera chiara e diretta.

La Conferenza di pace di Parigi si apriva alla Delegazione italiana in maniera controversa. 

La questione della frontiera orientale appariva più complicata rispetto alla determinazione della frontiera settentrionale, era essenziale per la nostra sicurezza che la frontiera avrebbe acquisito insieme le caratteristiche naturali d’ostacolo geografico, di difesa e di dominio dell’Adriatico.

Ma la complessa questione dei porti di Trieste e di Fiume e del loro hinterland, non è di quelle che si possono decidere con un criterio semplicemente etnico, geografico, o strategico.

Ad oriente l’Italia doveva finire nel Quarnero, come a settentrione doveva finire nel Brennero, questi erano considerati i suoi termini sacri. Indubbiamente all’interno di questi confini vi erano delle minoranze straniere, ma il raggiungimento di uno Stato nazionale senza quest’inglobamento era in concreto impensabile. Il confine sicuro era l’unica vera garanzia d’equilibrio, di giustizia, di libertà e di pace per i popoli, questa guerra era stata combattuta e vinta affinché il mondo potesse avere libertà, giustizia e pace.

 

 

    



[1] Vedi cartna n° 3, in appendice, pag. 142.