1.1.1. Gli antichi insediamenti.
Le due regioni presentano
una considerevole quantità di reperti archeologici risalenti al Paleolitico, al
Neolitico e all'Età del Bronzo che attestano l'antichità degli insediamenti
umani in loco.
Le più antiche testimonianze
sono state riportate alla luce in varie località: a Monte Malez, a San Daniele
presso Pola e a San Romualdo nelle vicinanze di Rovigno.
Le popolazioni istriane
stabilirono le loro sedi nei castellieri, fortificazioni poste sulla sommità
delle colline; le cittadelle, protette da una o più cinte di sbarramento,
costituivano dei ridotti allo scopo di difendersi dalle incursioni straniere.
La diffusione dei
castellieri fu assai ampia e non si limitò all'Istria ma si sviluppò in
un'ampia area, così da raggiungere l'Italia, la Carniola e la Dalmazia.
Questa grande estensione fa
ritenere che la loro funzione non fosse unicamente difensiva, ma che
costituissero dei mercati locali o che fossero delle stazioni di posta sulla
via dell'ambra, che, partendo dal Mar Baltico, raggiungeva le coste adriatiche.
I castellieri durarono come
entità politiche e commerciali fino alla colonizzazione romana, quando molti di
essi vennero incendiati e distrutti; tuttavia, in taluni casi essi furono le
basi su cui furono fondate nuove cittadine romane o nuove sedi difensive in età
alto-medievale.
I primi reperti archeologici
di questi complessi vennero alla luce nella metà del secolo scorso e imponenti
operazioni di scavo furono condotte nell'attuale, quando si scoprirono le
rovine di Leme e di Nesazio.
Dapprima vi furono delle
difficoltà nel datare e nell'individuare questi reperti, poiché, per il loro
gran numero, gli studiosi pensavano ad antichi insediamenti celti, antecedenti
la conquista romana; solo in seguito si poté dare loro una collocazione storica
più precisa, attribuendoli alle antiche popolazioni preceltiche.
1.1.2. Le
più antiche testimonianze linguistiche.
Nell'ambito della
toponomastica locale esistono alcune forme che possono risalire alle
popolazioni stabilitesi nella penisola istriana prima dell'arrivo delle genti
indoeuropee. L'accettazione di questi reperti non è mai stata priva di diverse
valutazioni; ecco tuttavia quei relitti lessicali che furono accolti accolti
senza soverchie diffidenze dagli studiosi.
Fra questi ricordiamo:
1)
ALBA/ALPA: “sasso” (G.Devoto 1980:33)
oppure “roccia” (C. Battisti 1959)
presenti nei toponimi ALB-ona e
nel castelliere Albuzzano. Questo
relitto ha un'ampia diffusione in Asia, nella sponda meridionale del Mar
Caspio, in Asia Minore, a Creta, nell'area narbonense, aquitana, pirenaica,
iberica, ma anche nell'area laziale e parasicana con ALBALONGA, ALBANUS mons, ALBURNUS mons e in Liguria con ALBENGA, ALBISOLA, ALPICELLA,
senza contare l' oronimo delle Alpi che deriva da questa antichissima radice.
2)
LAMA: “acquitrino” questo relitto semantico si trova nell'antico nome di
Cittanova che era LAMA TOPIA.
3)
LABA/LAPA: “frana”. anche questa forma ha un'ampia
diffusione: sarebbe da accostare al pregreco laas “pietra”, al sardo
LAERA, “piastrella”, al campano LAVERA, al friulano LAVARE, “lastra di pietra”
e al piacentino LIBIA, “terreno franoso”; da notare che
nell'istriano abbiamo una forma omologa in LAVRA
o LUVERA. L'antico valore semantico è
rimasto nell'albanese LËRA, “frana”. Esiste anche un nome di popolo LABEATES riconducibile al relitto anario
con l'aggiunta del suffisso etnico -ates.
4)
TAURA: “tumulo”. Si rileva, anche in questo caso un etnico TAURISEI, abitanti della Pannonia, e TAURINATES o TAURINI nel Piemonte. In Istria esisteva il comune di TAURISANI e un'isola chiamata TAURIS.
5)
*VEL-: “elevato”.
Questa base aggettivale anaria è presente nella toponomastica antica e, in
particolare nel latino VELITRAE e
nell'osco VELESTROM e potrebbe essere presente sia nel nome
dell'isola di VEGLIA che in quello
dei monti VELEBITI.
Assai interessante è stato
il lavoro di Franco Crevatin (1976:35-40) in cui vengono evidenziati altri due
elementi, con tutta probabilità anari, presenti in Istria:
1)
*CARMA che in rovignese significa “buca”, “fossa”; esso ricompare nei toponimi CARMA e monte CARMAGNASA
presso Rovigno e CARME' presso
Parenzo. Analogie sono evidenti nei dialetti croati di Dalmazia con la forma GARMA e nell'albanese KARMË, “pietraia”. Secondo Crevatin da questa base si sarebbe sviluppato il
toponimo friulano CORMONS secondo il
processo *CARMA + il
suffisso collettivizzante indoeuropeo *-on oppure *-ones > *CARMONES > *CORMONES > CORMONS, il toponimo sarebbe stato creato su base anaria da una
popolazione indoeuropea, probabilmente celtica, i Carni, che lasciò tracce di sé in alcuni toponimi come CARNIA, CARNIOLA, e CATALI. A
riprova dell’origine celtica di queste forme si ricordi la presenza del
toponimo Carmagnola in Piemonte.
2)
*MATA: da cui abbiamo l'odierno toponimo di San Pietro
dell' AMATA, presso Pirano. Questa è
una voce rara che affiora in documenti di archivio di Pirano (1254), di Parenzo
e Dignano (1506),e che sembra essere di sostrato mediterraneo prelatino, non
avendo alcun elemento di contatto con etimi latini o slavi, e si tratterebbe di
un appellativo riguardante la vegetazione e, in particolare, una macchia ricca
di sottobosco assai fitto.
Giacomo Devoto (1962:402)
parla di una o più fasi preindoeuropee, caratterizzate dalla presenza di
suffissi tipo *-ona
e tipo *-te, assai comuni
in Italia e in Istria: TERGESTE, ATESTE, ESTE, ALBONA, FIANONA, MONTONA, DERTHONA, CREMONA.
Anche l'etimo LIBURNI avrebbe un omologo in Italia con
LIBARNA, antica cittadina nei pressi
di Serravalle Scrivia, senza contare la presenza del gruppo consonantico -rn- che si trova in alcuni nomi italici:
VOLTURNO, CALPURNIA gens.
Gli Histri sarebbero stati, secondo il Devoto (1964:270-271), una
popolazione mediterranea affine agli altri gruppi anari diffusi nell'Italia
preromana, che si sarebbe indoeuropeizzata in un secondo tempo. Questa
mescolanza prima, ed assimilazione poi, sarebbe avvenuta a più riprese, poiché
le ondate indoeuropee si sarebbero riproposte periodicamente.
Questa teoria non è stata
accolta da altri studiosi, ad esempio Crevatin (1989:549) il quale, pur
accettando l'esistenza di uno strato anario in Istria, ritiene che l'etnico Histri sia indoeuropeo, presentando
delle analogie con il sanscrito ISIRA,
“vigoroso”, “impetuoso”, e con numerosi idronomi come ISARA (celt.), ISTER,
antico nome del Danubio.
Di parere opposto è Mario
Doria (1972:37) che definisce Histri
un etnico assai oscuro la cui omofonia con l'idronomo ISTER sarebbe casuale.
Mario Doria ha voluto
evidenziare il carattere multietnico delle regioni dell'alto Adriatico prima
della colonizzazione romana, la presenza di varie etnie potrebbe essere il
risultato di sovrapposizioni avvenute nel corso dei secoli e non si esclude la
possibilità che questi fenomeni di insediamento fossero pacifici e non
presupponessero l'annientamento della popolazione indigenza (M. Doria
1972:17-39).
La persistenza di doppi o
tripli toponimi o idronomi (M. Doria 1972) fa sospettare per l'appunto
l'esistenza di nuclei etnici non omogenei che in qualche modo dovettero
convivere in aree spesso assai ridotte e soggette al passaggio di popoli
stranieri.
L'Istria, ad esempio, sembra
essere il punto di incontro di due culture, quella venetica e quella illirica
(M. Doria 1972: 28), affiorando numerosi toponimi che possono essere ricondotti
alle due lingue.
M. Doria attribuisce al
venetico i nomi delle località di OPPITERGIUM,
TERGESTE, PARENTIUM, il nome dell'isola CANTA
(Brioni maggiore) e gli idronomi come TIMAVUS
e FORMIO; mentre all'illirico sono
attribuiti ALBONA, FIANONA, HUMAGUM, MONTONA, EMONA e Dizhros, un rivo che scorre nei
pressi di Pola, e forse anche SIPPARO,
REVINIUM, REUNIA, POLA, BARBANA, ATISO, ATESIS e ATESTE.
1.2.1. La
colonizzazione romana.
Alla vigilia delle guerre
con Roma l'Istria era, come si è visto, zona di contatto e di intersezione fra
il mondo venetico e quello illirico. Hollaux (1975:186) è propenso a credere
che gli Histri appartenessero alla
stirpe illirica, che si sarebbe stanziata in un'area molto ampia, delimitata
dalle Alpi orientali, dall'Adriatico, dai monti Acrocerauni, dal fiume Morava e
dal tratto del medio Danubio.
Altri (Crevatin 1989)
ritengono che, nonostante vi fossero profondi contatti con la limitrofa area
liburnica e con cospicui nuclei di Celti
stanziati nell'odierna Venezia Giulia, gli Histri
presentassero affinità con il popolo dei Veneti
e ipotizzano parlassero una lingua affine al venetico.
Fu proprio per le
caratteristiche della penisola, separata dall'entroterra da un'alta catena
montuosa e con un territorio solo in parte produttivo, che i suoi abitanti
s'affidarono al mare diventando temibili corsari, così che, per la concorrenza
dei pirati liburni e dalmati, navigare il mare Adriatico era per i mercanti
greci un'impresa pericolosa.
Ma la minaccia degli Histri non si fece sentire solo per
mare: quando agli inizi del II secolo a.C. la potenza di Roma aveva consolidato
il proprio dominio nell'Italia settentrionale, si volle porre fine allo
stillicidio di incursioni da parte degli Histri
nella pianura veneta, fondando la colonia latina d'Aquileia (181 a.C.).
Le razzie però non
terminarono e Roma fu costretta ad organizzare numerose spedizioni militari.
Solo dopo alterne vicende i romani riuscirono a sconfiggere il re degli Histri e si impadronirono della penisola
fino a Pola; ma la pacificazione completa si ebbe solo nel 129 a.C. con
l'annientamento di ogni attività piratesca nell'alto Adriatico. Il processo di
colonizzazione fu rapido: furono fondate nuove colonie su antichi insediamenti
urbani a Trieste (TERGESTE), Pola (PIETAS JULIA), a Parenzo (PARENTIUM).
Gli agri furono suddivisi in
centurie che, favorendo la formazione di vasti latifondi, incrementarono e
migliorarono lo sfruttamento agricolo; particolarmente famosa fu la produzione
dell'olio assai rinomato nel mondo antico.
Anche la produzione
artigianale ebbe nuovi impulsi con l'apertura di centri per la lavorazione
della pietra e della ceramica.
Durante la colonizzazione
romana la popolazione era distribuita in modo diseguale: assai abitate erano le
coste e i territori immediatamente retrostanti, mentre verso l'interno i nuclei
abitativi erano scarsi.
In epoca augustea fu
costituita la X Regio Venetia et Histria,
che inseriva direttamente la penisola in una nuova struttura amministrativa,
avvicinandola ancor più al mondo italico e, data la testimonianza esclusiva di
prediali latini e di antroponimi romani, si pensa che in quel tempo non vi
fossero più Histri non romanizzati.
Durante l'Impero romano,
Aquileia acquisì sempre maggiore importanza, diventando il centro principe per
il mondo veneto ed istriano in ambito politico, culturale, linguistico e poi
religioso dopo l'avvento del Cristianesimo.
Il latino parlato nella
penisola fu di tipo aquileiese, attestato da alcuni relitti lessicali, presenti
nell'istrioto e ignoti negli altri dialetti dell'Italia settentrionale, e da
convergenze molto antiche (Crevatin 1989:49).
L'unione dell'Istria
all'Italia stabilì dei legami linguistici talmente saldi da non venire meno
neppure durante le invasioni barbariche. A beneficio di ciò si consideri che,
pur essendo un'area marginale e conservativa, nell'Istria furono assenti scelte
lessicali di tipo dalmatico.
Se la guerra condotta contro
gli Histri fu lunga, quella condotta
contro le popolazioni illiriche fu estenuante: iniziata nel corso del II secolo
a.C. terminò nel 4 d.C. L'ampia durata del conflitto, interrotta dal lunghi
periodi di stasi, fu contrassegnata da molte spedizioni militari che ottennero
successi solo parziali e temporanei per i ricorrenti problemi interni e non, a
cui dovette far fronte la Repubblica Romana, che impedivano un impegno militare
duraturo per pacificare in modo definitivo la regione.
A questo andava aggiunta
l'indole fiera di quelle popolazioni, gelose della loro indipendenza e decise a
poter esercitare liberamente la guerra di corsa e le razzie.
L'ambito su cui operavano i
pirati illirici era assai ampio e non si limitava all'Adriatico, ma si
estendeva su buona parte del Mediterraneo, soprattutto orientale. Fu solo
nell'età del Principato che l'autorità romana poté affermarsi in modo compiuto
su quelle terre, quando Ottaviano prima e Tiberio dopo, con gran dovizia di
mezzi, spossarono ed annientarono la ribellione dalmata.
Da allora anche la Dalmazia
fu rapidamente assorbita nel mondo romano, così da essere considerata parte
integrante della penisola italiana ed. essere dichiarata provincia inermis.
Nell'economia dell'Impero la
Dalmazia, che, come ricordiamo, aveva un'estensione maggiore di quella attuale,
rivestiva un'importanza fondamentale per il traffico mercantile, poiché i porti
di IADER e SALONA, oltre ad essere degli scali per le grandi rotte orientali,
erano anche i punti di partenza di un'estesa rete viaria che metteva in
contatto la Penisola Balcanica e Costantinopoli con le sponde italiane.
Ma, nonostante ciò, il
grande traffico marittimo faceva capo ad Aquileia, che, come si è visto,
divenne una città ricca e potente ed uno dei centri economici più vitali ed
espansivi dell'Impero.([1]).
Fu per questo che le
cittadine dalmate, al pari di quelle istriane, non produssero una città-guida
propria, durevole e stabile, che potesse essere un punto di riferimento non
solo economico ma anche culturale e politico, e così, deboli del loro particolarismo,
continuarono a gravitare su Aquileia.
La mancanza di una
città-faro fu un elemento caratteristico della storia antica e recente della
Dalmazia che finì per contraddistinguere la propria storia linguistica, quando
con lo sfacelo dell'Impero e della sua unità linguistica vi si manifestarono i
primi germi di un latino parlato, da cui sorse più tardi una nuova lingua
romanza.
La nuova parlata risentì non
poco dello sviluppo e dei caratteri del mondo dalmata, che mantenne la propria
cultura e la propria identità latina, nonostante il mondo latino fosse ormai in
crisi, e conservò inoltre la propria vocazione marinara, puntando su questa per
la propria sopravvivenza e il proprio sviluppo, instaurando col contado
circostante rapporti secondari e complementari.
Le città dalmate
costituirono delle oasi di latinità dispersa in un territorio ampiamente
disabitato, in cui i reciproci contatti erano stabiliti mediante le
comunicazioni marittime; questo faceva sì che ognuna godesse di una certa
autonomia e seguisse vie di sviluppo indipendenti rispetto alle altre, pur
continuando a far parte per lungo tempo dell'Impero Romano d'Oriente.
Questa situazione condizionò
lo sviluppo della nuova parlata che, nascendo da una matrice comune, finì per
differenziarsi in molte varietà le quali, anche se non presentavano differenze
marcate, dovevano avere tratti distintivi che per gli scarsi reperti possiamo
solo ipotizzare (B. Rosenkranz 1955:269-279).
Lo sviluppo parallelo ed
autonomo di questa parlate fu altresì condizionato dall'invasione avaro-slava
del VII secolo e finì per accentuarsi sempre più, poiché l'interno divenne un
mare croato e i contatti diretti fra le cittadine, ormai ridotte a degli
avamposti della latinità, furono più difficili per l'inizio dell'attività
piratesca dei Croati e dei Narentani.
1.2.2. I grandi rivolgimenti dei
secoli V-VII.
Le grandi invasioni
barbariche del V secolo interessarono anche l'area istriana e dalmata, che,
alla caduta dell'Impero finì temporaneamente sotto il dominio dei Goti, e dopo
la conquista di Giustiniano del VI secolo fu restituita all'autorità di Costantinopoli.
La minaccia costante dei
barbari indusse allora gli imperatori bizantini ad organizzare le due province
nella struttura amministrativo-difensiva dei themi, per arginare le ricorrenti scorrerie. Ma, tornando al V
secolo, scarsi furono gli influssi linguistici dei Goti, che lasciarono traccia
di sé solo in alcuni toponimi di alcuni quartieri della città di Trieste e sul
Carso.
Molto più ampie sono le
testimonianze lessicali della presenza bizantina, anche se di incerta
individuazione, essendo difficile riconoscere i prestiti importati sul luogo
direttamente da Bisanzio dagli amministratori, dai soldati, dai religiosi e
quelli mediati da città e da popoli vicini, poiché Aquileia e Ravenna, e poi
Venezia, furono centri assai importanti di irradiazione del greco, e la stessa
lingua croata fu un tramite assai efficace di elementi lessicali
greco-bizantini.
Ma a parte i toponimi ([2])
i prestiti lessicali diretti sono esigui: abbiamo marasa (< maqarov), “finocchio” e “sa” (< qia), forma di
rispetto e di reverenza per le donne, attestata nell'istriano meridionale.
Oltre a queste ricordiamo i
comuni bazegol, basilico, e liagò (< hliakov)
“altana” la cui distribuzione è tanto
ampia da comprendere tutto il Veneto.
Nella seconda metà del VI
secolo l'arrivo dei Longobardi sconvolse gli equilibri stabiliti dalla
riconquista bizantina di Giustiniano; i nuovi arrivati, che portarono con loro
elementi gepidici, avari e slavi, ebbero il sopravvento sul numerus bizantinus e poterono occupare
l'odierno Friuli dove stabilirono il loro punto di partenza per l'imminente
conquista dell'Italia settentrionale.
Lo stanziamento dei nuovi
venuti provocò un mutamento politico radicale e doloroso per le popolazioni
latine e nel contempo una contrapposizione fra due mondi: quello germanico e
quello latino-bizantino.
La storia linguistica fu
condizionata da questa separazione, poiché nelle due aree delimitate e
contrapposte nacquero e si svilupparono parlate diverse: nel Friuli longobardo
dalle spoglie del latino parlato sorse il ladino
nella sua variante orientale, che si espanse fino a raggiungere l'Istria
settentrionale (con le città di Trieste, Muggia e Capodistria: v. pag 30-31),
mentre nella restante parte della penisola si affermò l'istrioto con una diffusione che possiamo solo ipotizzare.
Questo dualismo assunse
caratteri più profondi e netti quando, a partire dal VII secolo, si insediarono
nel territorio le popolazioni slave (v. par. 1.3.2) che, inserendosi a cuneo,
raggiunsero il mare all'altezza di Parenzo e interruppero la continuità delle
parlate latine, le quali da allora seguirono vie di sviluppo divergenti.
La distinzione ed il
riconoscimento dell'area linguistica friulana e di quella istriana si ebbe
negli ultimi decenni del secolo scorso, quando furono effettuati degli studi
scientifici sulle due lingue.
Fecondo studioso fu
Graziadio Isaia Ascoli, che riconobbe l'autorità di lingua al ladino nei suoi Saggi ladini del 1871, e che, in studi
successivi, evidenziò che in alcune cittadine istriane come Rovigno, Dignano,
Valle e Gallesano, accanto all'assai diffuso dialetto veneto, esisteva una
parlata locale, che in tempi non lontani doveva aver avuto una diffusione più
ampia e ad un primo esame presentava affinità col ladino.
Il prestigio di Ascoli e lo
straordinario valore delle sue scoperte tracciarono per gli studi futuri una
rotta in una direzione ben precisa, che ammetteva un'estensione dell'area
linguistica ladina assai più ampia, comprendendo l'Istria intera e, forse, le
ormai scomparse parlate neolatine allogene del litorale dalmata settentrionale.
Fu Antonio Ive che divulgò
nel 1900 gli studi indirizzati in questo senso; egli espose una teoria, in cui,
evidenziando alcune connessioni fra il ladino e l'istrioto, riteneva che il
primo fosse la base delle parlate istriane e che un tempo si estendesse per
tutta la penisola fino a raggiungere Pola, ultimo lembo della ladinità
orientale (Bartoli-Vidossi 1946:65).
Questa situazione
linguistica sarebbe entrata in crisi con l'espansione di Venezia e col suo
dominio politico-economico, che avrebbe spezzato il continuum ladino in Istria, facendolo scomparire dalla parte
centro-settentrionale e costringendo poi le parlate della parte centro
meridionale ad un regresso costante.
Dopo la conclusione del
primo conflitto mondiale che assegnò l'Istria all'Italia, furono approfonditi
gli studi sull'istrioto e sulle sue similitudini reali o presunte col ladino, e
furono avanzate nuove teorie, non del tutto immuni da rivendicazioni politiche.
Una di queste fu proposta da
Petar Skok, per il quale nessuna lingua neolatina parlata in Istria poteva
ritenersi diretta discendente del latino volgare parlato anticamente colà;
l'erede legittima sarebbe stata la variante più settentrionale del dalmatico,
il veglioto, che avrebbe lasciato tracce oltre che nella toponomastica anche
nelle moderne parlate di Rovigno e Dignano.
Lo strato dalmatico sarebbe
stato poi sopraffatto e sommerso in una fase successiva dal ladino, cancellando
quasi del tutto le vestigia della lingua autoctona, definita dallo Skok ancien istro-roman o ancien prè-frioulan. A questa fase ne
sarebbe sopravvenuta una terza, quella veneziana, più recente, che,
rinsanguando una latinità ormai esausta, dalla crescente colonizzazione slava,
avrebbe imposto la lingua della Dominante([3]).
Furono gli studi di Matteo
Bartoli (1918) a separare definitivamente l'istrioto dal ladino, anche se
rimasero epigoni, come Clemente Merlo, fautori convinti delle concordanze fra
le due parlate.
Bartoli e Vidossi
confutarono le fantasiose teorie di Skok, sia per quanto riguardava lo stato
linguistico primigenio, che le sovrapposizioni avvicendatesi nel corso dei
secoli.
In particolare essi
rifiutarono la teoria per la quale il ladino avrebbe avuto nell'antichità una
diffusione così estesa; certo esso si parlava a Trieste fino agli inizi
dell'Ottocento e a Muggia fino al termine del medesimo secolo. E' assai
probabile che in alcune città dell'Istria settentrionale si parlasse una
variante friulaneggiante, scalzata in seguito dalla lingua di Venezia (M. Doria
1974:137-139).
Ma nell'Istria centro-meridionale
sorsero degli idiomi particolari, indipendenti dal ladino e dal dalmatico, in
un secondo tempo influenzati fortemente dal veneto durante i secoli di egemonia
non solo economica e politica, ma anche culturale della Serenissima.
L'area di diffusione delle
parlate istriote doveva essere più ampia, basti pensare che una variante di
queste, il polesano, scomparve
definitivamente nel XIX secolo, e che esse furono costrette ad un costante
arretramento, oltre che per il prestigio della lingua di Venezia, anche per
l'arrivo di genti slave e per l'infuriare di guerre e pestilenze esiziali che a
più riprese flagellarono la regione.
Questa teoria permise di
avere un più preciso quadro dello sviluppo storico-linguistico dell'intera
area.
Tornando, però, sullo stato
di guerra fra Bisanzio e i Longobardi, vediamo che l'Impero riuscì a mantenere
il controllo dei litorali alto adriatici, anche perché i nuovi venuti puntarono
decisamente verso le fertili campagne della pianura padana. Tuttavia apparve
ben presto che la posizione bizantina era assai vulnerabile.
L'autorità imperiale, che
era stata l'estremo baluardo della latinità travolta dai barbari, fu incapace a
provvedere in modo organico alla difesa dei propri territori minacciati.
Inoltre il crescente bisogno
di denaro, per far fronte a molteplici avversari, indusse Bisanzio ad attuare
una pressione fiscale assai gravosa per le popolazioni locali che portò ad
esiti nefasti ed impopolari.
I Latini, costretti a far
fronte da soli alle minacce esterne, iniziarono ad alimentare il desiderio di
affrancarsi da un potere centrale, lento nel mandare soccorsi, ma sollecito
nell’esigere il pagamento delle tasse.
La volontà di autonomia non
si espresse solo nell'ambito politico ed economico, ma anche in quello
religioso, dove già a partire dal VI secolo i contrasti fra l'Imperatore
Giustiniano e Papa Vigilio erano sfociati nello scisma dei Tre Capitoli. In
questa occasione l'importante patriarcato aquileiese, che esercitava la propria
autorità diocesana su tutta l'Istria, si schierò apertamente con Roma contro le
suggestioni cesaropapiste di Costantinopoli.
La presenza militare
bizantina nell' Italia settentrionale cessò di fatto nel 751, quando le milizie
longobarde di Astolfo costrinsero alla resa Ravenna, capitale dell'Esarcato.
Il tracollo dei Greci, segnò
per contro la preponderanza politica e militare dei Longobardi, volti ad
espandere il proprio dominio a spese del Patrimonium
Sancti Petri.
Questa situazione sancì al
tempo stesso un pericoloso isolamento del litorale adriatico latino, che, pur
appartenendo nominalmente all'Impero d'Oriente, ne costituiva i lembi estremi
ormai indifendibili.
1.3.1. L'Istria
e il Sacro Romano Impero.
La guerra del 773-774 mossa
da Carlo, re dei Franchi, contro Desiderio, provocò la caduta del regno
Longobardo e la sua sottomissione al costituendo Sacro Romano Impero; buona
parte della penisola istriana entrò a far parte di esso e confluì nella Marca del
Friuli, marca di confine che doveva costituire un punto di difesa dalle
incursioni provenienti da Oriente ([4]).
Fu durante il dominio franco
che si ebbe in Istria l'introduzione del sistema feudale, struttura che si
rafforzò nel X-XI secolo, quando l'Istria e il Friuli entrarono a far parte del
Margraviato di Verona prima e del Ducato di Carinzia dopo.
Il sistema feudale, per sua
stessa natura aprì la strada a profondi particolarismi e localismi e fu la
Chiesa la prima a beneficiarne; infatti il Patriarcato di Aquileia esercitava
un amplissimo potere nelle terre istriane, cosicché, fra il X e l'XI secolo,
circa due terzi di queste costituivano manomorta, e ciò a grave detrimento
dell'autorità locale.
Se nella parte
centro-settentrionale si ebbe una polverizzazione dell'autorità laica e
l'estendersi del latifondo ecclesiastico, la fascia costiera sembrò fare capo
inizialmente a Pola, l'unico centro capace di emergere grazie alla sua
posizione geografica. Ma nonostante questo, l'antica Pietas Julia rimase un centro locale, periferico, non forte
abbastanza da assumere una funzione guida o coesiva per l'Istria intera.
In sostanza si presentò
nella penisola una situazione di debolezza politica intrinseca, che facilitò
senza dubbio l'espansione politica ed economica di Venezia e nei secoli XIV e
XV quella degli Absburgo, soprattutto nell'Istria interna.
tornando ai mutamenti
politici dell' VIII-IX secolo, fu la classe dirigente germanica quella che
occupò i vertici delle strutture ecclesiastiche e laiche. Si trattò di
un'infiltrazione che non assunse mai i connotati di una vera e propria
immigrazione, poiché l'Istria non fu mai ritenuta un Eldorado dai feudatari
tedeschi, ma solo una terra di confine la cui importanza era soprattutto
militare.
Analogamente a quanto
avvenne nell'Italia settentrionale, la nobiltà tedesca non si inurbò, ma pose
le proprie sedi nei castelli o nelle piazzeforti dell'interno, dove si poteva
controllare il territorio circostante. Così relegato nelle zone montane, l'elemento
tedesco non si mescolò con gli elementi allogeni e mantenne quasi inalterati i
propri costumi e le tradizioni.
Il sistema feudale
condizionò radicalmente l'assetto etnico della penisola istriana, poiché la
nobiltà germanica vi favorì l'insediamento di popolazioni slave.
La facilità di questo
stanziamento era determinata dalla loro grande adattabilità nel dissodare e
coltivare terreni non molto produttivi in una regione scarsamente abitata, in
cui i latini, ormai prevalentemente inurbati, non avevano la forza demografica
sufficiente per popolare gli spazi vuoti.
La medesima politica fu
attuata anche nel vicino Friuli, che presentava condizioni analoghe a quelle
istriane come dimostrano i toponimi Gradisca,
Dolegna, Vencò, Sagrado, Papian Schiavonesco, Lestizza, Pocenia, Sclavons, Cerneglons, Grumila e Belgrado,
località situata fra Latisana e Codroipo, tutti di origine slava, ma qui nel
corso dei secoli si ebbe una ripresa dell'elemento autoctono friulano, il quale
fece arretrare le popolazioni slave nelle valli del Natisone, di Resia e sul
Carso.
Anche dal punto di vista
linguistico l'influsso tedesco fu del tutto marginale e, in alcuni dialetti
istrioti sono rimasti sporadici relitti, che risalgono a forme dell'antico alto
tedesco come parnato (pol.), “mucchi di covoni”, <parn/barn + la desinenza latina -attus
e bilfar (bui., pir., dign.), “gettare germogli”, o bilfa, “rimessiticcio” < werfen,
“gettare” (Crevatin 1989: 555 e
Rosamani 1990: 92).
1.3.2. Gli
Slavi.
L'arrivo degli Slavi fu un
avvenimento determinante nella storia linguistica, e non solo, dell'Istria e
della Dalmazia, poiché influenzò profondamente l'assetto etnico originario,
mettendo fine all'esclusivo predomino latino e si inserì in maniera organica in
quella situazione antinomica fra il mondo friulano delle origini e quello
istriano.
La presenza più antica degli
slavi in Italia può essere fatta risalire alla discesa longobarda nella
penisola, quando nel multietnico esercito di Alboino militavano genti di
origine slava.
L'invasione slava in Istria
si differenziò notevolmente da quella che i Longobardi avevano attuato in
Italia: essa non fu preceduta da uno stillicidio di scorrerie e saccheggi,
seguita poi da una migrazione di dimensioni imponenti, ma fu condotta in
sordina da piccoli nuclei sfilacciati, desiderosi di stabilire sedi permanenti,
che si stanziarono su vaste aree poco abitate.
La bontà della teoria sullo
stanziamento antico ed immediato degli slavi sembra essere suffragata dalla
facilità con cui toponimi di origine slava e di antica attestazione furono
accolti dalle popolazioni latine come Lonca,
vicino a Capodistria (< loka, “prato molle”) o toponimi di patrimonio
latino espressi in due forme (es. Veglia/Corcyra)
di cui gli Slavi assunsero la forma più arcaica e ormai in disuso in pieno
Medioevo (Corcyra > Krk, Veglia,
o Crepsa > Cres, Cherso).
Oltre a questo, assume
importanza il Placito del Risano,
risalente all' 804, in cui si parla della presenza slava forse non numerosa, ma
sensibile e stabilizzata; anche le ricerche archeologiche sembrano testimoniare
un graduale amalgama fra le due etnie.
Lo stanziamento slavo nelle
campagne fu una scelta obbligata, imposta dalla debolezza organizzativa e
militare, che non permise loro di impadronirsi delle città costiere (Parenzo,
Rovigno e Pola) e dei borghi fortificati dell'interno (Rozzo, Pinguente,
Pédena); del resto anche i tentativi di inserirsi nei territori occupati dai
Longobardi furono sempre respinti.
Per questo si attestarono a
ridosso del limes bizantino, dove
esercitarono attività rurali e la pastorizia ed assimilarono la scarsa
popolazione latina locale.
Della debolezza organizzativa
degli Slavi approfittarono gli Avari
(Obri) che sottomisero ad un giogo di
memorabile durezza gran parte delle popolazioni slave d'Europa fra il VI e
l'VIII secolo ([5]).
Fu sotto la direzione e la
spinta degli Avari che gli Slavi
iniziarono la loro marcia verso Occidente. Per quanto riguarda le nostre
regioni vi furono due direttrici: la prima, quella degli Sloveni, che da nord-est puntò verso il Friuli, lungo le valli del
Natisone, dell'Isonzo e Val Canale, sul Carso e verso l'Istria centro settentrionale.
La seconda, quella dei Croati([6]),
indirizzata verso l'Istria centro meridionale e lungo tutto il litorale
dalmata.
I due popoli si
differenziavano per caratteri particolari ed antitetici che contraddistinsero
il loro insediamento.
Gli Sloveni erano di temperamento pacifico ed avevano una scarsa
coesione politica, se si eccettua l'effimero regno di Samo, così da accettare
senza ribellioni di particolare rilievo l'autorità imperiale franca e poi
quella germanica ottoniana.
I Croati insieme ai Serbi
mostrarono la loro indole bellicosa quando, frammisti agli Avari, misero a ferro e fuoco le città latine di Dalmazia,
annientando le popolazioni e distruggendo ogni cosa.
Di fronte alle devastanti
invasioni barbariche la popolazione dalmata indigena cercò un primo scampo
sulle isole. In questo senso va ricondotta l'origine del toponimo Lussino, che deriva dagli abitanti della
città romana di Lopsica in terraferma
(Lopsini > Lossini > Lossin > Lussin).
Questa via di fuga venne
sfruttata nuovamente molti secoli dopo, durante le incursioni dei Turchi,
quando nelle isole furono portate in salvo genti del contado in fuga.
Tornando all'invasione
avaro-croata, essa fu un evento di incredibile durezza, assai più perniciosa
delle invasioni delle popolazioni germaniche che si susseguirono fra il V e il
VI secolo.
Infatti i Germani, pur
contrassegnando il loro passaggio con eccidi, devastazioni e saccheggi,
stabilite le proprie sedi, cercavano durante il loro stanziamento
un'integrazione e una collaborazione con l'elemento allogeno, preludio di un
futuro amalgama dei due popoli.
In Dalmazia questo non
avvenne se non a scadenza lunghissima.
Secondo la peggiore
tradizione delle invasioni di stirpe asiatica, come quella degli Avari, che componeva gran parte della
nobiltà guerriera croata, la migrazione verso Occidente non presupponeva la
necessità di nuove sedi in cui stabilirsi, o meglio, non solo. Essa era dettata
dalla volontà di far bottino e di farne quanto più possibile, distruggendo
tutto ciò che non potesse essere trasportato o sembrasse inutile.
La situazione incerta,
venutasi a creare nel VII secolo all'arrivo delle prime orde croate, si
mantenne per lungo tempo; quando i Croati appresero le tecniche marinaresche si
dedicarono alla pirateria, stabilendo le proprie basi sulle isole dalmate e alla
foce dei fiumi principali. La loro attività, congiunta con quella dei Saraceni,
che per qualche tempo ebbero come base Bari, fu esiziale per il traffico
marittimo nell'Adriatico che collegava l'Italia con l'Oriente.
Fu solo intorno al Mille che
Venezia, ormai assurta a potenza marinara, stroncò la tabe della pirateria,
gettando le basi per il proprio dominio sul mare.
L'arrivo degli Slavi sulle
coste adriatiche accentuò ancor più la divisione nel mondo linguistico latino,
che presumibilmente da allora seguì vie di sviluppo parallele.
La continuità linguistica
tra il Friuli e l'Istria venne ulteriormente messa in crisi dall'intervento dei
feudatari tedeschi, che introdussero in maniera sempre più cospicua genti slave
dall'interno, le quali costituirono una massa imponente di coloni, utilizzati
per dissodare il territorio e renderlo produttivo.
Anche a sud, nella Dalmazia,
le genti slave aumentarono considerevolmente e finirono per assimilare sia pur
in modo graduale e lento le popolazioni di origine latina, i Morlacchi([7]).
Unici ed ultimi baluardi
della tradizione latina erano rimaste le città di Iader e Salona, gelose
custodi della propria tradizione e della propria autonomia a dispetto di una
presenza slava sempre più incombente.
Anche in Dalmazia la
latinità era spezzettata, in modo ancor più frammentario di quanto fosse in
Istria, e questo costituiva una posizione di grande debolezza, tanto più che,
nonostante gli Slavi avessero accettato di stabilirsi sul litorale come foederati dell'Impero, a cui la regione
apparteneva ancora sia pure solo nominalmente, in realtà cercavano di
ritagliarsi un proprio regno, approfittando della situazione fluida ed incerta
di quel tempo; e le ricche città latine della costa erano un'attrattiva assai
forte.
Senza dubbio la latinità
sarebbe entrata in una fase di rapido declino se proprio in quel tempo non
fosse apparsa alla ribalta storica Venezia, la quale assunse il ruolo di fulcro
politico del mare Adriatico e al tempo stesso anche economico e culturale, in
grado di condizionare per secoli la storia delle sue sponde orientali.
1.4.1. L'espansione
di Venezia.
L'ascesa politica di Venezia
nell'Adriatico coincise col progressivo arretramento delle posizioni di
Bisanzio, che, pur mantenendo il primato di potenza navale del tempo, allentò
la sua presenza in quel mare già a partire dal IX secolo.
La città lagunare già in
epoca longobarda era stata un importante nodo commerciale per il traffico delle
merci pregiate provenienti dall'Asia o per quelle locali, come il sale o il
pesce. Infatti, posta vicino alle foci di grandi fiumi come il Po, l'Adige, il
Piave e il Brenta, li utilizzò come una rete viaria che la metteva in contatto
con la Pianura Padana e, tramite gli affluenti del Po e i passi alpini, con
l'Europa centrale e occidentale.
Le rotte incustodite per
l'Oriente costituirono un forte richiamo per la nascente Repubblica, impegnata
ad allargare i propri traffici; ma per potersi ritagliare uno spazio vitale fu
necessario pacificare l'Adriatico ed eliminare la minaccia dei pirati slavi e
saraceni.
Fu per debellare questo
pericolo, che molte città istriane e dalmate fecero fronte comune con Venezia,
unica città capace di schierare una flotta assai munita.
Solo quando Venezia riuscì
ad ottenere trattati vantaggiosi sia con l'Impero Ottoniano che con quello di
Costantinopoli, ritenne opportuno impegnarsi a fondo contro la pirateria e
allestì la spedizione di Pietro Orseolo II, il quale nel 1000 percorse tutte le
coste orientali dell'Adriatico, debellando i riottosi e ottenendo grandi onori
e riconoscimenti dalle comunità latine e slave.
L'annientamento dei pirati
fu completo quando nel 1004 le flotte congiunte di Venezia e Bisanzio
debellarono la base saracena di Bari.
Se questi avvenimenti furono
un grosso successo politico e, di fatto, posero le basi per il dominio di
Venezia sul mare, era necessario che questo potere si consolidasse e fu così
che la Serenissima costituì sulle sponde dalmate ed istriane una fitta rete di
basi militari, empori, centri commerciali, punti di riferimento vitali ed
indispensabili per le sue attività economiche ed i suoi traffici marittimi.
La municipalità istriana,
anche se nominalmente era sottoposta all'Impero di Bisanzio e faceva capo
all'autorità ecclesiastica del Patriarcato di Aquileia, non poté dar vita ad
una coalizione, fondata sulle città più importanti come Pola o Capodistria,
capaci di resistere alla spinta espansionistica della Dominante. I tentativi
fatti in questo senso ebbero esito negativo, anche perché negli stessi comuni
esisteva un forte partito filoveneziano, che propugnava una dedizione delle
città istriane alle bandiere di San Marco.
Quando il dominio di Venezia
poté affermarsi, soprattutto nella parte costiera della penisola, le cittadine
assoggettate inizialmente poterono mantenere le proprie istituzioni ed i propri
rappresentanti, ma in un secondo tempo per stornare eventuali ribellioni locali
e per ostacolare i tentativi di influenza politica esterna del Regno di Croazia
o di quello d'Ungheria in Dalmazia, del Patriarcato di Aquileia e dei Conti di
Gorizia ed Istria, il Senato Veneziano impose che i podestà e i conti veneziani
si sovrapponessero alla nobiltà autoctona.
1.4.2. La
Dalmazia latina.
Il 1000 fu un anno cruciale
nella storia della Dalmazia: con la dedizione delle città istriane e dalmate
l'egemonia politica di Venezia poté stabilizzarsi. Nonostante questi successi
importanti questo predominio conobbe anche periodi di crisi nel Medioevo.
Infatti la Dominante dovette far fronte non solo alla volontà autonomistica
delle città soggette ma anche alle mire di espansione dei regni vicini; il suo
apporto culturale e l'influsso politico furono sempre indiscussi e profondi.
Il problema primario è
definire quali fossero i caratteri della Dalmazia in quel tempo: se fosse
ancora latina oppure ampiamente slavizzata. A questo riguardo Z. Muliacic
(1965:169) ritiene che nel XI secolo i due gruppi etnici si fossero ormai fusi
insieme, mentre per Mirko Deanovic (F. Ursini 1987:30) questo progetto sarebbe
iniziato assai presto, a partire dal VII secolo al tempo della grande
migrazione slava.
Esistono tuttavia degli
elementi che sono in contrasto con queste tesi: ammesso che gli Slavi si
fossero stanziati già al loro arrivo sulle coste e si fossero altresì stabiliti
nel contado circostante le città, convivendo pacificamente con le popolazioni
latine e rurali, abbiamo tuttavia motivo di ritenere che fosse diversa la
situazione nelle città latine dove furono mantenute le istituzioni municipali
greco-latine, un'etnia omogenea e, conseguentemente, una lingua romanza che
muoveva allora i suoi primi passi.
A questo proposito sono
molto interessanti le testimonianze dell'imperatore Costantino Porfirogenito,
che nel suo De administrando imperio,
descrive la Dalmazia del IX secolo, dicendo che i Romani e, si badi, Romani
non Romei, appellativo con cui si
designava i Greci dell'Impero si erano mantenuti ad Ossero, Arbe, Veglia, Zara,
Traù, Spalato e Ragusa; oppure quella del diacono Giovanni il quale assistette
personalmente agli atti di sottomissione dei latini di Dalmazia durante la
spedizione di Pietro Orseolo II e lo raccontò nella sua Chronica Veneta.
Parimenti significativo è un
documento giuridico del 1072 dove i contraenti zaratini sono detti latini e
quelli di Nona slavi.
La tesi che vuole le città
dalmate abitate da una popolazione prevalentemente latina è confermata dai
documenti municipali di una città, per così dire, campione, Zara. Esistono
ventisette documenti (V. Brunelli 1974: 303-305) che abbracciano un lasso di tempo
assai ampio, dal 918 al 1096, e contengono una serie di nomi di cittadini quasi
tutti di origine latina.
Lo scarso numero di nomi
slavi ci induce a pensare che l'elemento slavo fosse in netta minoranza e,
stanti queste condizioni, si può ipotizzare che in città non esistesse un vero
e proprio bilinguismo, ma che le genti slave inurbate si assimilassero alla
popolazione latina parlante il dalmatico.
Inoltre, dagli atti notarili
dell'epoca (V. Brunelli 1974:306) si può ricevere un'indicazione di come fosse
vitale il dalmatico, in quanto dal cattivo latino scritto dai redattori,
traspaiono elementi riconducibili al linguaggio comune come: capitale 'capezzale', culcitrino 'cuscino', bergato 'tipo di tessuto
vergato', candeola 'candela',
mentre sono scarsi gli apporti dello slavo.
Anche nelle campagne dalmate
esistevano, come già enunciato, gruppi sporadici di origine latina, dispersi
nel territorio circostante e verso l'interno, che sopravvivevano con la
pastorizia.
Queste genti, chiamate Morlacchi, Morovlahi o Vlahi per le
loro caratteristiche fisiche, parlavano una varietà rumena e, per alcuni
secoli, nonostante vivessero a stretto contatto con le popolazioni slave,
mantennero la loro lingua: fino al XV secolo risultano attestati antroponimi
come Petulel, Mezul, Dragul, Negul, Sargul, appartenenti al mondo linguistico romanzo-orientale,
interessante indizio della sopravvivenza, almeno fino a quel tempo, dei
dialetti morlacchi.
Gradualmente ma
inesorabilmente e si completò fra i secoli XV e XVII, quando vi furono
imponenti migrazioni di genti balcaniche verso la costa([8]).
Ultimi epigoni delle parlate
rumene nelle regioni da noi considerate sono i Cici o Istrorumeni,
abitanti in
alcune località dell'Istria
interna, a Seiane (Jeiani rom) e in alcuni villaggi intorno a Monte Maggiore nella provincia
di Fiume.
La presenza dei Rumeni in Istria fu dovuta sia ai
provvedimenti attuati dal governo della Serenissima per ripopolare le terre
incolte, devastate dalle guerre e dalle pestilenze, sia alla naturale
propensione dei Morlacchi al
nomadismo per la ricerca di nuovi pascoli, e alla loro fuga dai Turchi, quando
le milizie ottomane avevano occupato gran parte dei Balcani.
Tornando ai caratteri etnici
e linguistici delle città dalmate, si segnala che un altro studioso, M.
Metzeltin (1991: 320), ritiene che lo slavo avesse uso corrente in città già
nel XII secolo, tenendo come riferimento la venuta in Zara di Papa Alessandro
III nell'anno 1177, quando fu festeggiato "immensis laudibus et canticis in eorum sclavica lingua" (M.
Metzeltin 1991: 320, ripreso da Teja 1949: 243).
Pur accettando la bontà
della testimonianza del cronista medievale resta da chiedersi chi abbia
innalzato laudi e cantici in onore del Pontefice, se i religiosi o il popolo.
La visita del Papa a Zara
non era stata stabilita, ma dovuta all'inclemenza del tempo e, in particolare,
al vento molto forte di borea, che aveva costretto parte della flotta
pontificia, in rotta verso Venezia, ad una sosta forzata nella città e parte ad
un repentino ritorno al porto di Vasto.
L'arrivo del Pontefice fu un
evento straordinario che finì per attirare moltitudini di fedeli dalle città
vicine e dal contado (N. Luxardo De Franchi 1994:17 e segg).
Si pensa che i contadini
slavi abbiano voluto salutare il Papa nella loro lingua ed invocare la sua
paterna benedizione.
I canti festosi in slavo,
risuonando esotici e strani, avranno colpito l'attenzione dei prelati al
seguito del Papa molto più delle laudi in latino del clero zaratino.
E' molto improbabile,
d'altro canto, che i sacerdoti della città abbiano voluto festeggiare il
Pontefice "immensis laudibus"
in glagolitico, ossia in paleo-slavo, perché ancora vigenti le severe
disposizioni che la Chiesa Romana aveva impartito nei sinodi spalatini del 925
"ut nullus episcopus audeat in
quolibet gradu sclavinica lingua promovere" (M. Kostrencic 1957 I: 32)
e del 1060 "nullus de cetero in
lingua sclauonica presumeret divina misteria celebrare, nisi tantum in latina
et graeca, nec aliquis eiusdem lingue promoueretur ad sacros" (T.
Smiciklas 1904).
Pertanto è lecito pensare
che il clero zaratino abbia accolto il suo pastore con canti ed inni in latino,
altrimenti questo sarebbe stato un atto di grave contestazione e non un momento
di festa.
L'Impero veneziano
nell'Adriatico, poté affermarsi completamente solo nel XV secolo, quando il
Regno d'Ungheria entrò in grave crisi.
L'autorità della città di
San Marco si impose solo sul litorale proprio per il carattere
marittimo-commerciale della sua politica, che la portava a disdegnare conquiste
nell'entroterra, perché inutili e dispendiose.
Trieste e Ragusa subirono
temporaneamente il dominio veneziano: la prima preferì accettare l'autorità
imperiale, facendo atto di dedizione nel 1382, la seconda, custode di gloriose
memorie storiche, poté mantenere la propria indipendenza fino agli inizi del
XIX secolo, pur occupando nell'Adriatico una posizione di secondo piano
rispetto a quella di Venezia.
Il mare Adriatico si
trasformò allora per ben tre secoli nel 'Colfo
di Venezia' dove tutti i commerci e i traffici mercantili, provenienti
dall'Oriente, dovevano far capo alla Dominante, importantissimo centro di
smistamento per tutta l'Europa. Questa posizione di primaria importanza venne
meno quando la scoperta delle rotte atlantiche relegò il mar Mediterraneo nella
condizione di grande lago periferico.
Per procedere nella storia
linguistica dell'area istro-quarnerina e dalmata in modo da avere un quadro
diacronico completo è
necessario fare un passo indietro, quando in questa regione si costituirono due
mondi linguistici diversi in opposizione e a confronto: quello romanzo e quello
slavo, determinandosi originariamente una situazione di questo tipo:
ISTRIA DALMAZIA
a) Istrioto X Slavo Dalmatico X Slavo
La differenza di lingua era
anche antinomia di ambienti diversi. L'Istria costiera era quasi totalmente
romanza, mentre nell'interno, superata una zona mista di transizione, si
presentava il mondo slavo; più complessa era la situazione in Dalmazia dove la
Romània si era mantenuta a macchia di leopardo, attestandosi soprattutto nelle
città e in alcune isole prospicienti il litorale.
La zona di transizione era
molto più rarefatta ed incoerente di quanto non fosse in Istria, poiché le
comunità neolatine erano esigue e disperse ed invece di costruire le ultime
propaggini della latinità dalmata, finirono con l'inurbarsi o con l'essere
sommerse dalle popolazioni slave dalle quali furono rapidamente assimilate.
Più lento ma altrettanto
inesorabile fu il processo di assimilazione dei Morlacchi, di cui si è parlato
nel paragrafo precedente.
Pertanto in Dalmazia non
esisteva una zona neutra, ma si passava direttamente dal mondo romanzo a quello
slavo: mondi separati, potenzialmente in conflitto e reciprocamente autosufficienti,
con vocazione marinara e mercantile il primo, rivolto alla pirateria o ad una
economia agricola e pastorale.
Molto più difficile è
delineare le condizioni del dalmatico, essendo rare e frammentarie le
testimonianze più antiche.
Carlo Tagliavini
(1982:535-536) indica due varianti di questa lingua: una settentrionale, il
vegliotto, e una meridionale, il raguseo.
Stabilito ciò, occorre
osservare che in primo luogo nel mondo neolatino dalmata non durò per lungo
tempo l'opposizione città/campagna, così da permettere l'esistenza di un
dualismo parlata cittadina (o elevata) e parlata rurale (variante bassa); in
seconda istanza la Dalmazia, inizialmente legata a Costantinopoli, fu un mondo
di città autonome, ma la loro autonomia fu un fattore di debolezza che
condizionò in modo determinante i successivi sviluppi storici.
Ogni città viveva del mare e
dei traffici marittimi, era autosufficiente e ad un tempo isolata. Questa
situazione così frammentaria fece sì che nessuna di esse riuscisse ad imporsi
nella posizione di centro-guida, facendo in questo modo prevalere la propria
variante sulle altre.
A questo punto potremmo
ipotizzare diverse parlate cittadine, tutte paritetiche ed omologhe destinate
ad un rapido declino con l'affermazione della lingua della Dominante.
L'arrivo del modello
linguistico veneziano complicò oltremodo una situazione già eterogenea in
partenza, modificandola in un primo tempo così:
b) |
ISTRIA |
Veneziano : |
registro superiore e di
prestigio, lingua della classe dominante; |
Istrioto : |
registro inferiore usato
in un ambito territoriale ristretto (Istria centro- merid.) e proprio dei
ceti più bassi: pescatori, contadini; |
Sl./Cr. : |
registro proprio delle
genti di origine slava, che in virtù dei crescenti rapporti con Venezia
assunsero gradualmente anche la
lingua veneta. |
|
|
b) |
DALMAZIA |
Veneziano : |
registro superiore di
prestigio; |
Dalmatico : |
registro diffuso
soprattutto nelle città, in regresso durante la diffusione del Veneziano in
quanto ritenuto parlata locale ed inferiore a quello; |
Croato : |
lingua delle popolazioni
di origine slava o slavizzate. Quando alla fine del Medioevo si inurbarono,
diventarono bilingui assumendo anche
il Veneziano. |
L'esito produsse un
equilibrio non stabile, passibile di ulteriori e repentini cambiamenti. Il
veneziano che aveva avuto una lunga e continua diffusione nell'area
istro-dalmata per via dei già accennati commerci e traffici mercantili, venne
assunto dai maggiorenti istriani e dalmati prima come lingua internazionale e
commerciale per gli scambi con Venezia, e poi, essendo riconosciuto come un
registro superiore, finì per sostituire l'idioma autoctono e attraverso un
processo di induzione il cambio si estese ai ceti meno abbienti.
Questo fenomeno fu spiegato
da C. E. Bidwell ( 1967: 13-30 ) come caso di colonizzazione linguistica:
"These dialects may be called since in no case do they represent
development of an autochthonous Romance speech, but are overlaid upon
linguistic substrata which were either Slavic or non-Venetian varieties of Romance (...). The steady venetianization of
Romanic and Slavic popolations in urban settlements of the East Adriatic coast
is undoubtedly due first to the political hegemony of Venice throught a great
part of the late Middle Ages and early modern times, and secondly to the
tremendous [sic!] commercial and
cultural ascendancy of the city of St. Mark which extended to areas not under
its direct political control and persisted after the Venetian republic ceased
to exist (...)"
Pur accettando la bontà
della teoria di Bidwell, preferiamo sostituire la sua espressione "Colonial Venetian" con quella di veneto “de là da mar”, espressione utilizzata con successo da Gianfranco
Folena che meglio delinea la capacità di irradiamento linguistico di Venezia e
la rende scevra da tutte le valenze negative che il termine “coloniale” di per se stesso impone.
Partendo da questo punto, è
indispensabile evidenziare alcuni aspetti che ad una prima analisi possono
apparire insignificanti o secondari, ma che a nostro parere possono fornire
nuove possibilità di discussione.
Se ammettiamo che il
veneziano fu una lingua importante, è chiaro e pacifico che la sua storia seguì
itinerari diversi: in Istria e in Dalmazia venne ad affiancarsi e poi a
sovrapporsi a parlate neolatine e la sua forza espansiva e la sua prosperità
furono tali che le lingue autoctone finirono, come si è visto, per scomparire o
per occupare uno spazio molto marginale.
Nelle isole Ionie, nel
Dodecaneso, nel Mar di Levante, a Costantinopoli, il veneziano conobbe uno
sviluppo diverso: ebbe una grande diffusione al pari del francese e del
genovese durante il tempo dei grandi commerci con l'Oriente, prima che si
scoprisse l'America e che l'Impero Ottomano potesse affermarsi come potenza
primaria nel Mediterraneo; in conseguenza a questi mutamenti storici decadde e
finì con lo scomparire.
La debolezza della “colonizzazione” linguistica veneziana
nei domini levantini era figlia legittima della thalassocrazia che la Dominante impose nelle terre d'oltremare,
laddove l'egemonia era fondata più sulla propria solida economia e sull'abilità
che per la forza delle armi.
Gli stanziamenti dei
Veneziani erano rivolti a creare delle basi e dei fondachi piuttosto che a
costituire feudi o formare latifondi, ad eccezione dell'isola di Creta, unico
possedimento “de là da mar” in cui
alcuni nobili veneziani iniziarono uno sviluppo intensivo dell'agricoltura.
Nelle colonie venete la
fortuna e il decadimento del veneziano, privo di un vero e proprio retroterra
linguistico e culturale, erano strettamente legati alle sorti politiche della
Dominante. Così non avvenne in Istria e in Dalmazia dove il veneziano “de là da mar” sopravvisse alla stessa
indipendenza politica della Repubblica di San Marco.
Questa resistenza, a nostro
parere, non può essere spiegata solo e semplicemente perché Venezia mantenne il
controllo delle sponde dell'Adriatico orientale più a lungo ed i contatti
furono più durevoli e più frequenti.
Fu la natura stessa dei
rapporti fra la Dominante e i suoi territori nell'Adriatico a fornirci nuove
chiavi di lettura sulla prosperità della parlata veneziana d'oltremare: infatti
occorre ricordare che fu molto profondo l'influsso culturale di Venezia e,
tramite essa, dell'Italia: molti maestri italiani vennero ad insegnare nelle
scuole dalmate e non furono pochi gli studenti dalmati che si addottorarono, a
partire dal XV secolo, nell'Università di Padova.
Il mondo istriano e dalmata
avvertiva molto forte il richiamo della cultura italiana e per questo si
lasciava assimilare di buon grado, riconoscendone la superiorità.
Oltre a questo si tenga
conto del legame politico che strinse Venezia con l'Istria e la Dalmazia,
poiché la libertà della città di San Marco era strettamente connessa al
controllo del Colfo e la stessa
autonomia di cui usufruivano le città dalmate ed istriane poteva trovare spazio
solo se l'Adriatico fosse rimasto marciano e non fosse caduto in mano ai
Turchi. In questo senso si spiegano le numerosissime prove di fedeltà e
coraggio di sudditi “de là da mar”,
per cui entrare a far parte integrante della società veneziana ed esibire
riconoscimenti militari (come quelli esposti nell'Allegato 1) era motivo di
grande prestigio ed orgoglio.
Anche se i commerci e i
traffici marittimi furono monopolizzati da Venezia, questo non impedì che nel
bacino Adriatico si formasse un corpus
ben compatto, riconoscibile ed inquadrabile in una precisa identità culturale
che si mantenne pressoché inalterata fino agli esiti del trattato di
Campoformido, esiziali per le sorti della Serenissima.
In quest'ambito il veneziano
“de là da mar” assunse ed assume un
valore più ampio di semplice lingua coloniale, concessa, beninteso, la funzione
che questa lingua assunse, come vedremo, di koinè,
di lingua veicolare fra popoli parlanti idiomi diversi nelle terre di San
Marco.
L'affermazione del veneziano
poté avvenire per vari canali: se il primario e più antico fu inerente ai
commerci e ai traffici marittimi della città di Venezia, occorre ricordare che
dal secolo XV, quando l'egemonia economica si tradusse in una vera e propria
sovranità, il veneziano poté imporsi anche come lingua dell'amministrazione,
della burocrazia, delle istituzioni civiche e dell'apparato militare.
Grande fu l'opera di
diffusione delle organizzazioni ecclesiastiche, poiché i vertici e gran parte
del clero dalmata ed istriano era veneziano, o comunque si riteneva parte della
cultura veneta, e nelle attività pastorali e nelle omelie usava la lingua della
Serenissima aumentandone la capacità espansiva.
Le attività ricreative e di
carità, patrocinate dalle confraternite e soprattutto le scuole, gestite
anch'esse
dalla Chiesa, furono un
potente veicolo di irradiazione del veneziano, che si diffuse, specificatamente
per l'Istria, anche all'interno recuperando nell'ambito romanzo cittadine
ampiamente slavizzate come Albona e Pisino.
La diffusione del veneziano “de là da mar” determinò inversamente un
costante regresso delle parlate locali neolatine e slave.
Il dalmatico oppose una
resistenza molto debole: a Zara, Arbe, Traù, Spalato decadde assai presto e
alla fine del Medioevo, queste città potevano dirsi quasi completamente
venezianizzate.
A Ragusa si ebbe una
situazione diversa in virtù dell'autonomia di cui la città godette: ivi il
dalmatico fu usato nei consessi del Senato civico almeno fino al XV-XVI secolo
per essere poi sostituito da un italiano di stampo toscano.
Incalzato così dal
veneziano, il dalmatico seguì un costante ed inarrestabile arretramento che lo
portò ad essere confinato in aree marginali, e, proprio in una di queste,
l'Isola di Veglia, M. Bartoli scovò, è
il caso di dirlo, l'ultimo parlante, certo Tuone Udaina, Antonio Udina, che si
spense nel 1896.
1.4.3. I fenomeni demografici dei
secoli XIV-XVII.
Non fu solo la grande
potenza espansiva del Veneto a provocare la decadenza delle parlate istriote e
dalmate.
Infatti nell'ampio arco di
tempo che va dal XIV al XVII secolo intervennero una serie di cause
concomitanti che stravolsero radicalmente l'assetto etnico delle due regioni.
Tra queste, la più importante va ricercata nelle depressioni demografiche,
causate dalle guerre, dalle carestie ricorrenti e dalle serie cicliche di
pestilenze che portavano all'abbandono di interi villaggi e al decadimento
della campagna.
I campi un tempo coltivati
si ricoprirono di rovi o si trasformarono in paludi, favorendo lo sviluppo
della malaria, che in alcune zone come l'Agro Polese divenne un male endemico.
Un viaggiatore veneziano del XVII secolo fu profondamente impressionato dallo
stato di abbandono e dall'atmosfera di morte che aleggiava sulla Polesana da
definirla “paese horrido et inculto”
(M.Bertosa 1976-1977 VII: 144).
In Dalmazia oltre la peste
fu particolarmente funesto il flagello della guerra fra la Serenissima e
l'Impero Ottomano: la ripresa dell'espansione turca nei Balcani e nel
Mediterraneo fece affluire popolazioni cipriote, greche, albanesi, morlacche
ormai croatizzate, serbo-montenegrine, bosniache e croate parte sulle sponde
dalmate([9]),
dove si rafforzò l'etnia slava, parte nell'Istria Veneta e nei domini imperiali
degli Absburgo.
Il costante pericolo turco
causò la simbiosi di tante etnie diverse, ma allo stesso tempo unite sotto gli
stendardi della città marciana, contro il comune nemico.
Affinché possa aversi un
quadro alquanto esauriente di queste massicce migrazioni, si riporta nell'
allegato 2 lo schema riassuntivo che M. Jakov pose a conclusione del suo Le guerre veneto-turche del XVII secolo in
Dalmazia.
Il Senato veneziano e il Magistrato Sopra i Beni Inculti, carica
istituita nel 1562, cercarono di convogliare una parte di queste popolazioni
allo sbando nelle campagne circostanti Parenzo e Pola con il duplice scopo di
ripopolare la regione e di rinvigorire l'agricoltura in aree depresse e, al
tempo stesso, impedire che i profughi costituissero fonte di turbativa e di
sedizione nei territori della Dominante([10]).
I tentativi di
colonizzazione dell'Istria Veneta non furono pacifici, ma al contrario aprirono
una serie di conflitti fra gli habitanti
novi e le genti locali che mal s'adattavano a convivere con questi popoli
dalla lingua, tradizione e, talvolta, religione diversa (M. Bertosa 1976-77
VII:147).
I nuovi insediamenti erano
inoltre resi aleatori dal fatto che le autorità veneziane assegnarono ai nuovi
venuti terre improduttive o non coltivate da anni e questo, in ragione dei loro
scarsi mezzi, anziché favorire l'agricoltura finiva per danneggiarla, poiché
parte delle popolazioni balcaniche trapiantate, poco atte alle fatiche della
vita contadina, preferirono dedicarsi alla pastorizia e al nomadismo.
Questa situazione di
profondo disagio in cui si trovarono a vivere gli habitanti novi, unita alla loro indole anarcoide e refrattaria ad
ogni autorità costituita che non fosse la famiglia o il clan, provocò gravi e
sanguinosi episodi di banditismo e di violenza di cui fecero le spese i locali.
L'ostilità degli istriani e
soprattutto dei polesi, poiché nel contado di Pola vi furono insediamenti molto
consistenti, era suscitata proprio dalla distribuzione delle campagne
circostanti abbandonate, come detto, a partire dal XIV secolo (M. Bertosa
1979-80 X:192). Queste, pur essendo comunali, erano di fatto detenute dalla
nobiltà cittadina che le affittava a gruppi di pastori i quali stagionalmente
vi portavano il loro bestiame.
Venendo meno questa forma di
guadagno, è chiaro che aumentò la conflittualità con i nuovi venuti, osteggiati
come intrusi che usurpavano o limitavano diritti ormai acquisiti.
Di questa situazione fecero
le spese anche i coloni italiani durante il loro tentativo di ripopolamento
della campagna polesana.
Nella seconda metà del XVI
secolo la Serenissima, nel tentativo di non privilegiare unicamente nuovi
insediamenti slavi, ma di incentivare anche quelli italiani, dispose che si
stabilisse nel contado di Pola una colonia di agricoltori bolognesi e che fossero
dotati di particolari esenzioni fiscali.
Il tentativo ebbe però vita
breve perché le tensioni accumulate fra i due gruppi sfociarono in atti di
intimidazione: i polesi rifiutarono di vendere derrate, se non a prezzi
esorbitanti, ai nuovi venuti; da lì a poco gli autoctoni iniziarono a compiere
veri e propri atti criminosi contro i coloni bolognesi che, compresero, in un
tragico crescendo, la distruzione dei raccolti, l'uccisione del bestiame, gli
incendi delle cascine e gli omicidi.
Questo non fu l'unico
tentativo di insediamento di italiani in Istria, ve ne furono altri,
soprattutto friulani e veneti nella parte centro-settentrionale della penisola,
ma si trattò di esperimenti sporadici che ebbero alterna fortuna.
La fortuna e i fallimenti
delle colonie ci portano inevitabilmente a tracciare alcune considerazioni su
come l'etnia slava uscisse rafforzata soprattutto nelle campagne.
In primo luogo
l'immigrazione slava fu numericamente più consistente di tutte le altre,
compresa quella italiana; ma a prescindere da questo, facendo un particolare
raffronto fra i due gruppi etnici, si può affermare che essi non partissero da
posizioni paritarie.
I gruppi di coloni italiani
non erano equilibrati: gli uomini erano in numero superiore alle donne e ciò
significa che accanto ai nuclei familiari c'era un gran numero di braccianti
celibi che con molta difficoltà avrebbero potuto accasarsi con le donne del
luogo.
Più stabili ed organizzati
apparivano i gruppi slavi, inquadrati in famiglie numerose dove molto forte era
l'autorità del pater familias.
Oltre a questo, le stesse
condizioni delle campagne assegnate, come si è visto, non consentivano un
rapido sfruttamento, anzi presupponevano un lungo periodo di preparazione,
affinché potessero esservi dei raccolti sufficienti all'economia dei coloni. In
quel lasso di tempo essi dovevano attingere ai propri risparmi per far fronte a
qualunque imprevisto sfavorevole come una grandinata o la moria del bestiame,
che potevano compromettere l'esito dell'insediamento.
Molto diversa era la
situazione dei coloni slavi per i quali l'agricoltura non rivestiva il ruolo di
un'attività primaria, ma solo complementare. Infatti i nuclei slavi,
provenienti dai Balcani, portarono con loro la pastorizia che praticavano da
innumerevoli generazioni.
Infine non bisogna
dimenticare anche il diverso approccio psicologico alla nuova realtà: gli
italiani dimostrarono nel complesso una scarsa adattabilità in una situazione
difficile in partenza e via via sempre più complicata; al contrario gli slavi,
temprati nel disagio di affrontare realtà molto sfavorevoli, finirono per
restare e consolidare i loro insediamenti.
Questo stato di cose finì
per delineare un nuovo quadro etnico in Istria dove si stabilì una netta e
profonda divisione fra la città sempre più veneziana, e da lì a qualche secolo
italiana, e la campagna sempre più slava.
1.4.4. Il Veneziano lingua di
koinè.
Alla luce degli avvenimenti
citati si presenta nell'area istro-quarnerina e dalmata una realtà eterogenea e
complessa, frutto di incroci e sovrapposizioni di etnie e di lingue.
Fu allora che il veneziano
assunse la funzione di koinè, in
grado di mettere in comunicazione elementi provenienti da mondi lontani e
diversissimi.
Schematizzando questa
situazione:
c) |
ISTRIA |
Veneziano : |
lingua di koinè, estesa ad un numero di parlanti
assai vasto, che metteva in comunicazione soggetti appartenenti ad etnie
diverse; |
Istrioto : |
parlata locale usata dai
ceti più bassi e mantenutasi solo in alcune
cittadine dell'Istria meridionale; |
Sl./Cr. : |
lingue delle genti di
origine slava, che per il secolare influsso di Venezia erano in massima parte
bilingui, o di recente insediamento e che per intendersi con comunità di
etnie diverse usavano il veneziano come lingua veicolare; |
c) |
DALMAZIA |
Veneziano : |
lingua di koinè; |
Dalmatico : |
lingua in graduale
dissolvenza, emarginata in aree periferiche; |
Croato : |
lingua delle genti di
origine slava o slavizzate in gran parte bilingui, se risiedevano nelle città
dalmate |
Possiamo ipotizzare che
accanto alla variante del veneziano, lingua della burocrazia in seguito
soppiantata dall'italiano, si presentasse un registro semplificato, parlato
dagli strati più bassi neolatini e slavi, forse da quest'ultimi in una forma
ancor più elementare, e fu questo ad avere il valore di lingua comune. A questo
riguardo è molto interessante una
relazione sulla lingua e i costumi in Dalmazia, presentata nel 1533 dal
magistrato Giambattista Giustiniani al Senato della Serenissima; essa ci
fornisce un quadro etnico e linguistico assai accurato:
"(a Lesina) i costumi (...) sono assai simili agli Italiani, et di gran lunga più,
che non sono quelli dell'altre città di Dalmazia, perché oltre che molti degli
uomini et delle donne massimamente le nobili vestono abiti italiani, gli
uomini universalmente parlano lingua franca speditamente, dimostrano in sì
bona civiltà, il che credo avenghi dalla continua pratica di forestieri, li
quali fanno scala con i loro navilii
con li quali navigano in levante et in ponente; il perché quasi tutto il tempo
dell'anno vi fà scalo in questo luogo l'armata veneziana, non v'è meraviglia,
se praticandovi capitani, generali, proveditori, capitani di colfo, sopracomiti
et tanta nobiltà Veneziana, soldati di diverse nazioni, che sono sopra le galìe
et altri, questa città sia fatta civile; (a Zara) sono di questi nobili molti poverissimi, i costumi dei quali sono quasi
italiani, perché la maggior parte de nobili vive, favella et veste
all'usanza di Italia, il che
forse avviene per la frequenza di forestieri, nobili veneziani, generali (...)
et altri che vi praticano continuamente. Li popolari veramente se ben hanno
quasi tutti la lingua franca vivono all'usanza schiava tutti e questi (...) vivono di qualche poca intrada ma per lo
più di trafichi et arti.
(A Sebenico) i costumi degli abiti, il parlare et le
pratiche sono tutti all'usanza schiava e vien, che quasi tutti hanno anco la
lingua franca et qualche gentiluomo veste all'italiana, ma sono rari. Le
donne tutte vestono alla schiava e quasi niuna sà parlare franco.
(A Traù) gli abitanti vivono con costumi schiavi. E'
vero che alcuni di questi usa abiti Italiani ma rari, hanno ben tutti la
lingua franca, ma nelle loro case loro parlano lingua schiava, per
rispetto delle donne, perché poche d'esse intendono lingua italiana
et si ben qualcuna l'intende non vuol parlare se non la lingua materna.
(I costumi spalatini) sono tutti all'usanza schiava (...). E' ben
vero, che i cittadini tutti parlano lingua franca, et alcuni vestono
all'italiana, ma le donne non favellano se non nella loro lingua materna,
benché alcune delle nobili vestono secondo l'usanza italiana" (M.
Bartoli 1906 I:204-207).
La relazione di G.B.
Giustiniani pone un paio di elementi su cui è doveroso soffermarsi; in primo luogo nel brano citato
si parla più volte di lingua franca e di italiano senza riuscire a definire se
si riferisca ad un registro veneto, più o meno complesso a seconda del livello
di cultura del parlante, quindi alla lingua di koinè di cui all'inizio del paragrafo, o ad un italiano a base
toscana, ben diffuso già allora nelle sponde dalmate.
Anche se il Magistrato
veneziano non è chiaro, possiamo ragionevolmente pensare ad una parlata
veneziana, locale, instabile e semplificata nella sua struttura grammaticale,
contrapposta alla lingua slava([11])
e permeabile alla penetrazione di elementi dialettali di altre regioni
italiane.
Risentendo del
particolarismo proprio del mondo dalmata, per cui ogni città presentava una
realtà etnico-linguistica diversa, questa lingua non aveva caratteri uniformi e
si diffondeva in modo più esteso laddove i contatti col mondo italiano erano
stati più profondi e duraturi.
Inoltre, dati i reperti
molto frammentari, possiamo fornire un
quadro parziale, limitato in alcuni periodi storici e inerente solo alcune
città, ad esempio Ragusa, grazie ad un'altra relazione, questa volta anonima,
del 1555: "(i Ragusei) parlano etiam
la lingua italiana con vocaboli corrotti; perciochè parte usano puri vocaboli
toscani, parte puri Venetiani antiqui, parte Lombardi et parte Pujesi”
(1878:73-74)([12]).
Esisteva dunque una lingua
in formazione che avrebbe potuto sedimentarsi e stabilizzarsi nel corso del
tempo se la Dalmazia non fosse stata interessata dai ripetuti mutamenti etnici
durante i secoli XVI-XVII, di cui abbiamo avuto occasione di parlare.
Il secondo punto che ci
permette di definire la nuova realtà linguistica dalmata è che nella relazione
giustinianea si proponga la distinzione uomini
italofoni, o bilingui, con le donne
slavofone, evidenziando come le città dalmate abbiano perso l'identità
prevalentemente latina del Medioevo e ne presentino un'altra, frutto
dell'afflusso di nuove genti e dei numerosi matrimoni misti.
Essendo accresciuto
notevolmente il numero degli slavi nelle città dalmate, non era assai
infrequente il caso in cui i dalmati italofoni sposassero delle donne slave; i
figli apprendevano dalla madre la lingua slava, che diventava la lingua del
focolare, o lingua familiare, mentre dal padre imparavano la lingua franca
necessaria nella vita pubblica e nel lavoro: "(...) usano le donne la lingua schiavona (...) ma gli huomini et questa et la
italiana. La loro lingua natia è schiava, con la quale parlano gli altri
Dalmatini (...)" (M. Metzeltin 1992: 321).
Mentre in Dalmazia si
affermava la presenza e la compenetrazione di due anime differenti, in Istria
si ebbe una situazione diversa, presentandosi due mondi distinti per etnia,
lingua, tradizione, confinati in due ambienti opposti, quello cittadino e
quello rurale. Il primo, centro primario dell'economia della penisola, divenne
espressione di una borghesia italiana medio-alta, che si richiamava ai valori e
alle tradizioni di Venezia. Per contro, nel contado circostante, attraversata
una zona mista, vi era il mondo rurale arcaico, prevalentemente slavofono dopo
i recenti insediamenti di coloni slavi.
La funzione nobilitante
della città costituiva un irresistibile richiamo per molti latifondisti
istriani e per i piccoli armatori quarnerini così da farli inurbare nelle città
vicine o, in taluni casi, da farli trasferire a Venezia o a Trieste.
La forza attrattiva della
città fu un fenomeno sociale ed economico che si mantenne vivo fino ai primi
anni del nostro secolo; per il maggiorente slavo inurbarsi significava
confermare o migliorare il proprio status
sociale e questo, di conseguenza, comportava una scelta anche linguistica,
optando per il veneziano e relegando ad un ruolo di lingua secondaria lo slavo.
Allo stesso modo le nuove generazioni accoglievano il registro veneziano e lo
sentivano come proprio, anche se, in taluni casi mantenevano ancora l'uso del
croato.
Il veneziano, pur
mantenendosi molto vitale nelle città, vide scemare a partire dal XVIII secolo
la sua forza espansiva nelle campagne, quando i gruppi slavi, stabilizzati e
consolidati dopo le emigrazioni dei secoli precedenti, conservarono la propria
lealtà linguistica e con essa l'identità etnica. Questo non significa che la
lingua della Dominante non fosse conosciuta nei borghi rurali, ma che era
accolta come “lingua del pane”, usata
nei mercati cittadini e nei rapporti con le autorità veneziane, mentre lo slavo
rimaneva e continuava a rimanere la lingua della vita di tutti i giorni.
Se può apparire prematuro
parlare di nascita delle coscienze nazionali, è altresì indubitabile che
proprio da questa contrapposizione cominciano a delinearsi due entità ed a
germinare il 'sentimento' di riconoscersi in un'etnia più che in un'altra,
preludio di un lealismo nazionale che si formerà a partire dalla metà del XIX
secolo.
Questo processo subì una
rapida accelerazione dopo il crollo della Serenissima, quando con la pace di
Campoformido e dopo il turbine napoleonico, Venezia fu inglobata con i suoi
possedimenti nell'Impero Absburgico.
Il venire meno dello Stato e
delle istituzioni che per tanti secoli avevano amalgamato popoli diversi, non
fece altro che aprire le porte ad una serie di aspirazioni, rivendicazioni e
malcontenti che caratterizzarono la storia ottocentesca dell'Istria e della
Dalmazia.
Venezia vide declinare il
proprio prestigio marittimo ed imprenditoriale a scapito di un'altra città
portuale in ascesa, Trieste, che da borgo di salinatori e pescatori era
divenuta il porto più importante dell'Adriatico da quando Maria Teresa,
imperatrice d'Austria, l’ aveva eletto porto franco e dotato di particolari
agevolazioni fiscali.
La contrapposizione fra
Venezia e Trieste nel XIX secolo trovò un'interessante definizione nelle Confessioni di un italiano di Ippolito
Nievo, in cui la città di San Marco è definita "una locanda" e quella di San Giusto "una bottega".
La sostituzione del centro
politico-economico comportò anche il cambio del centro culturale e di
conseguenza linguistico.
Trieste, in cui in origine
si parlava un dialetto di matrice friulana, era ormai ampiamente venezianizzata
già agli inizi del XIX secolo e divenne in breve il nuovo centro di
irradiazione linguistica della lingua veneta per le città istriane e dalmate,
poiché esse non riuscirono a dar vita ad un centro-guida autoctono.
1.5.1. L'introduzione
della lingua italiana
Con la forza dell'autorità
dei grandi scrittori la lingua italiana iniziò ben presto a diffondersi nel
mondo veneto.
Già nel '500 i documenti
vennero redatti in italiano, pur continuando a presentare tratti dialettali
locali (F. Crevatin 1975b).
L'italiano a base toscana si
inserì come registro di comunicazione elevato, diffuso dalle accademie e dagli
uomini di cultura istriani e dalmati. Proprio a prova del crescente prestigio
dell'italiano, molti letterati dalmati si cimentarono a scrivere in quest'idioma
opere di vario genere.
In particolare ricordiamo
Ruggero Boscovich (Ruder Boskovic 1711-1787), scienziato, studioso di
astronomia e ottica, uno dei fondatori dell'osservatorio astronomico di Brera e
brillante poligrafo, ottenne lustro in tutta Europa, il filosofo Nicola Nale
(Nikola Naljeskovic, vissuto nel XVI secolo) autore del Dialogo sopra le sfere del mondo (Venezia 1579), Giacomo Luccari
(1551-1615), autore di una Storia di sua
patria (Venezia 1605).
Un'esperienza condotta sul
versante opposto fu quella del gesuita foggiano Ardelio Della Bella che, oltre
ad essere animato da un profondo fervore pastorale, fu prezioso custode del
patrimonio culturale croato della Dalmazia, compilando il Dizionario italiano, latino, illirico (Venezia 1728), un grande esempio
di simbiosi fra la cultura italiana e quella croata (M. Culic Dalbello 1992).
L'attestazione dell'italiano
complicò, se possibile, il quadro linguistico dell'area istro-quarnerina e
dalmata che si potrebbe riassumere in questo modo:
d) |
ISTRIA |
Italiano : |
lingua di cultura,
registro delle classi più elevate; |
Veneziano : |
lingua di koinè propria dell'etnia italiana e di
quella slava; |
Istrioto : |
parlata locale,
sopravvissuta in alcune città nell'area sud-occidentale della penisola |
Sl./Cr. : |
registro delle genti slave
che, come abbiamo avuto modo di rimarcare, erano in gran parte bilingui |
|
|
d) |
DALMAZIA |
Italiano : |
lingua di cultura, diffuso
dalle scuole, propria delle classi più elevate; |
Veneziano : |
lingua di koinè propria non solo dell'etnia
italiana e di quella slava, ma anche delle molteplici etnie che si erano
stanziate lungo il litorale; |
(Dalmatico) : |
lingua ormai in
dissolvenza, parlata in aree marginali |
Croato : |
registro proprio degli slavi
autoctoni, che possedevano in gran parte
anche il veneziano. |
L'italiano si affermò come
registro superiore ma di portata limitata in alcuni ambienti sociali e con
scarsa capacità penetrativa; per i venetofoni dei ceti più bassi era simbolo di
provenienza straniera, di agiatezza e, nel peggiore dei casi, quando chi si
sforzava a parlare italiano era un dialettofono, era indice di affettazione e
di slealtà linguistica.
Così se l'italiano riuscì ad
ottenere il primato letterario e diventare il registro alto, il veneziano
conservò inalterata la sua autorità come koinè
provinciale, come già esaminato nel paragrafo precedente.
Quando Venezia e i suoi
domini entrarono a far parte dell'Impero Absburgico, la diffusione
dell'italiano non fu inizialmente osteggiata, ma al contrario consentita e, se
possibile, favorita.
Nei centri più importanti
dell'Istria, a Fiume e in Dalmazia sorsero numerose scuole italiane e la lingua
italiana divenne la lingua dell'amministrazione accanto al tedesco.
La Marina austriaca, che
assorbì le navi e la tradizione marinara di Venezia, adottò come lingua di
comando e di servizio l'italiano, in quanto gli equipaggi erano composti da
triestini, istriani, fiumani e dalmati, che per la maggior parte non
intendevano il tedesco. Gli stessi ufficiali erano per lo più di origine
italiana ed anche a loro era consentito l'uso dell'italiano, anche se
obbligatoriamente dovevano conoscere il tedesco.
La situazione mutò dopo la
vicenda della cospirazione dei fratelli Bandiera e le vicende politiche degli
anni 1848-49. La sede della Marina da guerra austriaca fu trasferita da Venezia
a Pola e il tedesco soppiantò l'italiano come lingua di servizio e di comando.
Il diverso atteggiamento
delle autorità imperiali, tuttavia, non sancì la scomparsa dell'italiano come
lingua marinara, sia perché parte degli equipaggi continuò ad essere
italofona/venetofona, sia perché gli ufficiali compivano i loro studi alle
accademie nautiche di Trieste, Fiume, Lussinpiccolo, Ragusa e Cattaro dove la
lingua di insegnamento continuava ad essere l'italiano anche per chi
appartenesse ad un'etnia diversa.
Metzeltin (1992: 330)
fornisce un interessante testimonianza dell'uso e del tentativo di impadronirsi
dell'italiano a bordo delle navi austriache, presentando una pagina del diario
di un battelliere di terza classe, il vegliotto Dominik Codanich, probabilmente
venetofono, che cerca di uniformare i suoi scritti in lingua più o meno
italiana:
"Lunedì 27. All' levar dell' Sole il cielo nuvolato il vento favorise
sempre più, alle ore Nove a.m. in vista un Brik a palo senza saper che nazion
fose alle ore dieci e meza si fece i picoli cortelazini: alle ore una p.m.
abiamo fato il cortelazo di Parochetto alle ore tre p.m. cominziò il vento a
scarsegiar e si rientra il velacio e si seghue coi picoli".
Le restrizioni del governo
di Vienna non si arrestarono alle nuove disposizioni inerenti alla Marina.
Infatti, per contrastare il nascente sentimento nazionale italiano, l'Impero
soppresse gran parte delle scuole italiane, in particolar modo, in Dalmazia,
assestando così un duro colpo all'etnia italiana; analoghi provvedimenti furono
presi per i giornali e per le sedi ricreative o i circoli culturali sospettati
di irredentismo. Per contro si cercava di privilegiare l'elemento croato, facendo
leva sulla nascente borghesia slava e sul clero. Quest'ultimo, apertamente
schierato, dopo la crisi romana e la presa di Roma del 1870, non esitava a
bollare gli italiani come atei e scismatici.
Ma al di là di questi
episodi, apparentemente folcloristici ma in realtà forieri di futuri conflitti
distruttivi, occorre sottolineare che, a partire dalla seconda metà del secolo
scorso, le due etnie vennero ad una rotta di collisione in seguito alla nascita
del movimento irredentista italiano e del nazionalismo slavo.
La politica dei due pesi e
delle due misure dell'Austria trovava spiegazione proprio nei programmi massimi
di questi due movimenti.
Gli irredentisti italiani
desideravano potersi riunire in un'unica grande patria e di essere quindi redenti e liberati dall'opprimente
dominio austriaco. Per l'irredentismo italiano non c'era molto spazio per
l'etnia slava, considerata popolo senza
storia e quindi facilmente assimilabile. Anche per quanto riguardava i
territori da unire politicamente alla penisola era tutto nell'aleatorio e
nell'indefinito.
Il nazionalismo
croato-sloveno era espressione, almeno all'inizio, di lealismo verso l'autorità
austriaca. Il grande obiettivo non era quello di formare un'entità statale
indipendente, ma di ottenere dall'Impero
un’apertura identica a quella che era stata fatta ai magiari.
1.5.2. La
politica linguistica del fascismo.
La fine del primo conflitto
mondiale e i successivi trattati di pace del 1919 a Versailles e del 1924 a
Rapallo modificarono i confini dell'Italia. In particolare, ad oriente furono
annesse l'Istria insieme alle principali isole quarnerine, ad eccezione di
Veglia, Fiume, Zara e le isole di Lagosta e Pelagosa.
Per evidenziare l'entità
della popolazione italiana nei territori annessi dopo il trattato di Rapallo,
riportiamo fuori testo tre cartine etnografiche che riferiscono in proporzione
gli esiti dei censimenti del 1900 e del 1910, fatti sotto l'amministrazione
austriaca e quello del 1921 sotto quella del Regno d'Italia.
Nell'allegato 3 sono esposte
due cartine etnografiche più particolareggiate, relative ai già citati
censimenti del 1900 e del 1910 e che comprendono Cherso, Lussino e Zara.
Le aspettative italiane
furono però ampiamente deluse, poiché furono disattese le condizioni del
Trattato di Londra del 1915, determinanti per l'intervento italiano a fianco
dell'Intesa. In particolare si prevedeva, nel caso di sconfitta dell'Impero
Austro-Ungarico, la cessione da parte di quest'ultimo di un'ampia fascia
costiera della Dalmazia all'Italia.
L'avvento del fascismo da lì
a poco alterò profondamente gli equilibri etnici e linguistici nelle terre da
poco riguadagnate alla madrepatria.
Il fascismo volle riservare
un trattamento particolare, se così si può dire, all'elemento slavo, inviso
perché considerato austriacante, perché fra di esso avevano attecchito
profondamente le teorie marxiste e perché centinaia di migliaia di alloglotti
sloveni e croati rifiutavano di italianizzarsi ex abrupto. Per dare un'idea di come il fascismo considerasse il
problema slavo e intendesse risolverlo, ecco alcuni stralci di due articoli
apparsi nel 1927 sul numero 9 di Gerarchia,
una rivista politico-culturale del regime:
"Un problema allogeno slavo (...) non esiste nella Venezia Giulia.
Esiste invece un problema di penetrazione italiana e fascista, c'è la necessità
di affermare in pieno l'autorità dello stato che ha un peso determinante in
tutto ciò che è espressione del sentimento degli slavi. Tale problema è in
prima linea di differenziazione fra fedeli ed infedeli, riveste in alcuni casi,
quando gli infedeli siano irriducibili, le caratteristiche di un problema di
polizia.
Solo il fascismo dopo la redenzione, ha saputo affermare in pieno in
queste terre l'autorità dello stato. La Venezia Giulia, sia nello spirito degli
italiani obbedienti per volontà alle leggi, sia nello spirito degli slavi,
ossequienti per attitudine mentale, si trova nello stato fascista in perfetta
linea. Occorre però (...) eliminare dalla vita pubblica nei singoli centri gli agitatori slavi i cui interessi personali sono legati al
perpetuo mantenimento di uno stato di irrequietudine artificiosa e di
avversione perpetua.
Bisogna impedire agli avvocati slavi che sono pericolosi, la libera
attività, a fianco della loro professione, di quella spicciola propaganda che
raccoglie proseliti e nutre illusioni.
Bisogna togliere i maestri slavi dalle scuole, i preti slavi dalle
parrocchie. Così facendo il fascismo risolve in pieno la questione degli
alloglotti in Italia (...)" (G. Cobol: 805).
"(...) gli allogeni, ovverossia gli slavi della
Venezia Giulia non hanno quella importanza politica, intesa questa parola nel
senso più vasto, che molti, troppi loro attribuiscono" (G. Bombig:
807).
Il regime costrinse
all'emigrazione, alla prigionia e al confino chi non si assoggettava alle
condizioni dello stato totalitario: la borghesia slava fu allontanata e così
pure molti sacerdoti slavi, tradizionalmente nazionalisti. I maestri furono
messi di fronte ad un aut aut: o emigravano nella neocostituita Jugoslavia o
erano licenziati e sostituiti con maestri provenienti dal Regno.
Analoga durezza fu usata
contro i centri culturali sloveni e croati, che furono distrutti o chiusi; le
scuole slave furono nella quasi totalità trasformate in italiane. Nel 1920
l'Hotel Balkan, centro cruciale dell'antifascismo sloveno a Trieste, fu
saccheggiato e dato alle fiamme da un assalto squadrista([13]).
Nel 1928, sempre nella città di San Giusto, fu sciolta la società di mutuo
soccorso Edinost, sede di un giornale
in lingua slovena.
Questo atteggiamento di
intolleranza provocò un perdurante clima di tensione fra l'Italia e il Regno
degli Sloveni, dei Serbi e dei Croati che produsse una sequenza di ritorsioni
reciproche: centinaia di italiani originari di Sebenico, Spalato, Ragusa e altri
centri minori della Dalmazia furono costretti ad abbandonare le loro sedi e
trasferirsi in Italia o a Zara, che come ricordiamo faceva parte del territorio
metropolitano italiano.
Questo fatto, che può
sembrare secondario, è in realtà molto importante poiché impoverì ancor più la
comunità dalmata extra confine.
Il fascismo non si limitò a
questo: venne perseguita una politica discriminatoria verso la lingua slovena e
croata, proibendone l'uso non solo negli uffici, nei tribunali, nella redazione
degli atti notarili, ma anche negli stessi locali di ritrovo come caffè,
cantine e taverne, pena multe assai onerose o, quel che era peggio, aggressioni
fisiche da parte delle squadre fasciste.
L'attività snazionalizzante
si rivolse anche ai cognomi e ai nomi di battesimo degli allogeni, indici
probanti, così almeno si riteneva, di un'italianità mortificata.
A questo proposito si
istituirono numerose commissioni preposte a riportare i cognomi, di cui si
presumeva un'origine italiana, in una forma 'latina', abolendo il patronimico slavo -ich o -ic. In modo analogo si operò nei cognomi di chiara e schietta
origine slava, dando loro una patina di italianità con l'abolire le consonanti
finali.
I cambi, che venivano
caldamente consigliati dalle autorità del regime([14]),
erano aberranti e venivano attuati con molta approssimazione, così poteva
accadere, per esempio, che il cognome
Claucig fosse tradotto Sentieri o ridotto in Claucis e Clari (P. Parovel
1985:86), oppure che i membri di una medesima famiglia si ritrovassero con
cognomi diversi ([15]).
Il medesimo metodo fu
applicato nell'ambito della toponomastica per portare a termine con la
redenzione politica anche quella linguistica. Dove esisteva la doppia forma del
toponimo si manteneva unicamente quella italiana, mentre nel caso di toponimi
slavi se ne faceva una traduzione non sempre fedele, e solo in casi del tutto
sporadici si mantenevano le due denominazioni per abituare le popolazioni
alloglotte al nuovo toponimo italiano.
Anche in questo caso vi
furono delle storture: Rakitovec o Rachitovich, una località dell'Istria
interna, fu mutata in Acquaviva dei Vena, poiché si pensava, in modo non molto
logico, che il toponimo slavo fosse riconducibile a rakija “acquavite” (M.
Dassovich 1989: 245), che con l''acquaviva' non aveva nulla da spartire, mentre
in realtà derivava da rakita “salice” e quindi il toponimo avrebbe
dovuto essere Saliceto dei Vena; Knezak piccolo borgo facente parte della
provincia di Fiume, divenne Fontana del Conte anche se per P. Santarcangeli
(1969: 219) "a memoria d'uomo non
v'erano stati né fontana, né conte"; Zadlac Zabce, località slovena
vicino a Tolmino, si ribattezzò in Villa Grotta di Dante, perché si credeva che
vi avesse trovato rifugio il poeta (L. Cermelj 1974: 140).
La politica totalizzante del
fascismo si rivolse anche ai dialetti italiani nella fattispecie a quelli
parlati in Istria, a Fiume e in Dalmazia. In questo senso vi fu un duplice
atteggiamento da parte dell'autorità: in taluni casi essi venivano ritenuti una
forma genuina di espressione di italianità e se ne tollerava l'uso, basti
pensare che venivano composte molte poesie in vernacolo in onore di Mussolini e della sua politica.
Il cambio di rotta nei
confronti del dialetto vi fu intorno agli anni Trenta, quando nelle prime
classi della scuola elementare fu abolito l'uso del dialetto come tramite per
l'insegnamento della lingua nazionale.
L'uso delle parlate
vernacole venne sconsigliato vivamente e si dette il via ad uno sforzo per
italianizzare tutti e comunque; il programma fin dall'inizio si presentava di
non facile attuazione poiché parte della popolazione era analfabeta e non riusciva ad impadronirsi di un dominio
che non avvertiva proprio e lo considerava alla stregua di una lingua
straniera([16]).
Nonostante questo il regime
organizzò a più riprese corsi serali di cultura e lingua italiana per eliminare
l'analfabetismo e italianizzare i dialettofoni e gli alloglotti, e il massimo
impegno fu dimostrato durante la politica di rivendicazioni imperiali
dell'Italia. Secondo la logica fascista l'antinomia lingua nazionale/dialetto
aveva delle motivazioni storiche e delle valenze politiche molto forti sul modo
di presentare l'Italia al consesso mondiale: l'italiano si proponeva come
lingua dello stato-nazione, e, in secondo tempo, del nuovo Impero, mentre il
dialetto oltre a rappresentare un registro basso, dalla portata assai limitata
in ambito cittadino o regionale, richiamava alla memoria storica un passato di
particolarismi locali di cui lo stato etico si considerava il superamento.
([1])Aquileia
era anche il punto di partenza di due importanti direttrici che conducevano a
Bisanzio via terra: la prima raggiungeva Emona (Lubiana), Siscia, Sirmium,
Singidunum (Belgrado), Serdica (Sofia), Philippopolis (Plovdiv), Hadrianopolis;
La seconda oltre Emona passava per Poetovio (Ptuj), Savaria, Scarbantia e
Carnuntum sulle riva destra del Danubio e da lì, dopo aver raggiunto alle foci
il Mar Nero, si giungeva a Bisanzio (G.B. Pellegrini 1992:17-18).
([2])Si
ricordi fra tutti Justinopolis, nome dato a Capodistria a partire dal 565 d.C.
in onore dell’Imperatore Giiustino; forse il nome Romania, un quartiere di Trieste (< Pvmania), attestante un insediamento militare
greco, e forse il toponimo Lauria, presso la Pieve di Cruscizza (< lauria
gr.biz. ‘cella di monaco’), attestato
in una corografia del 1694 e portato all’attenzione degli studiosi da Mario
Doria. Il toponimo avrebbe una corrispondenza con il paesino Lauria in
Provincia di Potenza.
([3])Gli
studiosi della scuola jugoslava (Deanovic, Tekavcic) che trae i suoi spunti da
P.Skok, pur rivedendo in parte le teorie del loro maestro sono propensi a
ritenere le parlate istriote non inquadrabili nel sistema dialettale italiano,
ma un fenomeno a sè stante e assoluto nel panorama romanzo, al pari del sardo o
del dalmatico.
([4])La
stessa sorte toccò anche alla Dalmazia e a Venezia che, per alcuni anni, fecero
parte dell’Impero Carolingio e solo successivamente ritornarono sotto
l’autorità bizantina.
([5])
Gli Avari (Obri) hanno lasciato traccia di sè in due toponimi, uno Obrov, Obrovo-Santa Maria, località fra Matteria e Castelnuovo d’Istria
sulla strada Trieste-Fiume, l’altro Obrovac,
Obrovazzo, sulle rive dello Zermagna
in Dalmazia.
([6])L’etnico
sembra essere di origine iranica Hrvat
‘croato’ <*(fsu)haurvata (iran.) ‘che custodisce il bestiame’ (R.Ambrosini 1882:221 e F. Conte
1991:324).
([7])Etimo
di origine greca da Mauroblacoi= ‘Nigri
Latini’ per l’incarnato olivastro della pelle o per i capelli scuri o per
l’uso di abbigliarsi con abiti neri (T.Chiarioni 1985:112). Assai interessante
è la descrizione dell’origine dei Morlacchi, fatta nella Descriptio Europae orientalis del 1308: “Notandum [est hic] quod inter machedoniam, achayam et thesalonicam est
quidam populus ualde magnus et spaciosus qui uocantur blazi,
qui et olim fuerunt romanorum pastores, ac in ungaria ubi erant pascua romanorum propter nuìimiam terre uiriditatem
et fertilitatem olim morabantur. Sed
tandem ab ungaris inde expulsi, ad partes
illas fugierunt; habundat enim caseis optimis, lacte et carnibus super omnes nationes. Terram [enim] horum blachorum que est magna et opulenta exercitus domini karuli qui in
partibus grecie moratur fere totam
occupavit et ideo convertit se ad regnum Thesalonicense dietam cum regione circumadiacente".
([8])Gli
ultimi resti delle parlate morlacche, inflenzate profondamente dal croato, si
mantennero ancora nel secolo scorso nella contea di Poglizza e ne diamo
testimonianza nell’incipit dell’Ave
Maria: “Sora Maria, pliena de milosti,
Domnul cu tire blagoslovit estu intre milierle...” (T.Chiarioni 1985:112).
([9])Fra i tanti profughi che nel corso dei
secoli XV-XVII trovarono ricovero in Dalmazia, si ricordino gli ebrei sefarditi
(ar. Sefarad = ‘Spagna’) che, espulsi nel 1493 da Ferdinando di Castiglia, furono
accolti in parte a Ragusa e a Spalato, dove esiste ancor oggi una ulica Zudioska, ‘via degli Ebrei’, e dove la comunità era chiamata ‘Cifuteria’
([10])Di questi insediamenti forzosi fecero
le spese le etnie numericamente più esigue come la greca e l’albanese, che
finirono per essere gradualmente assorbite dai gruppi etnici dominanti.
B.Biondelli (1856:63) accoglie l’osservazione del canonico Pietro Stancovich
sulla conservazione di sparuti gruppi albanesi nel 1835 in “alcune poche o piccole villette nel
territorio di Parenzo”.
Al contrario in Dalmazia le colonie
albanesi poterono conservare la loro lingua e la loro etnia fino ai giorni
nostri (C.Tagliavini 1937).
([12])
Da notare che la situazione composita che si presentava a Ragusa era
determinata anche dai profondi legami, non solo economici, ma anche culturali,
che in quel tempo manteneva con altre città italiane e, in particolar modo, con
Firenze, Roma e Napoli.
([13])
L’assalto
e la distruzione dell’Hotel Balkan a
Trieste e la contemporanea distruzione del Narodni
Dom a Pola sono episodi che danno una misura del crescente stato di
esasperazione fra l’Italia e il Regno degli Sloveni, Serbi e Croati.
Essi avvennero il 13 luglio 1920 in
risposta all’uccisione a Spalato del Comandante della nave da guerra Puglia,
Tommaso Gulli, e del suo motorista, Rossi, avvenuta ad opera della gendarmeria
slava.
([14])
Anche se il cambio dei cognomi non fu obbligatorio e molti mantennero il
proprio patronimico in ich o nella
forma tedesca o slava, è altrettanto vero che ci furono pressioni perché chi
portava un cognome straniero regolarizzasse la sua posizione, assumendone uno
italiano. D’altra parte questo metodo manicheo trovò ancor più assidui e
pedanti seguaci fra i burocrati slavi del regime titoista, attenti ad eliminare
ogni minimo segno di italianità, fosse un semplice cognome, un toponimo o un
monumento.
([15])
Personalmente ho conosciuto a Monfalcone tre fratelli piranesi il cui cognome
originario Kodric era stato tradotto Codri, Coderini e Ricci.
([16])
G.Klein (1984:12 e 15) presenta due grafici assai interessanti in cui risulta
che nel 1921 la percentuale degli analfabeti in Italia era del 27,7 e dieci
anni dopo scende a 21,1; inoltre nella regione Venezia Giulia-Zara nei due
censimenti citati la percentuale degli analfabeti scende da 15,1 a 12,4.