1.1.1.  Gli antichi insediamenti.

 

 

Le due regioni presentano una considerevole quantità di reperti archeologici risalenti al Paleolitico, al Neolitico e all'Età del Bronzo che attestano l'antichità degli insediamenti umani in loco.

Le più antiche testimonianze sono state riportate alla luce in varie località: a Monte Malez, a San Daniele presso Pola e a San Romualdo nelle vicinanze di Rovigno.

Le popolazioni istriane stabilirono le loro sedi nei castellieri, fortificazioni poste sulla sommità delle colline; le cittadelle, protette da una o più cinte di sbarramento, costituivano dei ridotti allo scopo di difendersi dalle incursioni straniere.

La diffusione dei castellieri fu assai ampia e non si limitò all'Istria ma si sviluppò in un'ampia area, così da raggiungere l'Italia, la Carniola e la Dalmazia.

Questa grande estensione fa ritenere che la loro funzione non fosse unicamente difensiva, ma che costituissero dei mercati locali o che fossero delle stazioni di posta sulla via dell'ambra, che, partendo dal Mar Baltico, raggiungeva le coste adriatiche.

I castellieri durarono come entità politiche e commerciali fino alla colonizzazione romana, quando molti di essi vennero incendiati e distrutti; tuttavia, in taluni casi essi furono le basi su cui furono fondate nuove cittadine romane o nuove sedi difensive in età alto-medievale.

I primi reperti archeologici di questi complessi vennero alla luce nella metà del secolo scorso e imponenti operazioni di scavo furono condotte nell'attuale, quando si scoprirono le rovine di Leme e di Nesazio.

Dapprima vi furono delle difficoltà nel datare e nell'individuare questi reperti, poiché, per il loro gran numero, gli studiosi pensavano ad antichi insediamenti celti, antecedenti la conquista romana; solo in seguito si poté dare loro una collocazione storica più precisa, attribuendoli alle antiche popolazioni preceltiche.

 

 

 

1.1.2.  Le più antiche testimonianze linguistiche.

 

 

Nell'ambito della toponomastica locale esistono alcune forme che possono risalire alle popolazioni stabilitesi nella penisola istriana prima dell'arrivo delle genti indoeuropee. L'accettazione di questi reperti non è mai stata priva di diverse valutazioni; ecco tuttavia quei relitti lessicali che furono accolti accolti senza soverchie diffidenze dagli studiosi.

Fra questi ricordiamo:

1)  ALBA/ALPA: “sasso” (G.Devoto 1980:33) oppure “roccia” (C. Battisti 1959) presenti nei toponimi ALB-ona e nel castelliere Albuzzano. Questo relitto ha un'ampia diffusione in Asia, nella sponda meridionale del Mar Caspio, in Asia Minore, a Creta, nell'area narbonense, aquitana, pirenaica, iberica, ma anche nell'area laziale e parasicana con ALBALONGA, ALBANUS mons, ALBURNUS mons e in Liguria con ALBENGA, ALBISOLA, ALPICELLA, senza contare l' oronimo delle Alpi che deriva da questa antichissima radice.

2)  LAMA: “acquitrino” questo relitto semantico si trova nell'antico nome di Cittanova che era LAMA TOPIA.

3)  LABA/LAPA: “frana”. anche questa forma ha un'ampia diffusione: sarebbe da accostare al pregreco laaspietra”, al sardo LAERA, “piastrella”, al campano LAVERA, al friulano LAVARE,lastra di pietra” e al piacentino LIBIA,terreno franoso”; da notare che nell'istriano abbiamo una forma omologa in LAVRA o LUVERA. L'antico valore semantico è rimasto nell'albanese LËRA,frana”. Esiste anche un nome di popolo LABEATES riconducibile al relitto anario con l'aggiunta del suffisso etnico -ates.

4)  TAURA: “tumulo”. Si rileva, anche in questo caso un etnico TAURISEI, abitanti della Pannonia, e TAURINATES o TAURINI nel Piemonte. In Istria esisteva il comune di TAURISANI e un'isola chiamata TAURIS.

5)  *VEL-: “elevato”. Questa base aggettivale anaria è presente nella toponomastica antica e, in particolare nel latino VELITRAE e nell'osco VELESTROM  e potrebbe essere presente sia nel nome dell'isola di VEGLIA che in quello dei monti VELEBITI.

 

Assai interessante è stato il lavoro di Franco Crevatin (1976:35-40) in cui vengono evidenziati altri due elementi, con tutta probabilità anari, presenti in Istria:

1)  *CARMA che in rovignese significa “buca”, “fossa”; esso ricompare nei toponimi CARMA e monte CARMAGNASA presso Rovigno e CARME' presso Parenzo. Analogie sono evidenti nei dialetti croati di Dalmazia con la forma GARMA e nell'albanese KARMË,pietraia”. Secondo Crevatin da questa base si sarebbe sviluppato il toponimo friulano CORMONS secondo il processo *CARMA + il suffisso  collettivizzante indoeuropeo *-on oppure *-ones > *CARMONES > *CORMONES > CORMONS, il toponimo sarebbe stato creato su base anaria da una popolazione indoeuropea, probabilmente celtica, i Carni, che lasciò tracce di sé in alcuni toponimi come CARNIA, CARNIOLA, e CATALI. A riprova dell’origine celtica di queste forme si ricordi la presenza del toponimo Carmagnola in Piemonte.

2)  *MATA: da cui abbiamo l'odierno toponimo di San Pietro dell' AMATA, presso Pirano. Questa è una voce rara che affiora in documenti di archivio di Pirano (1254), di Parenzo e Dignano (1506),e che sembra essere di sostrato mediterraneo prelatino, non avendo alcun elemento di contatto con etimi latini o slavi, e si tratterebbe di un appellativo riguardante la vegetazione e, in particolare, una macchia ricca di sottobosco assai fitto.

Giacomo Devoto (1962:402) parla di una o più fasi preindoeuropee, caratterizzate dalla presenza di suffissi tipo *-ona e tipo *-te, assai comuni in Italia e in Istria: TERGESTE, ATESTE, ESTE, ALBONA, FIANONA, MONTONA, DERTHONA, CREMONA.

Anche l'etimo LIBURNI avrebbe un omologo in Italia con LIBARNA, antica cittadina nei pressi di Serravalle Scrivia, senza contare la presenza del gruppo consonantico -rn- che si trova in alcuni nomi italici: VOLTURNO, CALPURNIA gens.

Gli Histri sarebbero stati, secondo il Devoto (1964:270-271), una popolazione mediterranea affine agli altri gruppi anari diffusi nell'Italia preromana, che si sarebbe indoeuropeizzata in un secondo tempo. Questa mescolanza prima, ed assimilazione poi, sarebbe avvenuta a più riprese, poiché le ondate indoeuropee si sarebbero riproposte periodicamente.

Questa teoria non è stata accolta da altri studiosi, ad esempio Crevatin (1989:549) il quale, pur accettando l'esistenza di uno strato anario in Istria, ritiene che l'etnico Histri sia indoeuropeo, presentando delle analogie con il sanscrito ISIRA, “vigoroso”, “impetuoso”, e con numerosi idronomi come ISARA (celt.), ISTER, antico nome del Danubio.

Di parere opposto è Mario Doria (1972:37) che definisce Histri un etnico assai oscuro la cui omofonia con l'idronomo ISTER sarebbe casuale.

Mario Doria ha voluto evidenziare il carattere multietnico delle regioni dell'alto Adriatico prima della colonizzazione romana, la presenza di varie etnie potrebbe essere il risultato di sovrapposizioni avvenute nel corso dei secoli e non si esclude la possibilità che questi fenomeni di insediamento fossero pacifici e non presupponessero l'annientamento della popolazione indigenza (M. Doria 1972:17-39).

La persistenza di doppi o tripli toponimi o idronomi (M. Doria 1972) fa sospettare per l'appunto l'esistenza di nuclei etnici non omogenei che in qualche modo dovettero convivere in aree spesso assai ridotte e soggette al passaggio di popoli stranieri.

L'Istria, ad esempio, sembra essere il punto di incontro di due culture, quella venetica e quella illirica (M. Doria 1972: 28), affiorando numerosi toponimi che possono essere ricondotti alle due lingue.

M. Doria attribuisce al venetico i nomi delle località di OPPITERGIUM, TERGESTE, PARENTIUM, il nome dell'isola CANTA (Brioni maggiore) e gli idronomi come TIMAVUS e FORMIO; mentre all'illirico sono attribuiti ALBONA, FIANONA, HUMAGUM, MONTONA, EMONA e Dizhros, un rivo che scorre nei pressi di Pola, e forse anche SIPPARO, REVINIUM, REUNIA, POLA, BARBANA, ATISO, ATESIS e ATESTE.

 

 

 

1.2.1.  La colonizzazione romana.

 

 

Alla vigilia delle guerre con Roma l'Istria era, come si è visto, zona di contatto e di intersezione fra il mondo venetico e quello illirico. Hollaux (1975:186) è propenso a credere che gli Histri appartenessero alla stirpe illirica, che si sarebbe stanziata in un'area molto ampia, delimitata dalle Alpi orientali, dall'Adriatico, dai monti Acrocerauni, dal fiume Morava e dal tratto del medio Danubio.

Altri (Crevatin 1989) ritengono che, nonostante vi fossero profondi contatti con la limitrofa area liburnica e con cospicui nuclei di Celti stanziati nell'odierna Venezia Giulia, gli Histri presentassero affinità con il popolo dei Veneti e ipotizzano parlassero una lingua affine al venetico.

Fu proprio per le caratteristiche della penisola, separata dall'entroterra da un'alta catena montuosa e con un territorio solo in parte produttivo, che i suoi abitanti s'affidarono al mare diventando temibili corsari, così che, per la concorrenza dei pirati liburni e dalmati, navigare il mare Adriatico era per i mercanti greci un'impresa pericolosa.

Ma la minaccia degli Histri non si fece sentire solo per mare: quando agli inizi del II secolo a.C. la potenza di Roma aveva consolidato il proprio dominio nell'Italia settentrionale, si volle porre fine allo stillicidio di incursioni da parte degli Histri nella pianura veneta, fondando la colonia latina d'Aquileia (181 a.C.).

Le razzie però non terminarono e Roma fu costretta ad organizzare numerose spedizioni militari. Solo dopo alterne vicende i romani riuscirono a sconfiggere il re degli Histri e si impadronirono della penisola fino a Pola; ma la pacificazione completa si ebbe solo nel 129 a.C. con l'annientamento di ogni attività piratesca nell'alto Adriatico. Il processo di colonizzazione fu rapido: furono fondate nuove colonie su antichi insediamenti urbani a Trieste (TERGESTE), Pola (PIETAS JULIA), a Parenzo (PARENTIUM).

Gli agri furono suddivisi in centurie che, favorendo la formazione di vasti latifondi, incrementarono e migliorarono lo sfruttamento agricolo; particolarmente famosa fu la produzione dell'olio assai rinomato nel mondo antico.

Anche la produzione artigianale ebbe nuovi impulsi con l'apertura di centri per la lavorazione della pietra e della ceramica.

Durante la colonizzazione romana la popolazione era distribuita in modo diseguale: assai abitate erano le coste e i territori immediatamente retrostanti, mentre verso l'interno i nuclei abitativi erano scarsi.

In epoca augustea fu costituita la X Regio Venetia et Histria, che inseriva direttamente la penisola in una nuova struttura amministrativa, avvicinandola ancor più al mondo italico e, data la testimonianza esclusiva di prediali latini e di antroponimi romani, si pensa che in quel tempo non vi fossero più Histri non romanizzati.

Durante l'Impero romano, Aquileia acquisì sempre maggiore importanza, diventando il centro principe per il mondo veneto ed istriano in ambito politico, culturale, linguistico e poi religioso dopo l'avvento del Cristianesimo.

Il latino parlato nella penisola fu di tipo aquileiese, attestato da alcuni relitti lessicali, presenti nell'istrioto e ignoti negli altri dialetti dell'Italia settentrionale, e da convergenze molto antiche (Crevatin 1989:49).

L'unione dell'Istria all'Italia stabilì dei legami linguistici talmente saldi da non venire meno neppure durante le invasioni barbariche. A beneficio di ciò si consideri che, pur essendo un'area marginale e conservativa, nell'Istria furono assenti scelte lessicali di tipo dalmatico.

Se la guerra condotta contro gli Histri fu lunga, quella condotta contro le popolazioni illiriche fu estenuante: iniziata nel corso del II secolo a.C. terminò nel 4 d.C. L'ampia durata del conflitto, interrotta dal lunghi periodi di stasi, fu contrassegnata da molte spedizioni militari che ottennero successi solo parziali e temporanei per i ricorrenti problemi interni e non, a cui dovette far fronte la Repubblica Romana, che impedivano un impegno militare duraturo per pacificare in modo definitivo la regione.

A questo andava aggiunta l'indole fiera di quelle popolazioni, gelose della loro indipendenza e decise a poter esercitare liberamente la guerra di corsa e le razzie.

L'ambito su cui operavano i pirati illirici era assai ampio e non si limitava all'Adriatico, ma si estendeva su buona parte del Mediterraneo, soprattutto orientale. Fu solo nell'età del Principato che l'autorità romana poté affermarsi in modo compiuto su quelle terre, quando Ottaviano prima e Tiberio dopo, con gran dovizia di mezzi, spossarono ed annientarono la ribellione dalmata.

Da allora anche la Dalmazia fu rapidamente assorbita nel mondo romano, così da essere considerata parte integrante della penisola italiana ed. essere dichiarata provincia inermis.

Nell'economia dell'Impero la Dalmazia, che, come ricordiamo, aveva un'estensione maggiore di quella attuale, rivestiva un'importanza fondamentale per il traffico mercantile, poiché i porti di IADER e SALONA, oltre ad essere degli scali per le grandi rotte orientali, erano anche i punti di partenza di un'estesa rete viaria che metteva in contatto la Penisola Balcanica e Costantinopoli con le sponde italiane.

Ma, nonostante ciò, il grande traffico marittimo faceva capo ad Aquileia, che, come si è visto, divenne una città ricca e potente ed uno dei centri economici più vitali ed espansivi dell'Impero.([1]).

Fu per questo che le cittadine dalmate, al pari di quelle istriane, non produssero una città-guida propria, durevole e stabile, che potesse essere un punto di riferimento non solo economico ma anche culturale e politico, e così, deboli del loro particolarismo, continuarono a gravitare su Aquileia.

La mancanza di una città-faro fu un elemento caratteristico della storia antica e recente della Dalmazia che finì per contraddistinguere la propria storia linguistica, quando con lo sfacelo dell'Impero e della sua unità linguistica vi si manifestarono i primi germi di un latino parlato, da cui sorse più tardi una nuova lingua romanza.

La nuova parlata risentì non poco dello sviluppo e dei caratteri del mondo dalmata, che mantenne la propria cultura e la propria identità latina, nonostante il mondo latino fosse ormai in crisi, e conservò inoltre la propria vocazione marinara, puntando su questa per la propria sopravvivenza e il proprio sviluppo, instaurando col contado circostante rapporti secondari e complementari.

Le città dalmate costituirono delle oasi di latinità dispersa in un territorio ampiamente disabitato, in cui i reciproci contatti erano stabiliti mediante le comunicazioni marittime; questo faceva sì che ognuna godesse di una certa autonomia e seguisse vie di sviluppo indipendenti rispetto alle altre, pur continuando a far parte per lungo tempo dell'Impero Romano d'Oriente.

Questa situazione condizionò lo sviluppo della nuova parlata che, nascendo da una matrice comune, finì per differenziarsi in molte varietà le quali, anche se non presentavano differenze marcate, dovevano avere tratti distintivi che per gli scarsi reperti possiamo solo ipotizzare (B. Rosenkranz 1955:269-279).

Lo sviluppo parallelo ed autonomo di questa parlate fu altresì condizionato dall'invasione avaro-slava del VII secolo e finì per accentuarsi sempre più, poiché l'interno divenne un mare croato e i contatti diretti fra le cittadine, ormai ridotte a degli avamposti della latinità, furono più difficili per l'inizio dell'attività piratesca dei Croati e dei Narentani.

 

 

 


1.2.2.  I grandi rivolgimenti dei secoli V-VII.

 

 

Le grandi invasioni barbariche del V secolo interessarono anche l'area istriana e dalmata, che, alla caduta dell'Impero finì temporaneamente sotto il dominio dei Goti, e dopo la conquista di Giustiniano del VI secolo fu restituita all'autorità di Costantinopoli.

La minaccia costante dei barbari indusse allora gli imperatori bizantini ad organizzare le due province nella struttura amministrativo-difensiva dei themi, per arginare le ricorrenti scorrerie. Ma, tornando al V secolo, scarsi furono gli influssi linguistici dei Goti, che lasciarono traccia di sé solo in alcuni toponimi di alcuni quartieri della città di Trieste e sul Carso.

Molto più ampie sono le testimonianze lessicali della presenza bizantina, anche se di incerta individuazione, essendo difficile riconoscere i prestiti importati sul luogo direttamente da Bisanzio dagli amministratori, dai soldati, dai religiosi e quelli mediati da città e da popoli vicini, poiché Aquileia e Ravenna, e poi Venezia, furono centri assai importanti di irradiazione del greco, e la stessa lingua croata fu un tramite assai efficace di elementi lessicali greco-bizantini.

Ma a parte i toponimi ([2]) i prestiti lessicali diretti sono esigui: abbiamo marasa (< maqarov), “finocchio” e “sa” (< qia), forma di rispetto e di reverenza per le donne, attestata nell'istriano meridionale.

Oltre a queste ricordiamo i comuni bazegol, basilico, e liagò (< hliakov) “altana” la cui distribuzione è tanto ampia da comprendere tutto il Veneto.

Nella seconda metà del VI secolo l'arrivo dei Longobardi sconvolse gli equilibri stabiliti dalla riconquista bizantina di Giustiniano; i nuovi arrivati, che portarono con loro elementi gepidici, avari e slavi, ebbero il sopravvento sul numerus bizantinus e poterono occupare l'odierno Friuli dove stabilirono il loro punto di partenza per l'imminente conquista dell'Italia settentrionale.

Lo stanziamento dei nuovi venuti provocò un mutamento politico radicale e doloroso per le popolazioni latine e nel contempo una contrapposizione fra due mondi: quello germanico e quello latino-bizantino.

La storia linguistica fu condizionata da questa separazione, poiché nelle due aree delimitate e contrapposte nacquero e si svilupparono parlate diverse: nel Friuli longobardo dalle spoglie del latino parlato sorse il ladino nella sua variante orientale, che si espanse fino a raggiungere l'Istria settentrionale (con le città di Trieste, Muggia e Capodistria: v. pag 30-31), mentre nella restante parte della penisola si affermò l'istrioto con una diffusione che possiamo solo ipotizzare.

Questo dualismo assunse caratteri più profondi e netti quando, a partire dal VII secolo, si insediarono nel territorio le popolazioni slave (v. par. 1.3.2) che, inserendosi a cuneo, raggiunsero il mare all'altezza di Parenzo e interruppero la continuità delle parlate latine, le quali da allora seguirono vie di sviluppo divergenti.

La distinzione ed il riconoscimento dell'area linguistica friulana e di quella istriana si ebbe negli ultimi decenni del secolo scorso, quando furono effettuati degli studi scientifici sulle due lingue.

Fecondo studioso fu Graziadio Isaia Ascoli, che riconobbe l'autorità di lingua al ladino nei suoi Saggi ladini del 1871, e che, in studi successivi, evidenziò che in alcune cittadine istriane come Rovigno, Dignano, Valle e Gallesano, accanto all'assai diffuso dialetto veneto, esisteva una parlata locale, che in tempi non lontani doveva aver avuto una diffusione più ampia e ad un primo esame presentava affinità col ladino.

Il prestigio di Ascoli e lo straordinario valore delle sue scoperte tracciarono per gli studi futuri una rotta in una direzione ben precisa, che ammetteva un'estensione dell'area linguistica ladina assai più ampia, comprendendo l'Istria intera e, forse, le ormai scomparse parlate neolatine allogene del litorale dalmata settentrionale.

Fu Antonio Ive che divulgò nel 1900 gli studi indirizzati in questo senso; egli espose una teoria, in cui, evidenziando alcune connessioni fra il ladino e l'istrioto, riteneva che il primo fosse la base delle parlate istriane e che un tempo si estendesse per tutta la penisola fino a raggiungere Pola, ultimo lembo della ladinità orientale (Bartoli-Vidossi 1946:65).

Questa situazione linguistica sarebbe entrata in crisi con l'espansione di Venezia e col suo dominio politico-economico, che avrebbe spezzato il continuum ladino in Istria, facendolo scomparire dalla parte centro-settentrionale e costringendo poi le parlate della parte centro meridionale ad un regresso costante.

Dopo la conclusione del primo conflitto mondiale che assegnò l'Istria all'Italia, furono approfonditi gli studi sull'istrioto e sulle sue similitudini reali o presunte col ladino, e furono avanzate nuove teorie, non del tutto immuni da rivendicazioni politiche.

Una di queste fu proposta da Petar Skok, per il quale nessuna lingua neolatina parlata in Istria poteva ritenersi diretta discendente del latino volgare parlato anticamente colà; l'erede legittima sarebbe stata la variante più settentrionale del dalmatico, il veglioto, che avrebbe lasciato tracce oltre che nella toponomastica anche nelle moderne parlate di Rovigno e Dignano.

Lo strato dalmatico sarebbe stato poi sopraffatto e sommerso in una fase successiva dal ladino, cancellando quasi del tutto le vestigia della lingua autoctona, definita dallo Skok ancien istro-roman o ancien prè-frioulan. A questa fase ne sarebbe sopravvenuta una terza, quella veneziana, più recente, che, rinsanguando una latinità ormai esausta, dalla crescente colonizzazione slava, avrebbe imposto la lingua della Dominante([3]).

Furono gli studi di Matteo Bartoli (1918) a separare definitivamente l'istrioto dal ladino, anche se rimasero epigoni, come Clemente Merlo, fautori convinti delle concordanze fra le due parlate.

Bartoli e Vidossi confutarono le fantasiose teorie di Skok, sia per quanto riguardava lo stato linguistico primigenio, che le sovrapposizioni avvicendatesi nel corso dei secoli.

In particolare essi rifiutarono la teoria per la quale il ladino avrebbe avuto nell'antichità una diffusione così estesa; certo esso si parlava a Trieste fino agli inizi dell'Ottocento e a Muggia fino al termine del medesimo secolo. E' assai probabile che in alcune città dell'Istria settentrionale si parlasse una variante friulaneggiante, scalzata in seguito dalla lingua di Venezia (M. Doria 1974:137-139).

Ma nell'Istria centro-meridionale sorsero degli idiomi particolari, indipendenti dal ladino e dal dalmatico, in un secondo tempo influenzati fortemente dal veneto durante i secoli di egemonia non solo economica e politica, ma anche culturale della Serenissima.

L'area di diffusione delle parlate istriote doveva essere più ampia, basti pensare che una variante di queste, il polesano, scomparve definitivamente nel XIX secolo, e che esse furono costrette ad un costante arretramento, oltre che per il prestigio della lingua di Venezia, anche per l'arrivo di genti slave e per l'infuriare di guerre e pestilenze esiziali che a più riprese flagellarono la regione.

Questa teoria permise di avere un più preciso quadro dello sviluppo storico-linguistico dell'intera area.

Tornando, però, sullo stato di guerra fra Bisanzio e i Longobardi, vediamo che l'Impero riuscì a mantenere il controllo dei litorali alto adriatici, anche perché i nuovi venuti puntarono decisamente verso le fertili campagne della pianura padana. Tuttavia apparve ben presto che la posizione bizantina era assai vulnerabile.

L'autorità imperiale, che era stata l'estremo baluardo della latinità travolta dai barbari, fu incapace a provvedere in modo organico alla difesa dei propri territori minacciati.

Inoltre il crescente bisogno di denaro, per far fronte a molteplici avversari, indusse Bisanzio ad attuare una pressione fiscale assai gravosa per le popolazioni locali che portò ad esiti nefasti ed impopolari.

I Latini, costretti a far fronte da soli alle minacce esterne, iniziarono ad alimentare il desiderio di affrancarsi da un potere centrale, lento nel mandare soccorsi, ma sollecito nell’esigere il pagamento delle tasse.

La volontà di autonomia non si espresse solo nell'ambito politico ed economico, ma anche in quello religioso, dove già a partire dal VI secolo i contrasti fra l'Imperatore Giustiniano e Papa Vigilio erano sfociati nello scisma dei Tre Capitoli. In questa occasione l'importante patriarcato aquileiese, che esercitava la propria autorità diocesana su tutta l'Istria, si schierò apertamente con Roma contro le suggestioni cesaropapiste di Costantinopoli.

La presenza militare bizantina nell' Italia settentrionale cessò di fatto nel 751, quando le milizie longobarde di Astolfo costrinsero alla resa Ravenna, capitale dell'Esarcato.

Il tracollo dei Greci, segnò per contro la preponderanza politica e militare dei Longobardi, volti ad espandere il proprio dominio a spese del Patrimonium Sancti Petri.

Questa situazione sancì al tempo stesso un pericoloso isolamento del litorale adriatico latino, che, pur appartenendo nominalmente all'Impero d'Oriente, ne costituiva i lembi estremi ormai indifendibili.

 

 

 


1.3.1.  L'Istria e il Sacro Romano Impero.

 

 

La guerra del 773-774 mossa da Carlo, re dei Franchi, contro Desiderio, provocò la caduta del regno Longobardo e la sua sottomissione al costituendo Sacro Romano Impero; buona parte della penisola istriana entrò a far parte di esso e confluì nella Marca del Friuli, marca di confine che doveva costituire un punto di difesa dalle incursioni provenienti da Oriente ([4]).

Fu durante il dominio franco che si ebbe in Istria l'introduzione del sistema feudale, struttura che si rafforzò nel X-XI secolo, quando l'Istria e il Friuli entrarono a far parte del Margraviato di Verona prima e del Ducato di Carinzia dopo.

Il sistema feudale, per sua stessa natura aprì la strada a profondi particolarismi e localismi e fu la Chiesa la prima a beneficiarne; infatti il Patriarcato di Aquileia esercitava un amplissimo potere nelle terre istriane, cosicché, fra il X e l'XI secolo, circa due terzi di queste costituivano manomorta, e ciò a grave detrimento dell'autorità locale.

Se nella parte centro-settentrionale si ebbe una polverizzazione dell'autorità laica e l'estendersi del latifondo ecclesiastico, la fascia costiera sembrò fare capo inizialmente a Pola, l'unico centro capace di emergere grazie alla sua posizione geografica. Ma nonostante questo, l'antica Pietas Julia rimase un centro locale, periferico, non forte abbastanza da assumere una funzione guida o coesiva per l'Istria intera.

In sostanza si presentò nella penisola una situazione di debolezza politica intrinseca, che facilitò senza dubbio l'espansione politica ed economica di Venezia e nei secoli XIV e XV quella degli Absburgo, soprattutto nell'Istria interna.

tornando ai mutamenti politici dell' VIII-IX secolo, fu la classe dirigente germanica quella che occupò i vertici delle strutture ecclesiastiche e laiche. Si trattò di un'infiltrazione che non assunse mai i connotati di una vera e propria immigrazione, poiché l'Istria non fu mai ritenuta un Eldorado dai feudatari tedeschi, ma solo una terra di confine la cui importanza era soprattutto militare.

Analogamente a quanto avvenne nell'Italia settentrionale, la nobiltà tedesca non si inurbò, ma pose le proprie sedi nei castelli o nelle piazzeforti dell'interno, dove si poteva controllare il territorio circostante. Così relegato nelle zone montane, l'elemento tedesco non si mescolò con gli elementi allogeni e mantenne quasi inalterati i propri costumi e le tradizioni.

Il sistema feudale condizionò radicalmente l'assetto etnico della penisola istriana, poiché la nobiltà germanica vi favorì l'insediamento di popolazioni slave.

La facilità di questo stanziamento era determinata dalla loro grande adattabilità nel dissodare e coltivare terreni non molto produttivi in una regione scarsamente abitata, in cui i latini, ormai prevalentemente inurbati, non avevano la forza demografica sufficiente per popolare gli spazi vuoti.

La medesima politica fu attuata anche nel vicino Friuli, che presentava condizioni analoghe a quelle istriane come dimostrano i toponimi Gradisca, Dolegna, Vencò, Sagrado, Papian Schiavonesco, Lestizza, Pocenia, Sclavons, Cerneglons, Grumila e Belgrado, località situata fra Latisana e Codroipo, tutti di origine slava, ma qui nel corso dei secoli si ebbe una ripresa dell'elemento autoctono friulano, il quale fece arretrare le popolazioni slave nelle valli del Natisone, di Resia e sul Carso.

Anche dal punto di vista linguistico l'influsso tedesco fu del tutto marginale e, in alcuni dialetti istrioti sono rimasti sporadici relitti, che risalgono a forme dell'antico alto tedesco come parnato (pol.), “mucchi di covoni”, <parn/barn + la desinenza latina       -attus e bilfar (bui., pir., dign.), “gettare germogli”, o bilfa,rimessiticcio” < werfen,gettare” (Crevatin 1989: 555 e Rosamani 1990: 92).

 

 

 

1.3.2.  Gli Slavi.

 

 

L'arrivo degli Slavi fu un avvenimento determinante nella storia linguistica, e non solo, dell'Istria e della Dalmazia, poiché influenzò profondamente l'assetto etnico originario, mettendo fine all'esclusivo predomino latino e si inserì in maniera organica in quella situazione antinomica fra il mondo friulano delle origini e quello istriano.

La presenza più antica degli slavi in Italia può essere fatta risalire alla discesa longobarda nella penisola, quando nel multietnico esercito di Alboino militavano genti di origine slava.

L'invasione slava in Istria si differenziò notevolmente da quella che i Longobardi avevano attuato in Italia: essa non fu preceduta da uno stillicidio di scorrerie e saccheggi, seguita poi da una migrazione di dimensioni imponenti, ma fu condotta in sordina da piccoli nuclei sfilacciati, desiderosi di stabilire sedi permanenti, che si stanziarono su vaste aree poco abitate.

La bontà della teoria sullo stanziamento antico ed immediato degli slavi sembra essere suffragata dalla facilità con cui toponimi di origine slava e di antica attestazione furono accolti dalle popolazioni latine come Lonca, vicino a Capodistria (< loka,prato molle”) o toponimi di patrimonio latino espressi in due forme (es. Veglia/Corcyra) di cui gli Slavi assunsero la forma più arcaica e ormai in disuso in pieno Medioevo (Corcyra > Krk, Veglia, o Crepsa > Cres, Cherso).

Oltre a questo, assume importanza il Placito del Risano, risalente all' 804, in cui si parla della presenza slava forse non numerosa, ma sensibile e stabilizzata; anche le ricerche archeologiche sembrano testimoniare un graduale amalgama fra le due etnie.

Lo stanziamento slavo nelle campagne fu una scelta obbligata, imposta dalla debolezza organizzativa e militare, che non permise loro di impadronirsi delle città costiere (Parenzo, Rovigno e Pola) e dei borghi fortificati dell'interno (Rozzo, Pinguente, Pédena); del resto anche i tentativi di inserirsi nei territori occupati dai Longobardi furono sempre respinti.

Per questo si attestarono a ridosso del limes bizantino, dove esercitarono attività rurali e la pastorizia ed assimilarono la scarsa popolazione latina locale.

Della debolezza organizzativa degli Slavi approfittarono gli Avari (Obri) che sottomisero ad un giogo di memorabile durezza gran parte delle popolazioni slave d'Europa fra il VI e l'VIII secolo ([5]).

Fu sotto la direzione e la spinta degli Avari che gli Slavi iniziarono la loro marcia verso Occidente. Per quanto riguarda le nostre regioni vi furono due direttrici: la prima, quella degli Sloveni, che da nord-est puntò verso il Friuli, lungo le valli del Natisone, dell'Isonzo e Val Canale, sul Carso e verso l'Istria centro settentrionale.

La seconda, quella dei Croati([6]), indirizzata verso l'Istria centro meridionale e lungo tutto il litorale dalmata.

I due popoli si differenziavano per caratteri particolari ed antitetici che contraddistinsero il loro insediamento.

Gli Sloveni erano di temperamento pacifico ed avevano una scarsa coesione politica, se si eccettua l'effimero regno di Samo, così da accettare senza ribellioni di particolare rilievo l'autorità imperiale franca e poi quella germanica ottoniana.

I Croati insieme ai Serbi mostrarono la loro indole bellicosa quando, frammisti agli Avari, misero a ferro e fuoco le città latine di Dalmazia, annientando le popolazioni e distruggendo ogni cosa.

Di fronte alle devastanti invasioni barbariche la popolazione dalmata indigena cercò un primo scampo sulle isole. In questo senso va ricondotta l'origine del toponimo Lussino, che deriva dagli abitanti della città romana di Lopsica in terraferma (Lopsini > Lossini > Lossin > Lussin).

Questa via di fuga venne sfruttata nuovamente molti secoli dopo, durante le incursioni dei Turchi, quando nelle isole furono portate in salvo genti del contado in fuga.

Tornando all'invasione avaro-croata, essa fu un evento di incredibile durezza, assai più perniciosa delle invasioni delle popolazioni germaniche che si susseguirono fra il V e il VI secolo.

Infatti i Germani, pur contrassegnando il loro passaggio con eccidi, devastazioni e saccheggi, stabilite le proprie sedi, cercavano durante il loro stanziamento un'integrazione e una collaborazione con l'elemento allogeno, preludio di un futuro amalgama dei due popoli.

In Dalmazia questo non avvenne se non a scadenza lunghissima.

Secondo la peggiore tradizione delle invasioni di stirpe asiatica, come quella degli Avari, che componeva gran parte della nobiltà guerriera croata, la migrazione verso Occidente non presupponeva la necessità di nuove sedi in cui stabilirsi, o meglio, non solo. Essa era dettata dalla volontà di far bottino e di farne quanto più possibile, distruggendo tutto ciò che non potesse essere trasportato o sembrasse inutile.

La situazione incerta, venutasi a creare nel VII secolo all'arrivo delle prime orde croate, si mantenne per lungo tempo; quando i Croati appresero le tecniche marinaresche si dedicarono alla pirateria, stabilendo le proprie basi sulle isole dalmate e alla foce dei fiumi principali. La loro attività, congiunta con quella dei Saraceni, che per qualche tempo ebbero come base Bari, fu esiziale per il traffico marittimo nell'Adriatico che collegava l'Italia con l'Oriente.

Fu solo intorno al Mille che Venezia, ormai assurta a potenza marinara, stroncò la tabe della pirateria, gettando le basi per il proprio dominio sul mare.

L'arrivo degli Slavi sulle coste adriatiche accentuò ancor più la divisione nel mondo linguistico latino, che presumibilmente da allora seguì vie di sviluppo parallele.

La continuità linguistica tra il Friuli e l'Istria venne ulteriormente messa in crisi dall'intervento dei feudatari tedeschi, che introdussero in maniera sempre più cospicua genti slave dall'interno, le quali costituirono una massa imponente di coloni, utilizzati per dissodare il territorio e renderlo produttivo.

Anche a sud, nella Dalmazia, le genti slave aumentarono considerevolmente e finirono per assimilare sia pur in modo graduale e lento le popolazioni di origine latina, i Morlacchi([7]).

Unici ed ultimi baluardi della tradizione latina erano rimaste le città di Iader e Salona, gelose custodi della propria tradizione e della propria autonomia a dispetto di una presenza slava sempre più incombente.

Anche in Dalmazia la latinità era spezzettata, in modo ancor più frammentario di quanto fosse in Istria, e questo costituiva una posizione di grande debolezza, tanto più che, nonostante gli Slavi avessero accettato di stabilirsi sul litorale come foederati dell'Impero, a cui la regione apparteneva ancora sia pure solo nominalmente, in realtà cercavano di ritagliarsi un proprio regno, approfittando della situazione fluida ed incerta di quel tempo; e le ricche città latine della costa erano un'attrattiva assai forte.

Senza dubbio la latinità sarebbe entrata in una fase di rapido declino se proprio in quel tempo non fosse apparsa alla ribalta storica Venezia, la quale assunse il ruolo di fulcro politico del mare Adriatico e al tempo stesso anche economico e culturale, in grado di condizionare per secoli la storia delle sue sponde orientali.

 

1.4.1.  L'espansione di Venezia.

 

 

L'ascesa politica di Venezia nell'Adriatico coincise col progressivo arretramento delle posizioni di Bisanzio, che, pur mantenendo il primato di potenza navale del tempo, allentò la sua presenza in quel mare già a partire dal IX secolo.

La città lagunare già in epoca longobarda era stata un importante nodo commerciale per il traffico delle merci pregiate provenienti dall'Asia o per quelle locali, come il sale o il pesce. Infatti, posta vicino alle foci di grandi fiumi come il Po, l'Adige, il Piave e il Brenta, li utilizzò come una rete viaria che la metteva in contatto con la Pianura Padana e, tramite gli affluenti del Po e i passi alpini, con l'Europa centrale e occidentale.

Le rotte incustodite per l'Oriente costituirono un forte richiamo per la nascente Repubblica, impegnata ad allargare i propri traffici; ma per potersi ritagliare uno spazio vitale fu necessario pacificare l'Adriatico ed eliminare la minaccia dei pirati slavi e saraceni.

Fu per debellare questo pericolo, che molte città istriane e dalmate fecero fronte comune con Venezia, unica città capace di schierare una flotta assai munita.

Solo quando Venezia riuscì ad ottenere trattati vantaggiosi sia con l'Impero Ottoniano che con quello di Costantinopoli, ritenne opportuno impegnarsi a fondo contro la pirateria e allestì la spedizione di Pietro Orseolo II, il quale nel 1000 percorse tutte le coste orientali dell'Adriatico, debellando i riottosi e ottenendo grandi onori e riconoscimenti dalle comunità latine e slave.

L'annientamento dei pirati fu completo quando nel 1004 le flotte congiunte di Venezia e Bisanzio debellarono la base saracena di Bari.

Se questi avvenimenti furono un grosso successo politico e, di fatto, posero le basi per il dominio di Venezia sul mare, era necessario che questo potere si consolidasse e fu così che la Serenissima costituì sulle sponde dalmate ed istriane una fitta rete di basi militari, empori, centri commerciali, punti di riferimento vitali ed indispensabili per le sue attività economiche ed i suoi traffici marittimi.

La municipalità istriana, anche se nominalmente era sottoposta all'Impero di Bisanzio e faceva capo all'autorità ecclesiastica del Patriarcato di Aquileia, non poté dar vita ad una coalizione, fondata sulle città più importanti come Pola o Capodistria, capaci di resistere alla spinta espansionistica della Dominante. I tentativi fatti in questo senso ebbero esito negativo, anche perché negli stessi comuni esisteva un forte partito filoveneziano, che propugnava una dedizione delle città istriane alle bandiere di San Marco.

Quando il dominio di Venezia poté affermarsi, soprattutto nella parte costiera della penisola, le cittadine assoggettate inizialmente poterono mantenere le proprie istituzioni ed i propri rappresentanti, ma in un secondo tempo per stornare eventuali ribellioni locali e per ostacolare i tentativi di influenza politica esterna del Regno di Croazia o di quello d'Ungheria in Dalmazia, del Patriarcato di Aquileia e dei Conti di Gorizia ed Istria, il Senato Veneziano impose che i podestà e i conti veneziani si sovrapponessero alla nobiltà autoctona.

 

 

 

1.4.2.  La Dalmazia latina.

 

 

Il 1000 fu un anno cruciale nella storia della Dalmazia: con la dedizione delle città istriane e dalmate l'egemonia politica di Venezia poté stabilizzarsi. Nonostante questi successi importanti questo predominio conobbe anche periodi di crisi nel Medioevo. Infatti la Dominante dovette far fronte non solo alla volontà autonomistica delle città soggette ma anche alle mire di espansione dei regni vicini; il suo apporto culturale e l'influsso politico furono sempre indiscussi e profondi.

Il problema primario è definire quali fossero i caratteri della Dalmazia in quel tempo: se fosse ancora latina oppure ampiamente slavizzata. A questo riguardo Z. Muliacic (1965:169) ritiene che nel XI secolo i due gruppi etnici si fossero ormai fusi insieme, mentre per Mirko Deanovic (F. Ursini 1987:30) questo progetto sarebbe iniziato assai presto, a partire dal VII secolo al tempo della grande migrazione slava.

Esistono tuttavia degli elementi che sono in contrasto con queste tesi: ammesso che gli Slavi si fossero stanziati già al loro arrivo sulle coste e si fossero altresì stabiliti nel contado circostante le città, convivendo pacificamente con le popolazioni latine e rurali, abbiamo tuttavia motivo di ritenere che fosse diversa la situazione nelle città latine dove furono mantenute le istituzioni municipali greco-latine, un'etnia omogenea e, conseguentemente, una lingua romanza che muoveva allora i suoi primi passi.

A questo proposito sono molto interessanti le testimonianze dell'imperatore Costantino Porfirogenito, che nel suo De administrando imperio, descrive la Dalmazia del IX secolo, dicendo che i Romani e, si badi, Romani non Romei, appellativo con cui si designava i Greci dell'Impero si erano mantenuti ad Ossero, Arbe, Veglia, Zara, Traù, Spalato e Ragusa; oppure quella del diacono Giovanni il quale assistette personalmente agli atti di sottomissione dei latini di Dalmazia durante la spedizione di Pietro Orseolo II e lo raccontò nella sua Chronica Veneta.

Parimenti significativo è un documento giuridico del 1072 dove i contraenti zaratini sono detti latini e quelli di Nona slavi.

La tesi che vuole le città dalmate abitate da una popolazione prevalentemente latina è confermata dai documenti municipali di una città, per così dire, campione, Zara. Esistono ventisette documenti (V. Brunelli 1974: 303-305) che abbracciano un lasso di tempo assai ampio, dal 918 al 1096, e contengono una serie di nomi di cittadini quasi tutti di origine latina.

Lo scarso numero di nomi slavi ci induce a pensare che l'elemento slavo fosse in netta minoranza e, stanti queste condizioni, si può ipotizzare che in città non esistesse un vero e proprio bilinguismo, ma che le genti slave inurbate si assimilassero alla popolazione latina parlante il dalmatico.

Inoltre, dagli atti notarili dell'epoca (V. Brunelli 1974:306) si può ricevere un'indicazione di come fosse vitale il dalmatico, in quanto dal cattivo latino scritto dai redattori, traspaiono elementi riconducibili al linguaggio comune come: capitale 'capezzale', culcitrino 'cuscino', bergato 'tipo di tessuto vergato', candeola 'candela', mentre sono scarsi gli apporti dello slavo.

Anche nelle campagne dalmate esistevano, come già enunciato, gruppi sporadici di origine latina, dispersi nel territorio circostante e verso l'interno, che sopravvivevano con la pastorizia.

Queste genti, chiamate Morlacchi, Morovlahi o Vlahi per le loro caratteristiche fisiche, parlavano una varietà rumena e, per alcuni secoli, nonostante vivessero a stretto contatto con le popolazioni slave, mantennero la loro lingua: fino al XV secolo risultano attestati antroponimi come Petulel, Mezul, Dragul, Negul, Sargul, appartenenti al mondo linguistico romanzo-orientale, interessante indizio della sopravvivenza, almeno fino a quel tempo, dei dialetti morlacchi.

Gradualmente ma inesorabilmente e si completò fra i secoli XV e XVII, quando vi furono imponenti migrazioni di genti balcaniche verso la costa([8]).

Ultimi epigoni delle parlate rumene nelle regioni da noi considerate sono i Cici o Istrorumeni, abitanti in

alcune località dell'Istria interna, a Seiane (Jeiani rom) e in alcuni villaggi intorno a Monte Maggiore nella provincia di Fiume.

La presenza dei Rumeni in Istria fu dovuta sia ai provvedimenti attuati dal governo della Serenissima per ripopolare le terre incolte, devastate dalle guerre e dalle pestilenze, sia alla naturale propensione dei Morlacchi al nomadismo per la ricerca di nuovi pascoli, e alla loro fuga dai Turchi, quando le milizie ottomane avevano occupato gran parte dei Balcani.

Tornando ai caratteri etnici e linguistici delle città dalmate, si segnala che un altro studioso, M. Metzeltin (1991: 320), ritiene che lo slavo avesse uso corrente in città già nel XII secolo, tenendo come riferimento la venuta in Zara di Papa Alessandro III nell'anno 1177, quando fu festeggiato "immensis laudibus et canticis in eorum sclavica lingua" (M. Metzeltin 1991: 320, ripreso da Teja 1949: 243).

Pur accettando la bontà della testimonianza del cronista medievale resta da chiedersi chi abbia innalzato laudi e cantici in onore del Pontefice, se i religiosi o il popolo.

La visita del Papa a Zara non era stata stabilita, ma dovuta all'inclemenza del tempo e, in particolare, al vento molto forte di borea, che aveva costretto parte della flotta pontificia, in rotta verso Venezia, ad una sosta forzata nella città e parte ad un repentino ritorno al porto di Vasto.

L'arrivo del Pontefice fu un evento straordinario che finì per attirare moltitudini di fedeli dalle città vicine e dal contado (N. Luxardo De Franchi 1994:17 e segg).

Si pensa che i contadini slavi abbiano voluto salutare il Papa nella loro lingua ed invocare la sua paterna benedizione.

I canti festosi in slavo, risuonando esotici e strani, avranno colpito l'attenzione dei prelati al seguito del Papa molto più delle laudi in latino del clero zaratino.

E' molto improbabile, d'altro canto, che i sacerdoti della città abbiano voluto festeggiare il Pontefice "immensis laudibus" in glagolitico, ossia in paleo-slavo, perché ancora vigenti le severe disposizioni che la Chiesa Romana aveva impartito nei sinodi spalatini del 925 "ut nullus episcopus audeat in quolibet gradu sclavinica lingua promovere" (M. Kostrencic 1957 I: 32) e del 1060 "nullus de cetero in lingua sclauonica presumeret divina misteria celebrare, nisi tantum in latina et graeca, nec aliquis eiusdem lingue promoueretur ad sacros" (T. Smiciklas 1904).

Pertanto è lecito pensare che il clero zaratino abbia accolto il suo pastore con canti ed inni in latino, altrimenti questo sarebbe stato un atto di grave contestazione e non un momento di festa.

L'Impero veneziano nell'Adriatico, poté affermarsi completamente solo nel XV secolo, quando il Regno d'Ungheria entrò in grave crisi.

L'autorità della città di San Marco si impose solo sul litorale proprio per il carattere marittimo-commerciale della sua politica, che la portava a disdegnare conquiste nell'entroterra, perché inutili e dispendiose.

Trieste e Ragusa subirono temporaneamente il dominio veneziano: la prima preferì accettare l'autorità imperiale, facendo atto di dedizione nel 1382, la seconda, custode di gloriose memorie storiche, poté mantenere la propria indipendenza fino agli inizi del XIX secolo, pur occupando nell'Adriatico una posizione di secondo piano rispetto a quella di Venezia.

Il mare Adriatico si trasformò allora per ben tre secoli nel 'Colfo di Venezia' dove tutti i commerci e i traffici mercantili, provenienti dall'Oriente, dovevano far capo alla Dominante, importantissimo centro di smistamento per tutta l'Europa. Questa posizione di primaria importanza venne meno quando la scoperta delle rotte atlantiche relegò il mar Mediterraneo nella condizione di grande lago periferico.

Per procedere nella storia linguistica dell'area istro-quarnerina e dalmata in modo da avere un  quadro

diacronico completo è necessario fare un passo indietro, quando in questa regione si costituirono due mondi linguistici diversi in opposizione e a confronto: quello romanzo e quello slavo, determinandosi originariamente una situazione di questo tipo:

 

ISTRIA                             DALMAZIA

 

a) Istrioto X Slavo                  Dalmatico X Slavo

 

La differenza di lingua era anche antinomia di ambienti diversi. L'Istria costiera era quasi totalmente romanza, mentre nell'interno, superata una zona mista di transizione, si presentava il mondo slavo; più complessa era la situazione in Dalmazia dove la Romània si era mantenuta a macchia di leopardo, attestandosi soprattutto nelle città e in alcune isole prospicienti il litorale.

La zona di transizione era molto più rarefatta ed incoerente di quanto non fosse in Istria, poiché le comunità neolatine erano esigue e disperse ed invece di costruire le ultime propaggini della latinità dalmata, finirono con l'inurbarsi o con l'essere sommerse dalle popolazioni slave dalle quali furono rapidamente assimilate.

Più lento ma altrettanto inesorabile fu il processo di assimilazione dei Morlacchi, di cui si è parlato nel paragrafo precedente.

Pertanto in Dalmazia non esisteva una zona neutra, ma si passava direttamente dal mondo romanzo a quello slavo: mondi separati, potenzialmente in conflitto e reciprocamente autosufficienti, con vocazione marinara e mercantile il primo, rivolto alla pirateria o ad una economia agricola e pastorale.

Molto più difficile è delineare le condizioni del dalmatico, essendo rare e frammentarie le testimonianze più antiche.

Carlo Tagliavini (1982:535-536) indica due varianti di questa lingua: una settentrionale, il vegliotto, e una meridionale, il raguseo.

Stabilito ciò, occorre osservare che in primo luogo nel mondo neolatino dalmata non durò per lungo tempo l'opposizione città/campagna, così da permettere l'esistenza di un dualismo parlata cittadina (o elevata) e parlata rurale (variante bassa); in seconda istanza la Dalmazia, inizialmente legata a Costantinopoli, fu un mondo di città autonome, ma la loro autonomia fu un fattore di debolezza che condizionò in modo determinante i successivi sviluppi storici.

Ogni città viveva del mare e dei traffici marittimi, era autosufficiente e ad un tempo isolata. Questa situazione così frammentaria fece sì che nessuna di esse riuscisse ad imporsi nella posizione di centro-guida, facendo in questo modo prevalere la propria variante sulle altre.

A questo punto potremmo ipotizzare diverse parlate cittadine, tutte paritetiche ed omologhe destinate ad un rapido declino con l'affermazione della lingua della Dominante.

L'arrivo del modello linguistico veneziano complicò oltremodo una situazione già eterogenea in partenza, modificandola in un primo tempo così:

 

 

b)

ISTRIA

Veneziano     :

registro superiore e di prestigio, lingua della classe dominante;

Istrioto      :

registro inferiore usato in un ambito territoriale ristretto (Istria centro- merid.) e proprio dei ceti più bassi:  pescatori, contadini;

Sl./Cr.       :

registro proprio delle genti  di  origine slava, che in virtù dei crescenti rapporti con Venezia assunsero gradualmente anche  la lingua veneta.

 

 

b)

DALMAZIA

Veneziano     :

registro superiore di prestigio;

Dalmatico     :

registro diffuso soprattutto nelle città, in regresso durante la diffusione del Veneziano in quanto ritenuto parlata locale ed inferiore a quello;

Croato        :

lingua delle popolazioni di origine slava o slavizzate. Quando alla fine del Medioevo si inurbarono, diventarono  bilingui assumendo anche il Veneziano.

 

L'esito produsse un equilibrio non stabile, passibile di ulteriori e repentini cambiamenti. Il veneziano che aveva avuto una lunga e continua diffusione nell'area istro-dalmata per via dei già accennati commerci e traffici mercantili, venne assunto dai maggiorenti istriani e dalmati prima come lingua internazionale e commerciale per gli scambi con Venezia, e poi, essendo riconosciuto come un registro superiore, finì per sostituire l'idioma autoctono e attraverso un processo di induzione il cambio si estese ai ceti meno abbienti.

Questo fenomeno fu spiegato da C. E. Bidwell ( 1967: 13-30 ) come caso di colonizzazione linguistica:

"These dialects may be called since in no case do they represent development of an autochthonous Romance speech, but are overlaid upon linguistic substrata which were either Slavic or non-Venetian varieties of  Romance (...). The steady venetianization of Romanic and Slavic popolations in urban settlements of the East Adriatic coast is undoubtedly due first to the political hegemony of Venice throught a great part of the late Middle Ages and early modern times, and secondly to the tremendous [sic!] commercial and cultural ascendancy of the city of St. Mark which extended to areas not under its direct political control and persisted after the Venetian republic ceased to exist (...)"

Pur accettando la bontà della teoria di Bidwell, preferiamo sostituire la sua espressione "Colonial Venetian" con quella di venetode là da mar”, espressione utilizzata con successo da Gianfranco Folena che meglio delinea la capacità di irradiamento linguistico di Venezia e la rende scevra da tutte le valenze negative che il termine “coloniale” di per se stesso impone.

Partendo da questo punto, è indispensabile evidenziare alcuni aspetti che ad una prima analisi possono apparire insignificanti o secondari, ma che a nostro parere possono fornire nuove possibilità di discussione.

Se ammettiamo che il veneziano fu una lingua importante, è chiaro e pacifico che la sua storia seguì itinerari diversi: in Istria e in Dalmazia venne ad affiancarsi e poi a sovrapporsi a parlate neolatine e la sua forza espansiva e la sua prosperità furono tali che le lingue autoctone finirono, come si è visto, per scomparire o per occupare uno spazio molto marginale.

Nelle isole Ionie, nel Dodecaneso, nel Mar di Levante, a Costantinopoli, il veneziano conobbe uno sviluppo diverso: ebbe una grande diffusione al pari del francese e del genovese durante il tempo dei grandi commerci con l'Oriente, prima che si scoprisse l'America e che l'Impero Ottomano potesse affermarsi come potenza primaria nel Mediterraneo; in conseguenza a questi mutamenti storici decadde e finì con lo scomparire.

La debolezza della “colonizzazione” linguistica veneziana nei domini levantini era figlia legittima della thalassocrazia che la Dominante impose nelle terre d'oltremare, laddove l'egemonia era fondata più sulla propria solida economia e sull'abilità che per la forza delle armi.

Gli stanziamenti dei Veneziani erano rivolti a creare delle basi e dei fondachi piuttosto che a costituire feudi o formare latifondi, ad eccezione dell'isola di Creta, unico possedimento “de là da mar” in cui alcuni nobili veneziani iniziarono uno sviluppo intensivo dell'agricoltura.

Nelle colonie venete la fortuna e il decadimento del veneziano, privo di un vero e proprio retroterra linguistico e culturale, erano strettamente legati alle sorti politiche della Dominante. Così non avvenne in Istria e in Dalmazia dove il veneziano “de là da mar” sopravvisse alla stessa indipendenza politica della Repubblica di San Marco.

Questa resistenza, a nostro parere, non può essere spiegata solo e semplicemente perché Venezia mantenne il controllo delle sponde dell'Adriatico orientale più a lungo ed i contatti furono più durevoli e più frequenti.

Fu la natura stessa dei rapporti fra la Dominante e i suoi territori nell'Adriatico a fornirci nuove chiavi di lettura sulla prosperità della parlata veneziana d'oltremare: infatti occorre ricordare che fu molto profondo l'influsso culturale di Venezia e, tramite essa, dell'Italia: molti maestri italiani vennero ad insegnare nelle scuole dalmate e non furono pochi gli studenti dalmati che si addottorarono, a partire dal XV secolo, nell'Università di Padova.

Il mondo istriano e dalmata avvertiva molto forte il richiamo della cultura italiana e per questo si lasciava assimilare di buon grado, riconoscendone la superiorità.

Oltre a questo si tenga conto del legame politico che strinse Venezia con l'Istria e la Dalmazia, poiché la libertà della città di San Marco era strettamente connessa al controllo del Colfo e la stessa autonomia di cui usufruivano le città dalmate ed istriane poteva trovare spazio solo se l'Adriatico fosse rimasto marciano e non fosse caduto in mano ai Turchi. In questo senso si spiegano le numerosissime prove di fedeltà e coraggio di sudditi “de là da mar”, per cui entrare a far parte integrante della società veneziana ed esibire riconoscimenti militari (come quelli esposti nell'Allegato 1) era motivo di grande prestigio ed orgoglio.

Anche se i commerci e i traffici marittimi furono monopolizzati da Venezia, questo non impedì che nel bacino Adriatico si formasse un corpus ben compatto, riconoscibile ed inquadrabile in una precisa identità culturale che si mantenne pressoché inalterata fino agli esiti del trattato di Campoformido, esiziali per le sorti della Serenissima.

In quest'ambito il veneziano “de là da mar” assunse ed assume un valore più ampio di semplice lingua coloniale, concessa, beninteso, la funzione che questa lingua assunse, come vedremo, di koinè, di lingua veicolare fra popoli parlanti idiomi diversi nelle terre di San Marco.

L'affermazione del veneziano poté avvenire per vari canali: se il primario e più antico fu inerente ai commerci e ai traffici marittimi della città di Venezia, occorre ricordare che dal secolo XV, quando l'egemonia economica si tradusse in una vera e propria sovranità, il veneziano poté imporsi anche come lingua dell'amministrazione, della burocrazia, delle istituzioni civiche e dell'apparato militare.

Grande fu l'opera di diffusione delle organizzazioni ecclesiastiche, poiché i vertici e gran parte del clero dalmata ed istriano era veneziano, o comunque si riteneva parte della cultura veneta, e nelle attività pastorali e nelle omelie usava la lingua della Serenissima aumentandone la capacità espansiva.

Le attività ricreative e di carità, patrocinate dalle confraternite e soprattutto le scuole, gestite anch'esse

dalla Chiesa, furono un potente veicolo di irradiazione del veneziano, che si diffuse, specificatamente per l'Istria, anche all'interno recuperando nell'ambito romanzo cittadine ampiamente slavizzate come Albona e Pisino.

La diffusione del veneziano “de là da mar” determinò inversamente un costante regresso delle parlate locali neolatine e slave.

Il dalmatico oppose una resistenza molto debole: a Zara, Arbe, Traù, Spalato decadde assai presto e alla fine del Medioevo, queste città potevano dirsi quasi completamente venezianizzate.

A Ragusa si ebbe una situazione diversa in virtù dell'autonomia di cui la città godette: ivi il dalmatico fu usato nei consessi del Senato civico almeno fino al XV-XVI secolo per essere poi sostituito da un italiano di stampo toscano.

Incalzato così dal veneziano, il dalmatico seguì un costante ed inarrestabile arretramento che lo portò ad essere confinato in aree marginali, e, proprio in una di queste, l'Isola di Veglia,  M. Bartoli scovò, è il caso di dirlo, l'ultimo parlante, certo Tuone Udaina, Antonio Udina, che si spense nel 1896.

 

 

 

1.4.3.  I fenomeni demografici dei secoli XIV-XVII.

 

 

Non fu solo la grande potenza espansiva del Veneto a provocare la decadenza delle parlate istriote e dalmate.

Infatti nell'ampio arco di tempo che va dal XIV al XVII secolo intervennero una serie di cause concomitanti che stravolsero radicalmente l'assetto etnico delle due regioni. Tra queste, la più importante va ricercata nelle depressioni demografiche, causate dalle guerre, dalle carestie ricorrenti e dalle serie cicliche di pestilenze che portavano all'abbandono di interi villaggi e al decadimento della campagna.

I campi un tempo coltivati si ricoprirono di rovi o si trasformarono in paludi, favorendo lo sviluppo della malaria, che in alcune zone come l'Agro Polese divenne un male endemico. Un viaggiatore veneziano del XVII secolo fu profondamente impressionato dallo stato di abbandono e dall'atmosfera di morte che aleggiava sulla Polesana da definirla “paese horrido et inculto” (M.Bertosa 1976-1977 VII: 144).

In Dalmazia oltre la peste fu particolarmente funesto il flagello della guerra fra la Serenissima e l'Impero Ottomano: la ripresa dell'espansione turca nei Balcani e nel Mediterraneo fece affluire popolazioni cipriote, greche, albanesi, morlacche ormai croatizzate, serbo-montenegrine, bosniache e croate parte sulle sponde dalmate([9]), dove si rafforzò l'etnia slava, parte nell'Istria Veneta e nei domini imperiali degli Absburgo.

Il costante pericolo turco causò la simbiosi di tante etnie diverse, ma allo stesso tempo unite sotto gli stendardi della città marciana, contro il comune nemico.

Affinché possa aversi un quadro alquanto esauriente di queste massicce migrazioni, si riporta nell' allegato 2 lo schema riassuntivo che M. Jakov pose a conclusione del suo Le guerre veneto-turche del XVII secolo in Dalmazia.

Il Senato veneziano e il Magistrato Sopra i Beni Inculti, carica istituita nel 1562, cercarono di convogliare una parte di queste popolazioni allo sbando nelle campagne circostanti Parenzo e Pola con il duplice scopo di ripopolare la regione e di rinvigorire l'agricoltura in aree depresse e, al tempo stesso, impedire che i profughi costituissero fonte di turbativa e di sedizione nei territori della Dominante([10]).

I tentativi di colonizzazione dell'Istria Veneta non furono pacifici, ma al contrario aprirono una serie di conflitti fra gli habitanti novi e le genti locali che mal s'adattavano a convivere con questi popoli dalla lingua, tradizione e, talvolta, religione diversa (M. Bertosa 1976-77 VII:147).

I nuovi insediamenti erano inoltre resi aleatori dal fatto che le autorità veneziane assegnarono ai nuovi venuti terre improduttive o non coltivate da anni e questo, in ragione dei loro scarsi mezzi, anziché favorire l'agricoltura finiva per danneggiarla, poiché parte delle popolazioni balcaniche trapiantate, poco atte alle fatiche della vita contadina, preferirono dedicarsi alla pastorizia e al nomadismo.

Questa situazione di profondo disagio in cui si trovarono a vivere gli habitanti novi, unita alla loro indole anarcoide e refrattaria ad ogni autorità costituita che non fosse la famiglia o il clan, provocò gravi e sanguinosi episodi di banditismo e di violenza di cui fecero le spese i locali.

L'ostilità degli istriani e soprattutto dei polesi, poiché nel contado di Pola vi furono insediamenti molto consistenti, era suscitata proprio dalla distribuzione delle campagne circostanti abbandonate, come detto, a partire dal XIV secolo (M. Bertosa 1979-80 X:192). Queste, pur essendo comunali, erano di fatto detenute dalla nobiltà cittadina che le affittava a gruppi di pastori i quali stagionalmente vi portavano il loro bestiame.

Venendo meno questa forma di guadagno, è chiaro che aumentò la conflittualità con i nuovi venuti, osteggiati come intrusi che usurpavano o limitavano diritti ormai acquisiti.

Di questa situazione fecero le spese anche i coloni italiani durante il loro tentativo di ripopolamento della campagna polesana.

Nella seconda metà del XVI secolo la Serenissima, nel tentativo di non privilegiare unicamente nuovi insediamenti slavi, ma di incentivare anche quelli italiani, dispose che si stabilisse nel contado di Pola una colonia di agricoltori bolognesi e che fossero dotati di particolari esenzioni fiscali.

Il tentativo ebbe però vita breve perché le tensioni accumulate fra i due gruppi sfociarono in atti di intimidazione: i polesi rifiutarono di vendere derrate, se non a prezzi esorbitanti, ai nuovi venuti; da lì a poco gli autoctoni iniziarono a compiere veri e propri atti criminosi contro i coloni bolognesi che, compresero, in un tragico crescendo, la distruzione dei raccolti, l'uccisione del bestiame, gli incendi delle cascine e gli omicidi.

Questo non fu l'unico tentativo di insediamento di italiani in Istria, ve ne furono altri, soprattutto friulani e veneti nella parte centro-settentrionale della penisola, ma si trattò di esperimenti sporadici che ebbero alterna fortuna.

La fortuna e i fallimenti delle colonie ci portano inevitabilmente a tracciare alcune considerazioni su come l'etnia slava uscisse rafforzata soprattutto nelle campagne.

In primo luogo l'immigrazione slava fu numericamente più consistente di tutte le altre, compresa quella italiana; ma a prescindere da questo, facendo un particolare raffronto fra i due gruppi etnici, si può affermare che essi non partissero da posizioni paritarie.

I gruppi di coloni italiani non erano equilibrati: gli uomini erano in numero superiore alle donne e ciò significa che accanto ai nuclei familiari c'era un gran numero di braccianti celibi che con molta difficoltà avrebbero potuto accasarsi con le donne del luogo.

Più stabili ed organizzati apparivano i gruppi slavi, inquadrati in famiglie numerose dove molto forte era l'autorità del pater familias.

Oltre a questo, le stesse condizioni delle campagne assegnate, come si è visto, non consentivano un rapido sfruttamento, anzi presupponevano un lungo periodo di preparazione, affinché potessero esservi dei raccolti sufficienti all'economia dei coloni. In quel lasso di tempo essi dovevano attingere ai propri risparmi per far fronte a qualunque imprevisto sfavorevole come una grandinata o la moria del bestiame, che potevano compromettere l'esito dell'insediamento.

Molto diversa era la situazione dei coloni slavi per i quali l'agricoltura non rivestiva il ruolo di un'attività primaria, ma solo complementare. Infatti i nuclei slavi, provenienti dai Balcani, portarono con loro la pastorizia che praticavano da innumerevoli generazioni.

Infine non bisogna dimenticare anche il diverso approccio psicologico alla nuova realtà: gli italiani dimostrarono nel complesso una scarsa adattabilità in una situazione difficile in partenza e via via sempre più complicata; al contrario gli slavi, temprati nel disagio di affrontare realtà molto sfavorevoli, finirono per restare e consolidare i loro insediamenti.

Questo stato di cose finì per delineare un nuovo quadro etnico in Istria dove si stabilì una netta e profonda divisione fra la città sempre più veneziana, e da lì a qualche secolo italiana, e la campagna sempre più slava.

 

 

 

1.4.4.  Il Veneziano lingua di koinè.

 

 

Alla luce degli avvenimenti citati si presenta nell'area istro-quarnerina e dalmata una realtà eterogenea e complessa, frutto di incroci e sovrapposizioni di etnie e di lingue.

Fu allora che il veneziano assunse la funzione di koinè, in grado di mettere in comunicazione elementi provenienti da mondi lontani e diversissimi.

Schematizzando questa situazione:

 

c)

ISTRIA

Veneziano  :

lingua di koinè, estesa ad un numero di parlanti assai vasto, che metteva in comunicazione soggetti appartenenti ad etnie diverse;

Istrioto   :

parlata locale usata dai ceti più bassi e    

mantenutasi solo in alcune cittadine dell'Istria meridionale;

 

 

Sl./Cr.    :

lingue delle genti di origine slava, che per il secolare influsso di Venezia erano in massima parte bilingui, o di recente insediamento e che per intendersi con comunità di etnie diverse usavano il veneziano come lingua veicolare;

c)

DALMAZIA

Veneziano  :

lingua di koinè;

 

Dalmatico  :

lingua in graduale dissolvenza, emarginata in aree periferiche;

Croato     :

lingua delle genti di origine slava o slavizzate in gran parte bilingui, se risiedevano nelle città dalmate

 

Possiamo ipotizzare che accanto alla variante del veneziano, lingua della burocrazia in seguito soppiantata dall'italiano, si presentasse un registro semplificato, parlato dagli strati più bassi neolatini e slavi, forse da quest'ultimi in una forma ancor più elementare, e fu questo ad avere il valore di lingua comune. A questo riguardo è molto interessante  una relazione sulla lingua e i costumi in Dalmazia, presentata nel 1533 dal magistrato Giambattista Giustiniani al Senato della Serenissima; essa ci fornisce un quadro etnico e linguistico assai accurato:

 

"(a Lesina) i costumi (...) sono assai simili agli Italiani, et di gran lunga più, che non sono quelli dell'altre città di Dalmazia, perché oltre che molti degli uomini et delle donne massimamente le nobili vestono abiti italiani, gli uomini universalmente parlano lingua franca speditamente, dimostrano in sì bona civiltà, il che credo avenghi dalla continua pratica di forestieri, li quali fanno scala con i loro navilii con li quali navigano in levante et in ponente; il perché quasi tutto il tempo dell'anno vi fà scalo in questo luogo l'armata veneziana, non v'è meraviglia, se praticandovi capitani, generali, proveditori, capitani di colfo, sopracomiti et tanta nobiltà Veneziana, soldati di diverse nazioni, che sono sopra le galìe et altri, questa città sia fatta civile; (a Zara) sono di questi nobili molti poverissimi, i costumi dei quali sono quasi italiani, perché la maggior parte de nobili vive, favella et veste all'usanza di Italia, il che forse avviene per la frequenza di forestieri, nobili veneziani, generali (...) et altri che vi praticano continuamente. Li popolari veramente se ben hanno quasi tutti la lingua franca vivono all'usanza schiava tutti e questi (...) vivono di qualche poca intrada ma per lo più di trafichi et arti.

(A Sebenico) i costumi degli abiti, il parlare et le pratiche sono tutti all'usanza schiava e vien, che quasi tutti hanno anco la lingua franca et qualche gentiluomo veste all'italiana, ma sono rari. Le donne tutte vestono alla schiava e quasi niuna sà parlare franco.

(A Traù) gli abitanti vivono con costumi schiavi. E' vero che alcuni di questi usa abiti Italiani ma rari, hanno ben tutti la lingua franca, ma nelle loro case loro parlano lingua schiava, per rispetto delle donne, perché poche d'esse intendono lingua italiana et si ben qualcuna l'intende non vuol parlare se non la lingua materna.

(I costumi spalatini) sono tutti all'usanza schiava (...). E' ben vero, che i cittadini tutti parlano lingua franca, et alcuni vestono all'italiana, ma le donne non favellano se non nella loro lingua materna, benché alcune delle nobili vestono secondo l'usanza italiana" (M. Bartoli 1906 I:204-207).

 

La relazione di G.B. Giustiniani pone un paio di elementi su cui è doveroso  soffermarsi; in primo luogo nel brano citato si parla più volte di lingua franca e di italiano senza riuscire a definire se si riferisca ad un registro veneto, più o meno complesso a seconda del livello di cultura del parlante, quindi alla lingua di koinè di cui all'inizio del paragrafo, o ad un italiano a base toscana, ben diffuso già allora nelle sponde dalmate.

Anche se il Magistrato veneziano non è chiaro, possiamo ragionevolmente pensare ad una parlata veneziana, locale, instabile e semplificata nella sua struttura grammaticale, contrapposta alla lingua slava([11]) e permeabile alla penetrazione di elementi dialettali di altre regioni italiane.

Risentendo del particolarismo proprio del mondo dalmata, per cui ogni città presentava una realtà etnico-linguistica diversa, questa lingua non aveva caratteri uniformi e si diffondeva in modo più esteso laddove i contatti col mondo italiano erano stati più profondi e duraturi.

Inoltre, dati i reperti molto frammentari, possiamo  fornire un quadro parziale, limitato in alcuni periodi storici e inerente solo alcune città, ad esempio Ragusa, grazie ad un'altra relazione, questa volta anonima, del 1555: "(i Ragusei) parlano etiam la lingua italiana con vocaboli corrotti; perciochè parte usano puri vocaboli toscani, parte puri Venetiani antiqui, parte Lombardi et parte Pujesi” (1878:73-74)([12]).

Esisteva dunque una lingua in formazione che avrebbe potuto sedimentarsi e stabilizzarsi nel corso del tempo se la Dalmazia non fosse stata interessata dai ripetuti mutamenti etnici durante i secoli XVI-XVII, di cui abbiamo avuto occasione di parlare.

Il secondo punto che ci permette di definire la nuova realtà linguistica dalmata è che nella relazione giustinianea si proponga la distinzione uomini italofoni, o bilingui, con le donne slavofone, evidenziando come le città dalmate abbiano perso l'identità prevalentemente latina del Medioevo e ne presentino un'altra, frutto dell'afflusso di nuove genti e dei numerosi matrimoni misti.

Essendo accresciuto notevolmente il numero degli slavi nelle città dalmate, non era assai infrequente il caso in cui i dalmati italofoni sposassero delle donne slave; i figli apprendevano dalla madre la lingua slava, che diventava la lingua del focolare, o lingua familiare, mentre dal padre imparavano la lingua franca necessaria nella vita pubblica e nel lavoro: "(...) usano le donne la lingua schiavona (...) ma gli huomini et questa et la italiana. La loro lingua natia è schiava, con la quale parlano gli altri Dalmatini (...)" (M. Metzeltin 1992: 321).

Mentre in Dalmazia si affermava la presenza e la compenetrazione di due anime differenti, in Istria si ebbe una situazione diversa, presentandosi due mondi distinti per etnia, lingua, tradizione, confinati in due ambienti opposti, quello cittadino e quello rurale. Il primo, centro primario dell'economia della penisola, divenne espressione di una borghesia italiana medio-alta, che si richiamava ai valori e alle tradizioni di Venezia. Per contro, nel contado circostante, attraversata una zona mista, vi era il mondo rurale arcaico, prevalentemente slavofono dopo i recenti insediamenti di coloni slavi.

La funzione nobilitante della città costituiva un irresistibile richiamo per molti latifondisti istriani e per i piccoli armatori quarnerini così da farli inurbare nelle città vicine o, in taluni casi, da farli trasferire a Venezia o a Trieste.

La forza attrattiva della città fu un fenomeno sociale ed economico che si mantenne vivo fino ai primi anni del nostro secolo; per il maggiorente slavo inurbarsi significava confermare o migliorare il proprio status sociale e questo, di conseguenza, comportava una scelta anche linguistica, optando per il veneziano e relegando ad un ruolo di lingua secondaria lo slavo. Allo stesso modo le nuove generazioni accoglievano il registro veneziano e lo sentivano come proprio, anche se, in taluni casi mantenevano ancora l'uso del croato.

Il veneziano, pur mantenendosi molto vitale nelle città, vide scemare a partire dal XVIII secolo la sua forza espansiva nelle campagne, quando i gruppi slavi, stabilizzati e consolidati dopo le emigrazioni dei secoli precedenti, conservarono la propria lealtà linguistica e con essa l'identità etnica. Questo non significa che la lingua della Dominante non fosse conosciuta nei borghi rurali, ma che era accolta come “lingua del pane”, usata nei mercati cittadini e nei rapporti con le autorità veneziane, mentre lo slavo rimaneva e continuava a rimanere la lingua della vita di tutti i giorni.

Se può apparire prematuro parlare di nascita delle coscienze nazionali, è altresì indubitabile che proprio da questa contrapposizione cominciano a delinearsi due entità ed a germinare il 'sentimento' di riconoscersi in un'etnia più che in un'altra, preludio di un lealismo nazionale che si formerà a partire dalla metà del XIX secolo.

Questo processo subì una rapida accelerazione dopo il crollo della Serenissima, quando con la pace di Campoformido e dopo il turbine napoleonico, Venezia fu inglobata con i suoi possedimenti nell'Impero Absburgico.

Il venire meno dello Stato e delle istituzioni che per tanti secoli avevano amalgamato popoli diversi, non fece altro che aprire le porte ad una serie di aspirazioni, rivendicazioni e malcontenti che caratterizzarono la storia ottocentesca dell'Istria e della Dalmazia.

Venezia vide declinare il proprio prestigio marittimo ed imprenditoriale a scapito di un'altra città portuale in ascesa, Trieste, che da borgo di salinatori e pescatori era divenuta il porto più importante dell'Adriatico da quando Maria Teresa, imperatrice d'Austria, l’ aveva eletto porto franco e dotato di particolari agevolazioni fiscali.

La contrapposizione fra Venezia e Trieste nel XIX secolo trovò un'interessante definizione nelle Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, in cui la città di San Marco è definita "una locanda" e quella di San Giusto "una bottega".

La sostituzione del centro politico-economico comportò anche il cambio del centro culturale e di conseguenza linguistico.

Trieste, in cui in origine si parlava un dialetto di matrice friulana, era ormai ampiamente venezianizzata già agli inizi del XIX secolo e divenne in breve il nuovo centro di irradiazione linguistica della lingua veneta per le città istriane e dalmate, poiché esse non riuscirono a dar vita ad un centro-guida autoctono.

 

 

 

1.5.1.  L'introduzione della lingua italiana

 

 

Con la forza dell'autorità dei grandi scrittori la lingua italiana iniziò ben presto a diffondersi nel mondo veneto.

Già nel '500 i documenti vennero redatti in italiano, pur continuando a presentare tratti dialettali locali (F. Crevatin 1975b).

L'italiano a base toscana si inserì come registro di comunicazione elevato, diffuso dalle accademie e dagli uomini di cultura istriani e dalmati. Proprio a prova del crescente prestigio dell'italiano, molti letterati dalmati si cimentarono a scrivere in quest'idioma opere di vario genere.

In particolare ricordiamo Ruggero Boscovich (Ruder Boskovic 1711-1787), scienziato, studioso di astronomia e ottica, uno dei fondatori dell'osservatorio astronomico di Brera e brillante poligrafo, ottenne lustro in tutta Europa, il filosofo Nicola Nale (Nikola Naljeskovic, vissuto nel XVI secolo) autore del Dialogo sopra le sfere del mondo (Venezia 1579), Giacomo Luccari (1551-1615), autore di una Storia di sua patria (Venezia 1605).

Un'esperienza condotta sul versante opposto fu quella del gesuita foggiano Ardelio Della Bella che, oltre ad essere animato da un profondo fervore pastorale, fu prezioso custode del patrimonio culturale croato della Dalmazia, compilando il Dizionario italiano, latino, illirico (Venezia 1728), un grande esempio di simbiosi fra la cultura italiana e quella croata (M. Culic Dalbello 1992).

L'attestazione dell'italiano complicò, se possibile, il quadro linguistico dell'area istro-quarnerina e dalmata che si potrebbe riassumere in questo modo:

 

d)

ISTRIA

Italiano        :

lingua di cultura, registro delle classi più elevate;

Veneziano       :

lingua di koinè propria dell'etnia italiana e di quella slava;

Istrioto        :

parlata locale, sopravvissuta in alcune città nell'area sud-occidentale della penisola

Sl./Cr.         :

registro delle genti slave che, come abbiamo avuto modo di rimarcare, erano in gran parte bilingui

 

 

d)

DALMAZIA

Italiano        :

lingua di cultura, diffuso dalle scuole, propria delle classi più elevate;

Veneziano       :

lingua di koinè propria non solo dell'etnia italiana e di quella slava, ma anche delle molteplici etnie che si erano stanziate lungo il litorale;

(Dalmatico)     :

lingua ormai in dissolvenza, parlata in aree marginali

Croato          :

registro proprio degli slavi autoctoni, che possedevano in gran parte  anche   il  veneziano.

 

L'italiano si affermò come registro superiore ma di portata limitata in alcuni ambienti sociali e con scarsa capacità penetrativa; per i venetofoni dei ceti più bassi era simbolo di provenienza straniera, di agiatezza e, nel peggiore dei casi, quando chi si sforzava a parlare italiano era un dialettofono, era indice di affettazione e di slealtà linguistica.

Così se l'italiano riuscì ad ottenere il primato letterario e diventare il registro alto, il veneziano conservò inalterata la sua autorità come koinè provinciale, come già esaminato nel paragrafo precedente.

Quando Venezia e i suoi domini entrarono a far parte dell'Impero Absburgico, la diffusione dell'italiano non fu inizialmente osteggiata, ma al contrario consentita e, se possibile, favorita.

Nei centri più importanti dell'Istria, a Fiume e in Dalmazia sorsero numerose scuole italiane e la lingua italiana divenne la lingua dell'amministrazione accanto al tedesco.

La Marina austriaca, che assorbì le navi e la tradizione marinara di Venezia, adottò come lingua di comando e di servizio l'italiano, in quanto gli equipaggi erano composti da triestini, istriani, fiumani e dalmati, che per la maggior parte non intendevano il tedesco. Gli stessi ufficiali erano per lo più di origine italiana ed anche a loro era consentito l'uso dell'italiano, anche se obbligatoriamente dovevano conoscere il tedesco.

La situazione mutò dopo la vicenda della cospirazione dei fratelli Bandiera e le vicende politiche degli anni 1848-49. La sede della Marina da guerra austriaca fu trasferita da Venezia a Pola e il tedesco soppiantò l'italiano come lingua di servizio e di comando.

Il diverso atteggiamento delle autorità imperiali, tuttavia, non sancì la scomparsa dell'italiano come lingua marinara, sia perché parte degli equipaggi continuò ad essere italofona/venetofona, sia perché gli ufficiali compivano i loro studi alle accademie nautiche di Trieste, Fiume, Lussinpiccolo, Ragusa e Cattaro dove la lingua di insegnamento continuava ad essere l'italiano anche per chi appartenesse ad un'etnia diversa.

Metzeltin (1992: 330) fornisce un interessante testimonianza dell'uso e del tentativo di impadronirsi dell'italiano a bordo delle navi austriache, presentando una pagina del diario di un battelliere di terza classe, il vegliotto Dominik Codanich, probabilmente venetofono, che cerca di uniformare i suoi scritti in lingua più o meno italiana:

"Lunedì 27. All' levar dell' Sole il cielo nuvolato il vento favorise sempre più, alle ore Nove a.m. in vista un Brik a palo senza saper che nazion fose alle ore dieci e meza si fece i picoli cortelazini: alle ore una p.m. abiamo fato il cortelazo di Parochetto alle ore tre p.m. cominziò il vento a scarsegiar e si rientra il velacio e si seghue coi picoli".

Le restrizioni del governo di Vienna non si arrestarono alle nuove disposizioni inerenti alla Marina. Infatti, per contrastare il nascente sentimento nazionale italiano, l'Impero soppresse gran parte delle scuole italiane, in particolar modo, in Dalmazia, assestando così un duro colpo all'etnia italiana; analoghi provvedimenti furono presi per i giornali e per le sedi ricreative o i circoli culturali sospettati di irredentismo. Per contro si cercava di privilegiare l'elemento croato, facendo leva sulla nascente borghesia slava e sul clero. Quest'ultimo, apertamente schierato, dopo la crisi romana e la presa di Roma del 1870, non esitava a bollare gli italiani come atei e scismatici.

Ma al di là di questi episodi, apparentemente folcloristici ma in realtà forieri di futuri conflitti distruttivi, occorre sottolineare che, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, le due etnie vennero ad una rotta di collisione in seguito alla nascita del movimento irredentista italiano e del nazionalismo slavo.

La politica dei due pesi e delle due misure dell'Austria trovava spiegazione proprio nei programmi massimi di questi due movimenti.

Gli irredentisti italiani desideravano potersi riunire in un'unica grande patria e di essere quindi redenti e liberati dall'opprimente dominio austriaco. Per l'irredentismo italiano non c'era molto spazio per l'etnia slava, considerata popolo senza storia e quindi facilmente assimilabile. Anche per quanto riguardava i territori da unire politicamente alla penisola era tutto nell'aleatorio e nell'indefinito.

Il nazionalismo croato-sloveno era espressione, almeno all'inizio, di lealismo verso l'autorità austriaca. Il grande obiettivo non era quello di formare un'entità statale indipendente, ma di ottenere dall'Impero  un’apertura identica a quella che era stata fatta ai magiari.

 

 

 

1.5.2.  La politica linguistica del fascismo.

 

 

La fine del primo conflitto mondiale e i successivi trattati di pace del 1919 a Versailles e del 1924 a Rapallo modificarono i confini dell'Italia. In particolare, ad oriente furono annesse l'Istria insieme alle principali isole quarnerine, ad eccezione di Veglia, Fiume, Zara e le isole di Lagosta e Pelagosa.

Per evidenziare l'entità della popolazione italiana nei territori annessi dopo il trattato di Rapallo, riportiamo fuori testo tre cartine etnografiche che riferiscono in proporzione gli esiti dei censimenti del 1900 e del 1910, fatti sotto l'amministrazione austriaca e quello del 1921 sotto quella del Regno d'Italia.

Nell'allegato 3 sono esposte due cartine etnografiche più particolareggiate, relative ai già citati censimenti del 1900 e del 1910 e che comprendono Cherso, Lussino e Zara.

Le aspettative italiane furono però ampiamente deluse, poiché furono disattese le condizioni del Trattato di Londra del 1915, determinanti per l'intervento italiano a fianco dell'Intesa. In particolare si prevedeva, nel caso di sconfitta dell'Impero Austro-Ungarico, la cessione da parte di quest'ultimo di un'ampia fascia costiera della Dalmazia all'Italia.

L'avvento del fascismo da lì a poco alterò profondamente gli equilibri etnici e linguistici nelle terre da poco riguadagnate alla madrepatria.

Il fascismo volle riservare un trattamento particolare, se così si può dire, all'elemento slavo, inviso perché considerato austriacante, perché fra di esso avevano attecchito profondamente le teorie marxiste e perché centinaia di migliaia di alloglotti sloveni e croati rifiutavano di italianizzarsi ex abrupto. Per dare un'idea di come il fascismo considerasse il problema slavo e intendesse risolverlo, ecco alcuni stralci di due articoli apparsi nel 1927 sul numero 9 di Gerarchia, una rivista politico-culturale del regime:

"Un problema allogeno slavo (...) non esiste nella Venezia Giulia. Esiste invece un problema di penetrazione italiana e fascista, c'è la necessità di affermare in pieno l'autorità dello stato che ha un peso determinante in tutto ciò che è espressione del sentimento degli slavi. Tale problema è in prima linea di differenziazione fra fedeli ed infedeli, riveste in alcuni casi, quando gli infedeli siano irriducibili, le caratteristiche di un problema di polizia.

Solo il fascismo dopo la redenzione, ha saputo affermare in pieno in queste terre l'autorità dello stato. La Venezia Giulia, sia nello spirito degli italiani obbedienti per volontà alle leggi, sia nello spirito degli slavi, ossequienti per attitudine mentale, si trova nello stato fascista in perfetta linea. Occorre però (...) eliminare dalla vita pubblica nei singoli centri gli agitatori slavi i cui interessi personali sono legati al perpetuo mantenimento di uno stato di irrequietudine artificiosa e di avversione perpetua.

Bisogna impedire agli avvocati slavi che sono pericolosi, la libera attività, a fianco della loro professione, di quella spicciola propaganda che raccoglie proseliti e nutre illusioni.

Bisogna togliere i maestri slavi dalle scuole, i preti slavi dalle parrocchie. Così facendo il fascismo risolve in pieno la questione degli alloglotti in Italia (...)" (G. Cobol: 805).

 

"(...) gli allogeni, ovverossia gli slavi della Venezia Giulia non hanno quella importanza politica, intesa questa parola nel senso più vasto, che molti, troppi loro attribuiscono" (G. Bombig: 807).

Il regime costrinse all'emigrazione, alla prigionia e al confino chi non si assoggettava alle condizioni dello stato totalitario: la borghesia slava fu allontanata e così pure molti sacerdoti slavi, tradizionalmente nazionalisti. I maestri furono messi di fronte ad un aut aut: o emigravano nella neocostituita Jugoslavia o erano licenziati e sostituiti con maestri provenienti dal Regno.

Analoga durezza fu usata contro i centri culturali sloveni e croati, che furono distrutti o chiusi; le scuole slave furono nella quasi totalità trasformate in italiane. Nel 1920 l'Hotel Balkan, centro cruciale dell'antifascismo sloveno a Trieste, fu saccheggiato e dato alle fiamme da un assalto squadrista([13]). Nel 1928, sempre nella città di San Giusto, fu sciolta la società di mutuo soccorso Edinost, sede di un giornale in lingua slovena.

Questo atteggiamento di intolleranza provocò un perdurante clima di tensione fra l'Italia e il Regno degli Sloveni, dei Serbi e dei Croati che produsse una sequenza di ritorsioni reciproche: centinaia di italiani originari di Sebenico, Spalato, Ragusa e altri centri minori della Dalmazia furono costretti ad abbandonare le loro sedi e trasferirsi in Italia o a Zara, che come ricordiamo faceva parte del territorio metropolitano italiano.

Questo fatto, che può sembrare secondario, è in realtà molto importante poiché impoverì ancor più la comunità dalmata extra confine.

Il fascismo non si limitò a questo: venne perseguita una politica discriminatoria verso la lingua slovena e croata, proibendone l'uso non solo negli uffici, nei tribunali, nella redazione degli atti notarili, ma anche negli stessi locali di ritrovo come caffè, cantine e taverne, pena multe assai onerose o, quel che era peggio, aggressioni fisiche da parte delle squadre fasciste.

L'attività snazionalizzante si rivolse anche ai cognomi e ai nomi di battesimo degli allogeni, indici probanti, così almeno si riteneva, di un'italianità mortificata.

A questo proposito si istituirono numerose commissioni preposte a riportare i cognomi, di cui si presumeva un'origine italiana, in una forma 'latina', abolendo il patronimico slavo -ich  o -ic. In modo analogo si operò nei cognomi di chiara e schietta origine slava, dando loro una patina di italianità con l'abolire le consonanti finali.

I cambi, che venivano caldamente consigliati dalle autorità del regime([14]), erano aberranti e venivano attuati con molta approssimazione, così poteva accadere, per  esempio, che il cognome Claucig fosse tradotto Sentieri o ridotto in Claucis e Clari (P. Parovel 1985:86), oppure che i membri di una medesima famiglia si ritrovassero con cognomi diversi ([15]).

Il medesimo metodo fu applicato nell'ambito della toponomastica per portare a termine con la redenzione politica anche quella linguistica. Dove esisteva la doppia forma del toponimo si manteneva unicamente quella italiana, mentre nel caso di toponimi slavi se ne faceva una traduzione non sempre fedele, e solo in casi del tutto sporadici si mantenevano le due denominazioni per abituare le popolazioni alloglotte al nuovo toponimo italiano.

Anche in questo caso vi furono delle storture: Rakitovec o Rachitovich, una località dell'Istria interna, fu mutata in Acquaviva dei Vena, poiché si pensava, in modo non molto logico, che il toponimo slavo fosse riconducibile a rakijaacquavite” (M. Dassovich 1989: 245), che con l''acquaviva' non aveva nulla da spartire, mentre in realtà derivava da rakitasalice” e quindi il toponimo avrebbe dovuto essere Saliceto dei Vena; Knezak piccolo borgo facente parte della provincia di Fiume, divenne Fontana del Conte anche se per P. Santarcangeli (1969: 219) "a memoria d'uomo non v'erano stati né fontana, né conte"; Zadlac Zabce, località slovena vicino a Tolmino, si ribattezzò in Villa Grotta di Dante, perché si credeva che vi avesse trovato rifugio il poeta (L. Cermelj 1974: 140).

La politica totalizzante del fascismo si rivolse anche ai dialetti italiani nella fattispecie a quelli parlati in Istria, a Fiume e in Dalmazia. In questo senso vi fu un duplice atteggiamento da parte dell'autorità: in taluni casi essi venivano ritenuti una forma genuina di espressione di italianità e se ne tollerava l'uso, basti pensare che venivano composte molte poesie in vernacolo in onore di  Mussolini e della sua politica.

Il cambio di rotta nei confronti del dialetto vi fu intorno agli anni Trenta, quando nelle prime classi della scuola elementare fu abolito l'uso del dialetto come tramite per l'insegnamento della lingua nazionale.

L'uso delle parlate vernacole venne sconsigliato vivamente e si dette il via ad uno sforzo per italianizzare tutti e comunque; il programma fin dall'inizio si presentava di non facile attuazione poiché parte della popolazione era analfabeta  e non riusciva ad impadronirsi di un dominio che non avvertiva proprio e lo considerava alla stregua di una lingua straniera([16]).

Nonostante questo il regime organizzò a più riprese corsi serali di cultura e lingua italiana per eliminare l'analfabetismo e italianizzare i dialettofoni e gli alloglotti, e il massimo impegno fu dimostrato durante la politica di rivendicazioni imperiali dell'Italia. Secondo la logica fascista l'antinomia lingua nazionale/dialetto aveva delle motivazioni storiche e delle valenze politiche molto forti sul modo di presentare l'Italia al consesso mondiale: l'italiano si proponeva come lingua dello stato-nazione, e, in secondo tempo, del nuovo Impero, mentre il dialetto oltre a rappresentare un registro basso, dalla portata assai limitata in ambito cittadino o regionale, richiamava alla memoria storica un passato di particolarismi locali di cui lo stato etico si considerava il superamento.



([1])Aquileia era anche il punto di partenza di due importanti direttrici che conducevano a Bisanzio via terra: la prima raggiungeva Emona (Lubiana), Siscia, Sirmium, Singidunum (Belgrado), Serdica (Sofia), Philippopolis (Plovdiv), Hadrianopolis; La seconda oltre Emona passava per Poetovio (Ptuj), Savaria, Scarbantia e Carnuntum sulle riva destra del Danubio e da lì, dopo aver raggiunto alle foci il Mar Nero, si giungeva a Bisanzio (G.B. Pellegrini 1992:17-18).

([2])Si ricordi fra tutti Justinopolis, nome dato a Capodistria a partire dal 565 d.C. in onore dell’Imperatore Giiustino; forse il nome Romania, un quartiere di Trieste (< Pvmania), attestante un insediamento militare greco, e forse il toponimo Lauria, presso la Pieve di Cruscizza (< lauria gr.biz. ‘cella di monaco’), attestato in una corografia del 1694 e portato all’attenzione degli studiosi da Mario Doria. Il toponimo avrebbe una corrispondenza con il paesino Lauria in Provincia di Potenza.

([3])Gli studiosi della scuola jugoslava (Deanovic, Tekavcic) che trae i suoi spunti da P.Skok, pur rivedendo in parte le teorie del loro maestro sono propensi a ritenere le parlate istriote non inquadrabili nel sistema dialettale italiano, ma un fenomeno a sè stante e assoluto nel panorama romanzo, al pari del sardo o del dalmatico.

([4])La stessa sorte toccò anche alla Dalmazia e a Venezia che, per alcuni anni, fecero parte dell’Impero Carolingio e solo successivamente ritornarono sotto l’autorità bizantina.

([5]) Gli Avari (Obri) hanno lasciato traccia di sè in due toponimi, uno Obrov, Obrovo-Santa Maria, località fra Matteria e Castelnuovo d’Istria sulla strada Trieste-Fiume, l’altro Obrovac, Obrovazzo, sulle rive dello Zermagna in Dalmazia.

([6])L’etnico sembra essere di origine iranica Hrvatcroato<*(fsu)haurvata (iran.) ‘che custodisce il bestiame’ (R.Ambrosini 1882:221 e F. Conte 1991:324).

([7])Etimo di origine greca da Mauroblacoi= ‘Nigri Latini’ per l’incarnato olivastro della pelle o per i capelli scuri o per l’uso di abbigliarsi con abiti neri (T.Chiarioni 1985:112). Assai interessante è la descrizione dell’origine dei Morlacchi, fatta nella Descriptio Europae orientalis del 1308: “Notandum [est hic] quod inter machedoniam, achayam et thesalonicam est quidam populus ualde magnus et spaciosus qui uocantur blazi, qui et olim fuerunt romanorum pastores, ac in ungaria ubi erant pascua romanorum propter nuìimiam terre uiriditatem et fertilitatem olim morabantur. Sed tandem ab ungaris inde expulsi, ad partes illas fugierunt; habundat enim caseis optimis, lacte et carnibus super omnes nationes. Terram [enim] horum blachorum que est magna et opulenta exercitus domini karuli qui in partibus grecie moratur fere totam occupavit et ideo convertit se ad regnum Thesalonicense dietam cum regione circumadiacente".

([8])Gli ultimi resti delle parlate morlacche, inflenzate profondamente dal croato, si mantennero ancora nel secolo scorso nella contea di Poglizza e ne diamo testimonianza nell’incipit dell’Ave Maria: “Sora Maria, pliena de milosti, Domnul cu tire blagoslovit estu intre milierle...” (T.Chiarioni 1985:112).

([9])Fra i tanti profughi che nel corso dei secoli XV-XVII trovarono ricovero in Dalmazia, si ricordino gli ebrei sefarditi (ar. Sefarad = ‘Spagna’) che, espulsi nel 1493 da Ferdinando di Castiglia, furono accolti in parte a Ragusa e a Spalato, dove esiste ancor oggi una ulica Zudioska,via degli Ebrei’, e dove la comunità era chiamata ‘Cifuteria

([10])Di questi insediamenti forzosi fecero le spese le etnie numericamente più esigue come la greca e l’albanese, che finirono per essere gradualmente assorbite dai gruppi etnici dominanti. B.Biondelli (1856:63) accoglie l’osservazione del canonico Pietro Stancovich sulla conservazione di sparuti gruppi albanesi nel 1835 in “alcune poche o piccole villette nel territorio di Parenzo”.

Al contrario in Dalmazia le colonie albanesi poterono conservare la loro lingua e la loro etnia fino ai giorni nostri (C.Tagliavini 1937).

([11]) G.F. Folena chiama questa parlata Verkehrssprache (1990:252).

 

 

([12]) Da notare che la situazione composita che si presentava a Ragusa era determinata anche dai profondi legami, non solo economici, ma anche culturali, che in quel tempo manteneva con altre città italiane e, in particolar modo, con Firenze, Roma e Napoli.

([13])  L’assalto e la distruzione dell’Hotel Balkan a Trieste e la contemporanea distruzione del Narodni Dom a Pola sono episodi che danno una misura del crescente stato di esasperazione fra l’Italia e il Regno degli Sloveni, Serbi e Croati.

Essi avvennero il 13 luglio 1920 in risposta all’uccisione a Spalato del Comandante della nave da guerra Puglia, Tommaso Gulli, e del suo motorista, Rossi, avvenuta ad opera della gendarmeria slava.

([14]) Anche se il cambio dei cognomi non fu obbligatorio e molti mantennero il proprio patronimico in ich o nella forma tedesca o slava, è altrettanto vero che ci furono pressioni perché chi portava un cognome straniero regolarizzasse la sua posizione, assumendone uno italiano. D’altra parte questo metodo manicheo trovò ancor più assidui e pedanti seguaci fra i burocrati slavi del regime titoista, attenti ad eliminare ogni minimo segno di italianità, fosse un semplice cognome, un toponimo o un monumento.

([15]) Personalmente ho conosciuto a Monfalcone tre fratelli piranesi il cui cognome originario Kodric era stato tradotto Codri, Coderini e Ricci.

([16]) G.Klein (1984:12 e 15) presenta due grafici assai interessanti in cui risulta che nel 1921 la percentuale degli analfabeti in Italia era del 27,7 e dieci anni dopo scende a 21,1; inoltre nella regione Venezia Giulia-Zara nei due censimenti citati la percentuale degli analfabeti scende da 15,1 a 12,4.