INTERVISTA EFFETTUATA NEL GENNAIO 1995 CON FULVIO TOMIZZA, SCRITTORE E SAGGISTA.

 

D.: Professor Tomizza, le tumultuose vicende politiche recenti hanno portato alla dissoluzione della Federazione Jugoslava e alla creazione , fra le altre, delle Repubbliche indipendenti di Slovenia e Croazia; l'ulteriore frazionamento della comunità italiana potrebbe determinare nuove ripercussioni negative in una minoranza numericamente esigua come la nostra?

 

R.: Il problema importante è che l'Istria mantenga questa unità che, quasi per caso, si è miracolosamente creata, cioè che ci sia un maggior avvicinamento dei tre gruppi etnici che la compongono.

Se il gruppo italiano fa parte a sé, in questo caso allora si separa, fa capitolo a parte e quindi disturba la creazione di uno spirito comune, che avverte la riscoperta, la consapevolezza di appartenere ad una stessa cultura, ad un territorio unico, ad una stessa civiltà fatta di substrati di varie culture, che hanno avuto un indirizzo, una ricezione istriana.

Il dividersi delle comunità sarebbe nocivo di per sé; non posso non rendermi conto che questa comunità così piccola di ventimila persone si divida ulteriormente, magari per scelta politica.

Certo, ognuno deve avere la propria idea, però è fondamentale che gli istriani sentano di far parte di un organismo che li avvolge e li avvicina, perché anche loro stessi sono uniti per fatti di sangue, commistioni, sposalizi, parentele con i gruppi sloveni e croati.

Gli italiani dell'Istria devono essere i più forti sostenitori di questo avvicinamento che coinvolge l'Istria all'Italia, all'Occidente, all'Europa, proprio perché sono loro a detenere questa cultura più marcatamente veneta, o italiana, che favorisce questa presa di coscienza che, come dicevo all'inizio, non riguarda solo la comunità degli italiani, ma abbraccia anche le altre due etnie istriane.

 

 

D.: La Repubblica Jugoslava, pur fra mille incongruenze, cercò di proteggere e garantire i diritti dei suoi popoli, anche se si trattava di minoranze esigue come quella italiana, falcidiata dall'esodo post bellico, e, a questo riguardo, fece sì che le città dell'Istria costiera fossero bilingui.

Il problema è che adesso, nonostante gran parte della popolazione cittadina sia bilingue, l'italiano standard costituisce un canale di comunicazione poco praticato. In che modo, secondo lei, può aumentare i suoi canali di diffusione?

 

R.: E' avvenuto che in luoghi di pretta appartenenza all'Italia e di massiccia presenza italiana, come le città, si siano svuotate e, quindi, a questa popolazione autoctona ne sia subentrata un'altra croata o slovena.

Nelle campagne che erano più miste si era trasferito il senso di un'appartenenza veneta.

Per me non bisogna rispondere adesso, che la Jugoslavia non c'è più e quindi manca quell'amalgama, dettato forse anche da fatti ideologici, al nazionalismo croato o sloveno con un ulteriore nazionalismo, altrimenti si fa un gioco perverso e tutti sanno che questo non è utile a nessuno.

Io credo che questi istriani, che vivono in città e in campagna e che sono di matrice diversa e si sentono maggiormente italiani, devono tranquillamente, senza pressioni, coltivare le loro tradizioni, che molto spesso vanno a sfociare in quelle comuni delle altre etnie, e sviluppare questo senso di nazionalità non come una specie di provocazione, o di vanto, ma come un tesoro che appartiene anche agli altri.

E quindi ecco che gli altri istriani, sloveni e croati, sentiranno accrescere in loro quella semi-appartenenza, quei ricordi comuni di un passato che li voleva persone di frontiera, quindi persone bilingui, sposate ad altre culture.

Questo non vuol dire che occorre convertire gli slavi all'italianità, ma, semmai, in questa specie di convivenza, unire quanto più possibile ogni gruppo, non più come avveniva nel passato, con quella sfida, quella prosopopea o quel senso di inferiorità, che è la stessa cosa.

Auspico che si possa ritrovare un bagaglio di tradizioni e di istrianità che è utile a tutte e tre le etnie.