PER NON DIMENTICARE
Mario Dassovich cominciò la
sua attività di storico verso la fine degli anni ''60.
Scrisse qualche articolo sul suo
arresto e relativi motivi anche sulla "Voce di Fiume"; allora ai
primi numeri.
Ma già nel 1952 la
Rivista"Fiume" di Roma aveva pubblicato una quarantina di pagine di
quello che nel 1970
cominciava ad essere il contenuto
dello storico "Itinerario Fiumano".
Successivamente nel 1975 il
Libro, finito, uscì come Supplemento della stessa Rivista
"Fiume"
a cura di una Tipografia di
Pomezia vicino a Roma.
***
Nel volume "Itinerario Fiumano
1938-1949", Mario Dassovich, storico fiumano
- che pago' come molti altri
con il carcere titino la sua
reazione al nostro ingiusto destino - racconta quei tempi della pulizia
etnica con rara obiettività.
Per tramandare la nostra storia
ai più giovani e per dare una risposta a quanti si chiedono il perchè del
nostro Esodo,
ho copiato - rispettando la
più rigorosa fedeltà alle sue parole - alcuni passi di quel volume storico
.-
Ma ricordiamoci che di Dassovich
ce ne furono tanti tra i Fiumani perseguitati, arrestati, spariti o infoibati.
Nessuno di loro aveva tirato una
bomba, commesso un attentato o ferito uno jugoslavo.
Rudi
Decleva Marzo 2007
***
1) L'inizio della fine
ANAGRAFE MUNICIPALE (estratto da Pag.
90)
I primi anni del secolo ventesimo parvero confermare le
prospettive di una vita difficile per la municipalità fiumana, ma tutto sembrò
destinato a risolversi nel migliore dei modi nei giorni della dissoluzione
dell’Impero austro-ungarico, quando il Governatore ungherese cedette i propri
poteri al Podestà; si costituì così una Guardia civica e sorse un Comitato
cittadino che diventò poi “Consiglio Nazionale italiano di Fiume”.
E il Podestà, il 29 Ottobre di quel 1918, diffuse un
appello che annunciava il trionfo della libertà e la vittoria della democrazia.
Dal canto suo subito dopo il Consiglio Nazionale proclamò l’unione di Fiume
all’Italia, dichiarando di mettere il proprio “deciso” sotto la protezione
dell’America, madre di Libertà e della Democrazia universale.
A Zagabria, però, nello stesso periodo veniva proclamata
la costituzione di uno Stato Indipendente formato dalla Dalmazia e dalla
Croazia-Slavonia con Fiume.
E nella nostra città l’intervento dei soldati di una
formazione asburgica – il reggimento Jelacic’ – favorì l’insediamento dei
rappresentanti di Zagabria nel Palazzo del Governatore per una ventina di
giorni fino all’arrivo delle truppe italiane e di un reparto americano, nonché
successivamente di soldati inglesi e francesi.
Ci vollero altri cinque anni per tornare alla normalità:
si succedettero così l’intervento dei legionari dannunziani, l’elezione di un
nuovo Consiglio comunale, la costituzione di una Stato indipendente proclamato
“Reggenza italiana del Carnaro”, la capitolazione delle milizie legionarie,
l’elezione della Costituente di uno Stato Libero fiumano, un
assedio del Palazzo del Governo in cui era arroccato il
Capo dello Stato Libero Riccardo Zanella, la formazione di un Governo
Provvisorio, il conferimento del potere, quale Governatore, ad un Generale del
Regio Esercito.
Finchè - con un
Trattato del 1924 – la Jugoslavia accettò l’annessione di Fiume all’Italia.
2. L ' 8 Settembre 1943 RITORNO DALLA CROAZIA (estratto da Pag. 100)
L’annuncio dell’armistizio fu diffuso verso sera dalla
radio.
Osservammo con curiosità
- in quelle ore di attesa di importanti avvenimenti – un aereo che il 10
Settembre sorvolò per breve tempo Fiume
e Sussak, lanciando a varie riprese manifestini sulla nostra città e con
molta fatica riuscimmo a inpossessarci di uno di quei pezzi di carta, che era
scritto in croato.
Boris Ruzic ci aiutò più tardi: si parlava di Spalato,
Sebenico, Zara e Fiume come di tanti
pugnali avvelenati nel corpo della grande madre croata.
Tutte queste città stavano per essere riunite allo Stato
sorto a Zagabria nella primavera del 1941.
Che la Dalmazia fosse perduta pareva confermato dal
continuo passaggio di truppe da Sussak a Fiume: gli ufficiali superiori
sembravano scomparsi, i soldati attraversavano il ponte sull’Eneo stanchi,
sfiniti, coperti di polvere come se avessero dovuto compiere lunghe distanze a
piedi.
Parecchi giungevano disarmati. L’iniziativa di pretendere
la consegna di fucili, giberne e munizioni era venuta per lo più dai giovani e
dai ragazzi dei paesi croati a Est di Fiume e fra i nostri reparti, ormai allo
sbando, non c’era stata resistenza contro quelle richieste.
Oltre l’Eneo si venivano ricostituendo così – con gli
armamenti abbandonati dalle nostre truppe – le formazioni dei ribelli. La
guerriglia dei Balcani, che non era stata sommersa da due anni di
“rastrellamenti”, stava trasformandosi nell’insurrezione di intere regioni e il
momento della rivincita sembrava giunto anche per le popolazioni dei territori
confinanti con la nostra città.
. . . . . Dove si erano fermate le truppe tedesche? Fu
questa la domanda che ci sentimmo rivolgere più volte il pomeriggio del 14
Settembre 1943.
Il mattino seguente una serie di esplosioni ed una
prolungata sparatoria annunciarono
l’inizio dei combattimenti fra le truppe regolari tedesche e i ribelli
jugoslavi.
Alcuni aerei tedeschi con il contrassegno della croce
nera bombardarono vari centri di resistenza tra Sussak e Tersatto; un paio di
cannoni, piazzati dal Comando germanico nella parte alta della nostra città,
spararono ripetutamente sugli edifici situati oltre l’Eneo. Al pomeriggio gli
scontri si erano conclusi con l’occupazione tedesca della zona costiera a
oriente di Fiume.
Parecchi reparti del
nostro Esercito avevano previsto il peggio sin dall’arrivo degli ex
alleati e si erano rifugiati sulle colline circostanti la città: partendo da
quelle posizioni cominciarono ad attaccare le truppe di occupazione allorchè
ebbero inizio gli interventi repressivi decisi dal Comando tedesco.
Contro quei drappelli il Comando tedesco cominciò ad
utilizzare alcuni plotoni di Camicie Nere,
ricostituiti da alcuni giorni. Prima di essere avviati verso Mattuglie,
i Militi percorsero inquadrati le vie del centro; un ufficiale intonò un canto
del repertorio del ventennio e un po’ in sordina si udì la replica dei Militi.
Tra i volontari in Camicia nera riconoscemmo un compagno
di scuola, Luciano Bubbola, che ci fece un cenno di saluto e abbozzò un
sorriso; non lo rivedemmo più ma ritrovammo ad un certo momento il suo nome in
un lungo elenco di “dispersi”.
All’inizio di ottobre si cominciò a pensare che eravamo
diventati retrovia di un fronte ormai molto
distante dalla città.
3) Adriatisches Küstenland ORDINANZE PER IL
KÜSTENLAND (estratto da Pag. 108)
Timori ed apprensioni cominciarono quindi a prender
consistenza soltanto all’apparire delle prime Ordinanze delle nuove Autorità
militari.
Furono aggravate le disposizioni sul coprifuoco, in
vigore dalle 20 alle 6, e furono revocati tutti i permessi di circolazione di autovetture di qualsiasi tipo, e così pure la circolazione di biciclette
fuori dai confini periferici della città e fu imposto il lasciapassare per i
transiti diretti verso alcune località suburbane.
La pena capitale era prevista, tra l’altro, per attentati
alla vita degli appartenenti alle Forze Armate tedesche e ai posti di servizio
tedeschi, atti di violenza contro le Forze Armate tedesche ed i loro impianti e
stabilimenti, casi gravi di attività ostile al Reich e suo favoreggiamento,
sabotaggi economici, accaparramenti o commercio clandestino.
In determinate circostanze si prevedeva invece
l’internamento in altre località, l’invio in campi di concentramento senza
alcuna inchiesta, il trasferimento in Germania per prestare ivi servizio, o più
genericamente, nella traduzione italiana, le più tremende sanzioni.
Verso la metà di ottobre del 1943 si pensò che certe
imposizioni dei Comandi militari tedeschi fossero destinate ad essere mitigate
con l’instaurazione di un Supremo Commissariato per la Zona di operazioni
“Litorale Adriatico”: ai poteri del Gauleiter Friedrich Rainer erano sottoposti
tutte le Autorità e Uffici pubblici di questo Adriatisches Kustenland, che
comprendeva le Provincie di Fiume, Pola, Trieste, Udine, Gorizia, Lubiana
nonché i territori incorporati di Sussak, Castua, Buccari, Ciabar e Veglia.
Per Fiume fu decisa all’inizio di novembre la nomina di
un nuovo Prefetto nella persona di Alessandro Spalatin, Consigliere della
locale Corte d’Appello, e di un Vice Prefetto, l’avvocato Fran Spehar di
Sussak; mentre il Prof. Gino Sirola, già Preside dell’Istituto Tecnico
“Leonardo da Vinci”, fu confermato nell’incarico di Podestà del nostro Comune.
Successivamente al Gauleiter Rainer fu assegnato il
supremo potere giudiziario, compresa ogni decisione sulle domande di
grazia, e fu costituita una Corte
speciale per la Pubblica Sicurezza contro la quale non erano ammessi gli
ordinari mezzi di impugnazione.
4) Le Lire barchette CAMBI
VALUTARI (estratto da Pag. 219)
Le Lire jugoslave di occupazione scomparvero dalla
circolazione verso la fine del 1946; erano state emesse un anno prima dalla
“Gospodarska Banka za Istru, Rijeku i Slovensko Primorje” e venivano
soprannominate per lo più “barchette” per il disegno di una barca a vela che
appariva sui biglietti di piccolo taglio.
In un primo tempo erano state quotate clandestinamente
circa il venti percento in meno alle Lire italiane, e più tardi si allinearono
ancora su valori più bassi.
Erano stati i rappresentanti ufficiali del “Comitato
popolare cittadino” – Pietro Klausberger e Leopoldo Boscarol – a rendere noto
il testo dell’Ordinanza emanata “per ragioni di contingenti necessità”.
La carta moneta sarebbe stata cambiata dal 28 al 30
dicembre ’46 “al corso di 30 dinari per
cento Lire”, ma ogni famiglia non avrebbe potuto ricevere in contanti più di
cinquemila dinari.
Per i depositi eccedenti sarebbe stata consegnata al
capofamiglia una ricevuta provvisoria.
Un’altra innovazione interessò la vecchia municipalizzata
cittadina A.S.P.M. che fu sciolta col 1° gennaio ’47 facendola diventare una
“filiale” di una nuova Azienda Elettrica per l’Istria, Fiume e il Litorale
Sloveno.
Un processo organizzativo inverso fu deliberato per le
attività di “cultura fisica”: non si poteva sperare - secondo il Dirigente Matovinovic – che singole Società formate
da venti o trenta soci operassero correttamente “secondo il principio dello sport di massa”.
Le iniziative delle venti Associazioni sportive esistenti
a Fiume - aveva affermato un altro Dirigente, Egidio Barbieri – non avevano la prospettiva di sviluppare
la cultura fisica tra le larghe masse popolari.
Per arrivare quindi alla costituzione di “forti organismi
sportivi” – ciascuno dei quali doveva riunire “migliaia di lavoratori” – fu
prevista una serie di fusioni “secondo un preciso piano sindacale”.
Nella “Quarnero” confluirono i circoli dei “funzionari
delle istituzioni statali ed amministrative”, i comunali, i municipalizzati, i
bancari, i lavoratori delle imprese commerciali, gli ospedalieri, gli addetti
di vari enti assistenziali.
Successivamente furono fusi con la “Torpedo” i gruppi
sportivi delle aziende Skull, Cussar, Ossoinack, SELVEG, Elettromeccanica.
Vennero sciolte infine le squadre dei Cantieri, dei
Magazzini Generali e della Portuale per dar vita ad una nuova associazione
sportiva denominata “Mornar”.
Appariva però ancora necessario vigilare sull’attività di
certi elementi, che non comprendevano o non volevano comprendere i nuovi doveri
dei lavoratori, e sull’opera di singoli individui, che per “basso calcolo o per
incoscienza”, stavano frenando “lo slancio d’assalto delle masse lavoratrici”.
Venivano quindi denunciate pubblicamente le situazioni
interne aziendali, definite “intollerabili”.
Per i Cantieri Navali era stato lamentato lo scarso
spirito di iniziativa del “pubblico accusatore dell’officina Natale Zovich” e
dell’Ing. Mikulic della “Direzione tecnica”, colpevoli entrambi di mancati
interventi contro i “tornitori” Antonio Staffetta e Giovanni Vicich, che
ripetutamente non avrebbero rispettato l’obbligo delle prestazioni di lavoro
straordinario – e contro l’operaio Amedeo Lotzniker, che si sarebbe vantato di
aver impiegato più giorni per eseguire lavori “di qualche ora”.
Per la ROMSA erano stati proposti “provvedimenti
adeguati” contro Gabriele Deling, Cesare Pamich, Carlo Poso, che avrebbero
cercato di “indebolire l’economia locale” svolgendo opera di propaganda a
favore della “emigrazione in Italia” del personale tecnico della Raffineria.
5) L'OZNA VISTI IN PIAZZA
SCARPA (estratto
da Pag. 168)
Della destinazione dell’edificio di Piazza Scarpa a sede
dell’OZNA s’era cominciato a parlare sin dai primi giorni dell’occupazione dei
partigiani jugoslavi, quando alcuni familiari delle persone scomparse nella
notte tra il 3 e il 4 Maggio 1945 – e naturalmente nei giorni successivi -
erano stati indirizzati a quegli “uffici”per eventuali informazioni sulla sorte
toccata ai loro congiunti.
Il dramma di molte famiglie fu la mancanza di qualsiasi notizia sulle decisioni prese dalle autorità a carico delle persone
colpevoli, o solamente indiziate, di reati politici.
Le prime tappe del tragitto di molti arrestati sembravano
analoghe: gli “uffici” di Piazza Scarpa, le carceri di Via Roma, i campi
di internamento improvvisati a Sussak, Costrena e Cirquenizze; per quasi tutti
subentrava poi una decisione di trasferimento verso località ignote.
Gli interventi della polizia parevano indicare che s’era
voluto colpire – oltre a varie persone notoriamente favorevoli al fascismo –
diversi presunti oppositori del nuovo regime
che a suo tempo non si erano compromessi per niente col partito dominante.
La schiera degli arrestati comprendeva - oltre ai Senatori Riccardo Gigante ed
Icilio Bacci ed agli ex Podestà Carlo Colussi e Gino Sirola – una cinquantina
di ex guardie di finanza, una sessantina di ex guardie di pubblica sicurezza,
una quarantina di ex coscritti di varie armi, un gruppo di ex carabinieri e
vigili urbani.
Guardie di finanza , carabinieri e vigili urbani avevano operato d’intesa con i volontari
locali non comunisti – durante le ultime azioni contro le truppe tedesche – ma
erano stati arrestati dalle forze jugoslave che non ammettevano iniziative di
gruppi autonomi.
Molte guardie di pubblica sicurezza – “trattenute per
accertamenti” effettuati dai nuovi comandi – s’erano invece presentate
spontaneamente in alcune caserme per la richiesta consegna delle armi già in
loro possesso.
Alcune persone incarcerate – il presidente del comitato
fiumano della CRI Gregorio Bettin, il direttore didattico di Abbazia Giuseppe
Tosi, il maggiore dei vigili del fuoco Eugenio Venutti – erano abbastanza note
a Fiume: nella maggior parte dei casi però gli scomparsi non occupavano posti
di particolare responsabilità.
Si ripetevano così molti nomi: Angelo, Ernesta e Zulema
Adam, Antonio, Maria e Margherita Pagan, Santo Taucer, Rodolfo Moncilli – senza
sapere con certezza se quelle persone erano indiziate di attività clandestina
di ispirazione autonomista o irredentista, o semplicemente se dovevano pagare
le “colpe” politiche di qualche loro congiunto.
Soltanto nel dicembre 1945 si ebbe notizia di un primo
processo contro un gruppo di nuovi “nemici del popolo”, accusati di
costituzione di un’ organizzazione clandestina
e di stampa e diffusione di manifestini di propaganda contraria
all’attività dei poteri popolari.
Il principale imputato Carlo Visinko fu condannato a 10
anni di lavori forzati, mentre pene progressivamente minori si ebbero vari
altri giovani: Marino Callochira, Alfredo Polonio-Balbi, Ferruccio Fantini,
Alfredo Lenski.
6) Cetnici e Partigiani
UN PONTE IN LEGNO SULL'ENEO (estratto da Pag. 119)
Il vecchio ponte stradale – saltato in aria il mattino del 15 settembre 1943 – era
stato sostituito da un manufatto
provvisorio in legno sul quale i genieri tedeschi avevano apposto una targa con
la scritta “Adolf Hitler Brùcke”. Al di
la’ dell’Eneo si erano attestate – dall’autunno del ’43 – le sentinelle croate
delllo Stato indipendente degli “Ustascia”, che non richiedevano però
l’esibizione del lasciapassare per consentire l’accesso a Sussak.
Formalmente una vasta area ex jugoslava a oriente di
Fiume era compresa nella zona di operazioni dell’Adriatisches Kustenland; il
regime militare tedesco si estendeva quindi su entrambe le rive dell’Eneo, ma
ammetteva la presenza di uniformi italiane a Fiume e croate a Sussak.
L’occupazione della riva sinistra della Fiumara da parte
dei partigiani era durata soltanto una settimana; era quindi cessata da allora
l’occupazione italiana di quelle terre
e questo - agli occhi della
popolazione locale – poteva apparire un risultato nient’affatto disprezzabile.
All’annuncio della capitolazione italiana molti abitanti
di Sussak si erano uniti alle formazioni dei ribelli: di fronte all’incalzare
delle truppe del Reich parecchi si erano rifugiati nei boschi, alcuni erano
morti in combattimento, altri ancora avevano trovato il modo di far ritorno
alle loro case.
Il movimento partigiano jugoslavo era riuscito comunque a
diventare l’unica importante
organizzazione antinazista che incontrava ampi consensi tra le popolazioni.
Di riflesso s’era registrato un profondo mutamento nella
propaganda ufficiale, dove non si parlava più dei “cetnici” mentre si
attribuiva ai comunisti la responsabilità del dilagare della guerriglia; anche
i commenti di Radio Londra menzionavano oramai soltanto azioni partigiane e non
più interventi di cetnici.
I mutamenti pareva traessero origine da una situazione
locale molto complessa, dove i cetnici si erano mossi per primi quando era
ancora in vigore il Patto di non aggressione tra la Germania e l’Unione
Sovietica, mentre il movimento partigiano, costituitosi per iniziativa dei
comunisti, aveva iniziato un’intensa attività soltanto dopo l’attacco tedesco
contro la Russia nell ‘estate del 1941.
I cetnici si collegavano idealmente allo Stato
monarchico, dominato dai Serbi, che nell’aprile 1941 si era schierato a fianco
degli Inglesi e contro l’alleanza dell’Asse.
Rivalità e rancori di carattere locale, nonchè collusioni
con esponenti dei Governi fantoccio creati dagli occupatori dell’Asse, s’erano
intrecciati in vario modo nello sviluppo dei due movimenti clandestini, e le repressioni
dei regimi di occupazione a danno delle popolazioni sospettate di connivenza
coi ribelli, avevano indotto ad una maggiore prudenza i fautori dello Stato dei
Karageorgevic’, in attesa del sospirato sbarco
degli inglesi sulle coste dalmate.
In questa contrapposizione tra prudenza e temerarietà il
movimento partigiano era stato indirettamente favorito - in Bosnia,
Croazia e Slovenia, ma non nei territori serbi – dalle spietate
rappresaglie di alcune formazioni militari dell’Asse.
7) Il nuovo Corso
TOPONOMASTICA CITTADINA (estratto da Pag. 204)
Il 5 novembre 1946 – in occasione della terza sessione
dell’Assemblea Popolare cittadina – furono preannunciate diverse modifiche
nell’organizzazione periferica dell’amministrazione locale.
Venne prevista l’attribuzione ai Comitati Popolari
rionali il controllo dei prezzi e la repressione della borsa nera e della
speculazione,
anche se apparivano in diminuzione - nella valutazione di
Leopoldo Boscarol, nuovo Segretario del Comitato Esecutivo cittadino – il
commercio illegale, il contrabbando e la criminalità.
Il Consigliere Edoardo Radetti proponeva il completamento
dei quadri della Milizia Popolare e il Consigliere Carlo Manià rilevava che
bisognava “creare nuovi quadri tecnici e rifare una mentalità a certi
lavoratori”.
Sarebbe stato “errato, reazionario ed antipopolare”
considerare lo sport indipendente dalla politica e coloro che non si rendevano
conto delle proprie sbagliate impostazioni dovevano essere esclusi da ogni
gara o confronto agonistico.
Tutta l’attività delle Società di cultura fisica doveva
essere impostata sulla preparazione e realizzazione di precisi “piani
trimestrali”.
I vari sodalizi di cultura fisica dovevano elevare il
livello culturale e politico dei propri membri, far conoscere la vita dei
lavoratori dell’Unione Sovietica, dei Paesi slavi e degli altri Paesi realmente
democratici.
Gli atleti più giovani dovevano essere impegnati
nell’insegnamento dell’educazione fisica ai fanciulli ed ai ragazzi, in
collaborazione con “l’Unione dei Pionieri”; tutti gli sportivi dovevano essere
istruiti negli “elementi fondamentali della scienza militare”.
8) Il Circolo di Cultura
Italiana CIRCOLI CULTURALI (estratto da Pag. 208)
Tutti gli “italiani” della città furono invitati ad una
riunione presso la ex Sala Bianca per discutere – domenica 2 giugno 1946 – le forme concrete di attuazione di un
programma di sviluppo della cultura italiana a Fiume.
La relazione introduttiva venne svolta dall’Avv. Bruno
Scrobogna, che indicò nell’istruzione delle “larghe masse” la base principale
di un effettivo incremento della cultura italiana.
Non ci si poteva aspettare che il problema venisse
risolto dai fratelli slavi, ma non si doveva favorire nemmeno una attività
rivolta “in direzione opposta come reazione allo sviluppo della cultura slava”.
Contemporaneamente la ricostituita “Narodna Citaonica”
preanunciò le sue iniziative a breve scadenza: una conferenza su Massimo Gorki,
la premiazione di 18 studenti del Ginnasio croato di Fiume, una riunione di massa
contro “le ingiuste soluzioni che venivano proposte per il problema giuliano”,
una intensa partecipazione con “contributi e lavoro fisico” all’opera di
ricostruzione della città.
L’organizzazione interna del Circolo di Cultura italiana
sembrò completato il 3 agosto ’46 quando venne eletto un Comitato Direttivo di
nove persone: Arminio Schacherl, Eros Sequi, Leopoldo Boscarol, Gina Scrobogna,
Franco La Scala, Mariano Orlandini, Luigi Davolio, Riccardo Moresco.
Il 13 novembre ’46 fu inaugurata la nuova sede
dell’Associazione nei locali di Palazzo Modello; il Prof. Pietro Marras
dichiarò che quelle sale – già riservate alla borghesia mondana – erano aperte
ai “lavoratori del braccio e dell’intelletto, ansiosi di arricchirsi di nuovo
sapere”.
Non ci sarebbe stato più posto per le pseudo culture che
“disprezzavano gli altri popoli considerandoli alla stregua dei barbari”:
l’ispirazione futura sarebbe venuta invece dalla civiltà “scaturita dalla
Rivoluzione di Ottobre”, dalla cultura espressa dalla nuova Jugoslavia.
9) L’U.A.I.S. Unione Antifascista Italo Slava STRADE
IN GARA (estratto da Pag. 212)
Zvonko Petrinovic, Segretario dell’U.A.I.S. Unione Antifascista Italo Slava, richiamò
l’attenzione degli attivisti sulle iniziative di tutti quegli elementi –
singoli sacerdoti, speculatori, resti del fascismo – che diffondevano notizie
menzognere sull’organizzazione futura del potere popolare e che andavano quindi
smascherati e consegnati ai Tribunali del popolo.
Martedi sera 4 febbraio, egli fu più esplicito: un
sacerdote, Don Girolamo Demartin, Parroco e Direttore dell’Oratorio salesiano,
avrebbe esaltato le imprese del movimento clandestino dei “krizari”; un
Professore dell’Istituto Tecnico, Bruno Battagliarini, avrebbe per lungo tempo
educato gli alunni “nell’odio verso la Jugoslavia e la fraterna Unione
Sovietica”; un lavoratore del Silurificio – Bassi – avrebbe chiesto
ripetutamente che fosse permesso agli operai di allontanarsi dall’officina
“venti minuti prima della fine dell’orario di lavoro”; alcuni dipendenti dei
Cantieri avrebbero scritto lettere di protesta alla Direzione chiedendo salari
più alti “senza interpellare i Sindacati”.
Secondo Petrinovic, bisognava convocare apposite riunioni
di massa per l’eliminazione “dei nemici”.
Si doveva indire immediatamente le elezioni per il
rinnovo dei Comitati stradali dell’Unione: con una forte base di attivisti in
tutte le strade sarebbe stato possibile
“mobilitare i più ampi strati del popolo”, “reagire energicamente alle manovre
della reazione”, portare a conoscenza di tutte le masse popolari “le direttive
e le iniziative del potere popolare”.
E doveva anche essere organizzata una gara cittadina col duplice scopo di stabilire una
graduatoria tra coloro che avrebbero portato “più massa alle elezioni per i
Comitati stradali” e di formulare nel contempo un giudizio sul “migliore
Comitato eletto”.
Don Girolamo Demartin – accusato pubblicamente dal
Segretario dell’U.A.I.S. – fu condannato dal Tribunale del Popolo a tre anni di
reclusione il 17 marzo ’47, per aver mandato aiuti a “vari criminali che
stavano scontando la pena nelle carceri della Jugoslavia”, e di aver svolto
“propaganda antipopolare presso le famiglie degli allievi dell’Oratorio” per
indurle a lasciare la città e ad emigrare in Italia.
Precedentemente era stato condannato a quindici anni di
lavori forzati il Prof. Battagliarini, imputato di aver effettuato azioni
“disfattiste e sabotatrici” ai danni del potere popolare e delle “conquiste del
popolo”, facendo della propria cattedra una tribuna dalla quale insinuava
“nelle menti e nelle coscienze degli scolari una serie di ideologie
antiprogressiste e non scientifiche”.
10) Leopoldo Boscarol LE PROPOSTE DI
LEOPOLDO BOSCAROL (estratto da Pag. 210)
Bisognava essere capaci di comprendere compiutamente il
significato politico di ogni attività sociale, mentre Fiume era alla vigilia
della sua annessione alla Jugoslavia e la reazione internazionale, in
collaborazione con vari elementi antipopolari locali, stava tentando di
“convincere gli italiani ad abbandonare la propria terra e trasferirsi in
Italia” e venivano messe in giro voci di soppressione di ogni libertà in
Jugoslavia, di deportazione in Russia di tutti i bambini di età superiore ai
sei anni, di persecuzioni della Chiesa, di chiusura delle scuole italiane, così
come un anno prima si era affermato che gli anglo-americani dovevano occupare
giorno per giorno l’Istria e Fiume, e che la Venezia Giulia sarebbe diventata
“uno Stato indipendente”.
In realtà – secondo l’oratore – le leggi jugoslave
garantivano “i diritti nazionali, sociali ed economici “ mentre in Italia “il
popolo non aveva neppure il diritto di protestare”, l’economia era tutta in mano dei privati, non c’era pane a
sufficienza per tutti gli italiani, i lavoratori disoccupati si potevano
contare a milioni.
Se si voleva quindi “abbracciare maggiormemente le masse
anche nel campo della cultura” bisognava individuare e denunciare i
“propagatori dell’odio, dello sciovinismo e della discordia”, eliminando
dall’ambiente locale le menzogne e l’opera dei nemici del popolo.
11) Riccardo Zanella UN FOGLIO
INGIALLITO (estratto da Pag. 121)
Avevamo conosciuto
sin dall’adolescenza la testata di un solo quotidiano “La Vedetta
d’Italia” e scorremmo quindi con interesse nell’autunno 1944 un foglio
ingiallito, stampato a Fiume 26 anni prima. Quel giornale “La Bilancia”
riportava sotto un titolo a tutta pagina un discorso del massimo esponente
dell’autonomismo fiumano.
Era in pratica un resoconto dei contatti avuti a Roma da
Riccardo Zanella con varie Autorità di Governo immediatamente dopo la
conclusione del primo conflitto mondiale ed appariva in sostanza un ripetuto
invito a continuare nella battaglia per l’autonomia di Fiume.
L’autonomismo ci era stato descritto per lo più come un
movimento che a suo tempo aveva difeso
in modo sospettoso e miope un ideale di indipendenza politica per Fiume,
opponendosi con intrasigenza a qualsiasi tentativo di intromissione del Governo
italiano nella vita della città.
Il giornale che vedemmo passare clandestinamente di mano
in mano nel ’44 costituì così una prima occasione di riesame di un periodo che
sino a quel momento si pensava di aver compreso.
- - - -
Sarebbe stato l’insuccesso dell’impresa “legionaria”
conclusasi verso la fine degli anni ’20 a favorire la rinascita della corrente
autonomistica fiumana.
A Versailles, durante la Conferenza della Pace, era
affiorato il progetto di uno Stato cuscinetto tra Italia e Jugoslavia,
comprendente la zona del Monte Nevoso, l’isola di Veglia, Fiume e la costa del
Quarnero da Fianona allo scoglio di San Marco.
Non aveva portato a risultati concreti, sul piano
internazionale, l’iniziativa dannunziana della costituzione della “Reggenza
italiana del Carnaro”, come Stato fiumano indipendente.
Gabriele D’Annunzio aveva respinto le proposte del
Governo italiano per una pregiudiziale normalizzazione della situazione
fiumana, che pur erano state accettate dalla maggioranza della rappresentanza
cittadina.
Progressivamente si era arrivati alla paralisi della vita
locale, dopo il “blocco di terra e di mare” della città.
La firma del Trattato di Rapallo – con l’accordo per la creazione dello Stato libero fiumano
– aveva concluso un periodo di contrasti tra i Governi italiano e jugoslavo:
dopo la ratifica del Trattato da parte del Parlamento di Roma si era infine
arrivati all’intervento dell’esercito regolare italiano contro le milizie
legionarie.
Le elezioni per la Costituente fiumana avevano segnato
quindi nel 1921 la vittoria degli autonomisti, non però il ritorno alla normalità.
L’autorità
statale si stava sgretolando in tutta Italia mentre si delineava
l’affermazione del Fascismo.
E furono gli squadristi giunti anche da Trieste a
togliere il potere a Riccardo Zanella nel marzo 1922.
Fiume – andavano sussurrando taluni nell’autunno 1944 –
doveva pertanto essere considerata la prima vittima del movimento fascista in
Europa.
La città di San Vito avrebbe potuto far valere i propri
diritti dopo la fine del secondo conflitto mondiale appellandosi alle decisioni maturate al tavolo della Pace nel
1919.
Lo Stato Libero era sorto a Rapallo in un’intesa tra
Italia e Jugoslavia e non a Versailles, ma c’era comunque un precedente, un
riconoscimento giuridico che poteva avere qualche validità sul piano
internazionale.
Sarebbe stato da sciocchi – si concludeva – rinunciarvi.
12) Bombe a mano RADIO
FIUME (estratto da
pag. 173)
Per alcuni giorni i volontari della stella rossa
ammassarono nelle cantine della ex casa del fascio, situata a poca distanza dal
cimitero, armi e munizioni, cartucce e bombe a mano, abbandonate dalle truppe
tedesche in varie postazioni.
Nelle cantine, di facile accesso dall’esterno, erano
ancora depositati i materiali raccolti nei primi giorni, e per noi sembrò
un’impresa non disprezzabile l’introdursi di soppiatto negli improvvisati
magazzini per asportare una mezza dozzina di bombe.
A metà settembre si seppe poi che nella ex casa del
fascio era stata sistemata una stazione radio, che iniziò a diffondere i
programmi nel successivo 18 settembre.
Si pensò così della possibilità di penetrare in
quell’edificio per compiere un’azione dimostrativa: bastava forse rompere un
vetro per poter sgusciare in un cortile interno ed abbandonare un paio di
ordigni muniti di miccia a combustione lenta.
Se ne parlò soltanto e avvicinammo alcuni esponenti
dell’ambiente cattolico nella nostra ricerca di appoggi e consensi.
Bisognava aver prudenza, ci dissero, perché i comandi
militari jugoslavi – d’intesa con la polizia politica – avevano creato una
fitta rete di informatori incaricata di segnalare i contatti tra elementi
sospetti e in genere apprezzamenti, giudizi, valutazioni della popolazione di
ogni ceto.
Esisteva in città – secondo quanto ci veniva assicurato –
una organizzazione capillare di ispirazione democratica, predisposta col
duplice scopo di garantire un’indispensabile “presenza” e di raccogliere ogni
notizia utile, mentre altre persone si assumevano il compito di mantenere i
collegamenti con Trieste.
Era il massimo che si poteva fare?
Più volte pensammo di doverne dubitare e ci proponemmo di
forzare la mano a quanti indugiavano o confidavano troppo.
13)
La Torre e l'arco LA
TORRE E L’ARCO
(estratto da pag. 176)
L’ultima aquila della Torre apparì senza la testa
sinistra dal pomeriggio del 4 novembre 1919 quando due bersaglieri posero in
atto la semplificazione auspicata da Gabriele D’Annunzio alcune sere prima.
Ma quell’intervento che s’era proposto di distruggere un
segno del potere asburgico si trasformò, nel convincimento di taluni, in una
mutilazione del simbolo della città.
Parecchi guardarono un’altra volta alla Torre con intenti
polemici nel maggio 1946 quando una mattina si notò che qualcuno – Mario
Rivosecchi, come si seppe più tardi – aveva issato sulla cupola una bandiera
fiumana.
Il vessillo civico fu rimosso ben presto ad opera della
polizia politica jugoslava ed analoga
sorte toccò ad una bandiera italiana che qualchedun altro – identificato poi
col bracciante Giorgolo – aveva issato sul Grattacielo di Piazza Regina Elena.
In quest’ultima piazza si ebbe da alcune settimane più
tardi un ulteriore atto dimostrativo, ma contro un arco di legno che
l’amministrazione jugoslava aveva fatto costruire ed adornare di scritte
inneggianti al nuovo regime.
Uno dei pilastri dell’arco rimase danneggiato dallo scoppio
di una bomba rudimentale e gli autori dell’azione – Carlo Maltauro, Mario
Rivosecchi, Nino Bencovich, Romolo Rainò, Giuseppe Superina, Giambattista Marra
– non furono identificati in quell’occasione.
Erano invece stati scoperti molto presto e arrestati i tre giovani –
Giuseppe Librio, Hervatin e Barbadoro – che il 16 ottobre 1945 avevano
ammainato una bandiera jugoslava da uno dei pennoni di Piazza Dante: Giuseppe
Librio era stato trovato cadavere sul Molo Stocco soltanto pochi giorni dopo la
scomparsa di un altro fiumano – Matteo Blasich – arrestato anche lui in
quel periodo e poi “morto suicida” secondo la versione fornita dalle Autorità.
14) Munizioni a San Girolamo
S.GEROLAMO DEGLI AGOSTINIANI (estratto da pag.
181)
Nella sagrestia di S. Gerolamo ci ritrovammo
saltuariamente più tardi, nel gennaio del 1946, quando si era impegnati oramai
nell’attività clandestina contro l’Amministrazione militare jugoslava.
Decidemmo poi – all’inizio di febbraio, di nascondere nel solaio della chiesa
alcune munizioni, rintracciate precedentemente nelle fortificazioni di Santa
Caterina; s’era diffusa la voce di una imminente visita del Maresciallo Josip
Broz Tito a Fiume e bisognava trovare
il modo di turbare quella manifestazione, magari facendo funzionare uno dei
congegni lacrimogeni ch’eravamo riusciti a procurarci.
Nella seconda settimana di febbraio era partito per
Trieste il fratello di Giorgio Fabris con l’incarico di perfezionare i
collegamenti con il “Comitato giuliano” operante in quella città; l’assenza del
nostro amico durava ormai da parecchi giorni ed inspiegabilmente non si avevano
notizie del suo ritorno.
Ci avvicinò invece in gran segreto un altro compagno di
studi - guardato con diffidenza da
molti per le sue non nascoste simpatie per il nuovo regime – per avvertirci che
“il gruppo era stato individuato”: non ci sarebbero state complicazioni -
aggiunse – purchè non venisse accertato un possesso di armi da parte nostra.
Non pareva possibile dubitare dell’esattezza della
segnalazione: restava allora da scoprire in che modo la polizia jugoslava era
stata messa sulle nostre tracce. Ci eravamo messi in contatto con molte persone
e forse qualche frase era stata inavvertitamente riportata a singoli meno
prudenti o meno fidati.
Il fatto che fosse stata prospettata una individuazione
“del gruppo” induceva a pensare a qualcosa di più di un errore o di una
imprudenza: forse una delazione o un’infiltrazione di qualche elemento
compromesso con gli organi di sicurezza jugoslavi.
Si doveva pertanto trovare nuovi nascondigli per le
munizioni.
15)
Manifestini FOGLIETTI A CICLOSTILE (estratto da pag. 176)
Nei primi mesi del 1946 aveva avuto inizio il campionato
studentesco e vi partecipava - per la prima volta nella cronaca locale – anche
la squadra del nuovo “Ginnasio croato”: favorito d’obbligo era il Nautico, che
schierava in campo Gabrieusig, Ivancich, Zupicich, Leonessa, Mandich, Monti,
Tardivelli, Penco, Sklemba, Benussi, Pacini.
Abbastanza temibile appariva anche la squadra delle
Industriali - con i vari Pironti, Carli, Sincich, Mattuli, Stassi, Millich,
Giotto, Clemente, Tessarolo, Bruni, Milletich – ed analoghi apprezzamenti
venivano espressi per lo più dai nostri undici “scientifici” cioè Zustovich,
Segnan, Moscheni, Ansel, Marzona, Zuffrano, Rizzardini, Host, Mohovich,
Tominich, Decleva.
Più modesti sembravano quelli del Tecnico – i Seksich,
Icovi, Pillepich, Clemen, Spincich, Barbalich, Saftich, Geja, Paravich,
Costante, Rusich – e quelli delle Commerciali, cioè i Seberich, Zupancich,
Recanatini, Codacovich, Sricchia, Sestan, Superina, Terdich, Brenco, Sikich,
Stavagna.
Avversari meno temibili erano considerati infine
l’Avviamento - dei Stecich, Dusman, Bartola, Mervich, Pischiutta, Drago,
Susmel, Marghetich, Nacinovich, Giurriaco, Penella – ed il Classico – dei
Bianchi, Prencis, Lupetti, Gelcich, Rossovich, Bucich, Ruzzier, Doldo,
Esposito, Zez, Covacev.
Avevamo precedentemente avvicinato singoli studenti di
quelle scuole ed eravamo riusciti ad ottenere
un’adesione di massima per varie attività clandestine che consideravamo
proponibili a breve scadenza.
Soprattutto la diffusione di manifestini pareva un
impegno non più differibile, dopo l’arresto e la condanna del gruppo di
Callochira e Polonio-Balbi.
Si poteva anche pensare a qualche sistema molto semplice
per cancellare almeno in parte le numerose scritte murali – inneggianti ai
nuovi poteri popolari ed all’annessione di Fiume alla Jugoslavia: bastavano
poche boccette di inchiostro ed alcuni lanci ben aggiustati, per lasciare sui
muri altrettante tracce non meno
significative di quelle volute dai comandi jugoslavi.
Padre Nestore, assistente ecclesiastico dei giovani della
Parrocchia dei Cappuccini, ci prestò un ciclostile ed uno studente del Nautico,
Giorgio Fabris, ci ospitò nella casa dei genitori in Via Fratelli Bandiera per una prima edizione dei manifestini di
opposizione. Ci trasferimmo poi in Via
Giorgio Vasari nella cantina del Maestro Giovanni Marvin per le successive
ristampe.
La dfiffusione di altri fogli stampati clandestinamente
ci confermava però la contemporanea presenza in città di più gruppi, impegnati
a contrastare l’attività di propaganda del regime di occupazione.
Si pensò di così di impostare meglio la nostra azione coordinandola con le iniziative di una
preesistente organizzazione e si cercò di stabilire un collegamento con il
“Comitato di Liberazione” giuliano operante a Trieste.
Riuscimmo a procurarci i nomi di alcuni esponenti
politici da avvicinare nel capoluogo giuliano, ma quei primi contatti rimasero
infruttuosi : molta prudenza dall’altra parte ci impedirono allora di uscire
allo scoperto.
Ad un certo punto ci fu segnalata la possibilità di
venire a contatto con un altro gruppo clandestino fiumano; sembrava che ci si
potesse fidare della persona che si era fatta promotrice dei primi
approcci ed uno di noi si prese
l’incarico di continuare il dialogo.
Ci arrivò così la proposta di un testo per i volantini
inneggianti a “Fiume libera sotto la protezione anglo-americana”: una soluzione
che però prestava il fianco a molte critiche sul piano dell’opportunità
politica. E lasciammo cadere le ulteriori proposte di collaborazione con quella
parte.
16) L'arresto VEGLIE AL
“CENTRO” (estratto da Pag. 185)
Si fecero vedere nel nostro Liceo durante la terza ora di lezione del 19 febbraio 1946: due di
loro e toccò alla Segretaria il compito di affacciarsi all’uscio e di
pronunciare il nome dello studente che doveva uscire.
Il portone principale delle carceri era chiuso e la
guardia armata che stazionava all’esterno tamburellò sui vetri per far
accorrere dall’interno un suo collega.
Non era facile capire quello che già sapevano e quello
che volevano scoprire; si dimostravano certi della colpevolezza del loro
interlocutore ma sembravano aver bisogno di un’esplicita ammissione da parte
del reo. Dicevano di non aver fretta e
per confermare le loro parole lasciarono sul tavolo carta e matita con l’invito
a “pensarci su” con calma e a fissare sui fogli le risposte richieste.
Non si dimostrarono sorpresi alcune ore più tardi quando
ritrovarono i fogli bianchi; si misero a parlottare tra loro e pareva che
volessero continuare il discorso “al Centro”.
Ci voleva poco a capire che il “Centro” non era altro che
il Comando principale della polizia politica in Piazza Scarpa, e per il
trasferimento era già pronta un’automobile.
La direzione da prendere, nel dedalo di corridoi, veniva
indicata con spinte e urtoni; il dialogo doveva esser sostenuto a dorso nudo e
di tanto in tanto i due inquisitori – Vicko Lorkovich Minack e Milan Cohar –
lasciavano partire alcune pedate e colpi di cinghia.
A loro importava poco gli atti inconsulti di singoli
studenti, ma i “mandanti” e si doveva quindi precisare per quali motivi s’era
stati recentemente in contatto con tutta una serie di persone.
Di notte si davano il cambio con altri “Commissari” –
Oscar Pisculic, Jovo Mladenic, Norino Nalato, Giuseppe Domancich – ed a seconda
degli umori o del temperamento il trattamento poteva migliorare o peggiorare.
Quando ritornarono i due inquisitori principali – Vicko e
Milan – pretesero che si stette sull’attenti e riconfermarono ripetutamente con
calci e manrovesci la loro intolleranza per qualsiasi forma di resistenza
passiva; si finiva col perder la nozione del tempo e col restare intontiti,
mentre si sentiva confusamente ripetere sempre le stesse domande.
I Commissari si diedero il cambio altre volte e variarono
ripetutamente i sistemi d’interrogatorio, alternando promesse, intimidazioni,
blandizie, percosse, ragionamenti “politici”: il popolo teneva saldamente il
potere nelle proprie mani – dicevano – ed era impossibile arrestare la sua
marcia entrando in combutta con i capitalisti americani e inglesi; l’Italia era
un Paese vinto e non poteva interessarsi più degli abitanti dei territori
“ceduti”; la sorte di Fiume era stata definitivamente decisa ed era da sciocchi
non volerne prendere atto; i detenuti non dovevano abusare della pazienza dei
Commissari se non volevano subire certi interventi – “basta un’iniezione e non
se ne parla più” - inevitabili in casi
del genere.
Destava meraviglia il fatto di risvegliarsi senza danni
eccessivi – anche se con le ossa indolenzite e la testa pesante – sul pavimento
di una stanza vuota - e causò maggior sorpresa un improvviso trasferimento
nelle carceri di Via Roma per l’obbligo di starsene in posa per un fotografo
assieme ad altri studenti e mettendo in mostra una pistola, una macchina da
scrivere, un pacco di carta, un ciclostile.
Il 2 marzo un guardiano fece scivolare nella cella una
copia de “La Voce del Popolo” e si potè conoscere così la versione
giornalistica dell’operazione di
polizia condotta contro di noi: era stata scoperta un’associazione clandestina
“nel convento dei Cappuccini”, gli affiliati volevano “diffondere una campagna
sciovinistica tendente a spezzare l’unità e la fratellanza dei popoli della
Jugoslavia” e compiere altresì “atti terroristici contro le organizzazioni
antifasciste “,
Padre Nestore era il principale responsabile e si
avvaleva della collaborazione di Don Giacomo Cesare e “dell’ex Direttore di
banca” Oscar Purkinje.
Si accennava anche alla colpevolezza di alcuni studenti
con la citazione però soltanto di “Dassovich e Tavolato” e senza ricordare che
Franco Tavolato era riuscito a sottrarsi all’arresto.
Il giornale concludeva che si trattava di esseri che
“invece di dare il loro aiuto e la loro opera al benessere della collettività,
manovrano e sobillano per creare nuovo sangue”: delinquenti che il popolo si
sarebbe incaricato di spazzare dalla propria strada perché non si doveva “lasciare spuntare nessuna pianticella
fascista nemmeno all’ombra del campanile”.
17) Il Processo AULE DEL
CASTELLO (estratto da pag. 189)
All’esterno della nostra cella di segregazione attende un
soldato armato di mitra per accompagnarci dal Tenente Zlatko Trepic, che funge
da Pubblico Ministero nel “Tribunale
Militare dell’Armata jugoslava per l’Istria e Fiume”.
Trepic, che parla discretamente l’italiano, passeggia
nervosamente su e giù per la stanza, batte i pugni sul tavolo, ci preavvisa che
gli inquirenti sanno usare anche “altri metodi”; ci richiama un paio di volte a
distanza di qualche giorno e poi per un paio di settimane sembra che nessuno si
ricordi di noi: sino a martedi 30 luglio quando improvvisamente ci fa visita il
Direttore del carcere per comunicarci che all’indomani saremo processati.
Una decina di soldati – uno per ciascun imputato – prende
posto alle nostre spalle e il Collegio giudicante – formato dagli ufficiali
Riko Jaricijo, Jovo Pogunovic, Ivan Kvaternik – legge le imputazioni in croato
che l’interprete traduce in italiano: siamo accusati di “attività antipopolari,
costituzione di un’organizzazione terroristica neofascista, diffusione di
propaganda nemica, possesso di armi, furto di preda bellica, preparazione di
atti terroristici”.
Viene dato l’ordine di far uscire dall’aula gli undici
accusati; rientriamo poi uno alla volta quando il Presidente decide di
procedere agli interrogatori.
Il pubblico – formato per la gran parte da attivisti
delle organizzazioni politiche costituite dalle Autorità di occupazione –
reagisce contro gli imputati con grida ostili e le intemperanze assumono toni
sempre più aspri quando gli “attivisti” si alzano in piedi e chiedono a gran
voce la condanna a morte.
Alcuni di noi indirizzano verso il pubblico epiteti
analoghi a quelli che provengono da quella direzione.
Si alzano in piedi anche i soldati di guardia ed agitano
minacciosamente i loro mitra o li puntano verso il settore destinato agli
imputati;
interviene ad un tratto contro di noi il Comandante delle
guardie e ne nasce una colluttazione, prontamente troncata dal ten. Trepic.
Il Capitano Jaricijo sospende l’udienza.
Si riprende la mattina dopo in un’aula semivuota e il
Presidente chiede se noi imputati abbiamo ancora qualcosa da dire.
Alcuni rinunciano ad intervenire; altri contestano le
imputazioni: è assurda l’accusa di neofascismo, i presunti “crimini” non sono
provati e comunque configurerebbero un reato di propaganda non autorizzata, il
partito comunista è l’unico movimento politico riconosciuto dall’autorità
militare.
Il Presidente ci toglie la parola perché le nostre
considerazioni non avrebbero alcuna attinenza con i fatti presi in esame dal
Tribunale.
Quattro di noi – Oscar Purkinje, Don Giacomo Cesare,
Padre Nestore, Mario Dassovich – sono considerati “organizzatori e capi” del
gruppo clandestino e condannati rispettivamente a sette, tre, otto e quindici
anni di lavori forzati; ad un anno di lavori forzati viene condannato Giovanni
Marvin anche per il fatto di aver mancato “al suo dovere di cittadino di
denunciare l’attività antipopolare di uno studente”.
Una multa di 80.000 Lire, commutabile eventualmente in
sedici mesi di lavori forzati, viene inflitta a Francesco Stalzer per una
fornitura di inchiostro in polvere – sei tubetti corrispondenti a 2 litri di
inchiostro liquido – utilizzato per “fini illegali”.
Uno studente viene assolto, mentre altri quattro imputati
– Ugo Pick, Romeo Cociancich, Massimo Fabris, Walter Pick – sono considerati
tipici esempi di “giovani avvelenati dalle organizzazioni di massa dell’ex
regime fascista” e vengono condannati rispettivamente a quattordici mesi di
lavori forzati, dodici mesi con la condizionale, cinque anni di lavori forzati,
dodici mesi con la condizionale.
18) Incontri nel Tribunale COLLEGHI DI
"BLINDA" (estratto da Pag. 192)
La chiamavano “blinda” – quella cella dello scantinato di
Palazzo di Giustizia – perché era chiusa da una porta tutta di lamiera; a suo
tempo era stata l’archivio del Tribunale di Fiume, poi con la sistemazione di
tavolacci e di un gabbiotto di legno per il bugliolo, era diventata la cella di
punizione del carcere militare jugoslavo.
Uno dei meno preoccupati – in quell’agosto del 1946 –
sembrava Nicolò Cattaro, un panettiere di Abbazia: nei primi mesi del ’46 s’era
recato un paio di volte a Trieste con regolare lasciapassare e poco dopo era
stato accusato sotto l’accusa di “spionaggio”.
Sui polsi e sulle caviglie portava ancora i segni dei
lacci che lo avevano immobilizzato per un mese durante la detenzione in un
altro carcere, e di quel periodo ricordava ancora le scosse elettriche
utilizzate dalla polizia jugoslava per convincerlo a firmare i verbali degli
interrogatori.
Tendenzialmente più introverso appariva Giovanni
Stercich, ex Segretario di Riccardo Zanella, esule durante il ventennio
fascista e promotore di iniziative autonomiste a Fiume solo dopo il 25 luglio
1943.
All’inizio di maggio del 1945 era stato arrestato dagli
agenti di Sussak della nuova polizia jugoslava e segregato nel campo di
internamento improvvisato dall’Amministrazione militare a Costrena, e quel
provvedimento cautelare gli aveva permesso così di sfuggire alle esecuzioni
sommarie compiute a Fiume in quel periodo da altre squadre della medesima
polizia.
Lothar Zimmermann – nativo di Preisach Baden e già
Colonnello dell’esercito tedesco – era stato catturato ferito presso Villa del
Nevoso e - riconosciuto come ex Comandante militare della zona di Fiume - era
considerato responsabile delle distruzioni operate nella nostra città dalle
truppe germaniche nel periodo conclusivo della guerra.
Un giorno lo scorgemmo intento a distruggere alcune
fotografie: ci fece capire che dopo esser riuscito a riavere le immagini dei
suoi familiari preferiva non lasciarle ad altri.
Verso la metà di agosto, l’interprete comunicò a Dante
Cociani – ex milite della Guardia Nazionale Repubblicana, nativo di Visinada –
il risultato del suo ricorso contro la sentenza capitale: “è stata decisa la
fucilazione anziché l’impiccagione, ma puoi presentare una domanda di grazia”.
Cociani ci pregò di dimenticarlo per un po’ mentre si
faceva aiutare da Stercich nella stesura di un testo molto lungo.
19) In
Prigionia TALIJANI, GRUPPO A SE' (estratto da Pag. 211)
Ci ordinarono di uscire con tutte le nostre robe dove
c’era il Direttore e il Capo delle guardie Milan Pahor, che rivolto verso di
noi ribattè la battuta onomatopeica dei carcerati croati “nikad kuci, nikad
kuci”, cioè mai più a casa, che rifaceva l’ansimare dellle vaporiere.
Ci spedirono in una cella più vasta di quelle conosciute
prima.
C’erano: Oscar Purkinje, Massimo Fabris, Marino
Callochira, Alfredo Polonio-Balbi, Ferruccio Fantini, Carlo Visinko, ed altri
ancora provenienti da Fiume o dall’Istria, arrestati nel maggio 1945 o più
tardi.
Mancavano Don Giacomo Cesare e Padre Nestore, trasferiti
nelle carceri di Lubiana insieme ad altri sacerdoti della Slovenia, e Giovanni
Marvin ed Ugo Pick, che in sede di appello avevano ottenuto la condizionale.
Continuavano a portarci giornalmente nel cortile per i
soliti lavori di manovalanza e dopo poche settimane cominciò a nevicare: la
temperatura scese sotto lo zero con punte che arrivavano a “meno 25”; sulle
finestre della nostra cella al posto dei vetri distrutti nei bombardamenti,
c’erano soltanto pezzi di legno compensato, o di cartone, mentre di notte si
congelava completamente anche l’acqua contenuta in alcuni vasi di latta.
Ci fu anche un peggioramento del cibo: ci davano
giornalmente una pagnotta di non più di
200 grammi, un liquido nero detto “caffè” alla mattina e alla sera, un liquido
giallo pressochè senza condimento oppure una broda di rape a mezzogiorno,
mentre nei giorni festivi si saltava la cena.
I più fortunati potevano rifarsi con i pacchi viveri
che ricevevano da casa.
Era concesso scrivere a casa una volta al mese: dieci
righe su una cartolina postale.
La sigaretta diventò – come sottomultiplo della pagnotta
– l’unità di valore monetario a corso non legale.
20) A Maribor FUNZIONARI E
GUARDIE (estratto da
Pag. 214)
Prima dei trasferimenti, avevamo conosciuto un altro
gruppo di prigionieri giuliani, che erano stati destinati a Maribor dopo esser
passati attraverso i campi di lavoro di Kocevie e Lubiana.
Da Gallesano era arrivato invece un gruppo di giovani,
condannati quali aderenti ad una “organizzazione clandestina” capeggiata da
Antonio Lucchetto, che sarebbe stata in collegamento con il C.L.N. - Comitato
di Liberazione Nazionale di Pola.
Erano arrivati anche i fiumani del gruppo Maltauro –
Mario Rivosecchi, Carlo Maltauro, Romolo Rainò, Nino Bencovich, Giuseppe
Superina, Giambattista Marra – condannati nel febbraio 1947 per “attività
antipopolare propagandistica e terroristica”.
Assieme ad essi era stato processato Antonio
Luksich-Jamini, accusato – quale Presidente del C.L.N. clandestino di Fiume –
di avere inviato in Italia “relazioni politiche contenenti anche informazioni
di carattere militare” e di avere coordinato varie “azioni di sabotaggio”
contro l’Amministrazione militare jugoslava del territorio fiumano.
La conferma della fucilazione di Nicolò Cattaro, Lothar
Zimmermann, Dante Cociani – colleghi di “blinda” a Fiume – venne proprio dai
carcerati appena giunti dalla nostra città.
Tutte le guardie erano inquadrate nei reparti della
“Narodna Milicija”; talvolta qualche ufficiale - ed in particolare Milan Pahor,
anche se invalido per la perdita di un braccio durante la guerra – offriva ai
sottoposti una diretta dimostrazione dei modi energici da usare verso i
detenuti.
Più recentemente sembrava rispettata invece la regola
secondo cui le punizioni venivano decise dal “Direttore” su rapporto del
carceriere dopo aver inteso anche il detenuto interessato.
Ci fu un tentativo di evasione nell’aprile ’47 da parte
di due diciottenni sloveni, condannati per favoreggiamento dei “krizari”; i due
evasi mancati si presero anzitutto una gragnuola di colpi dalle guardie
preoccupate per le conseguenze personali dell’eventuale successo della fuga dei
prigionieri.
Poi metodi altrettanto spicci furono usati per cercare
qualche eventuale complice o amico che fosse stato a conoscenza di un
precedente “piano di evasione”.
Più tardi rivedemmo sul lavoro i mancati fuggiaschi con i
piedi incatenati; erano seguiti da altri due carcerati, puniti anch’essi con le
catene ai piedi, ma soltanto per aver protestato per la confisca di alcuni
prodotti contenuti nei pacchi-viveri inviati loro dalle famiglie.
I ferri addosso se li era presi infine anche il fabbro
dell’officina del penitenziario, che non aveva voluto incatenare i compagni di
prigionia.
Le caviglie di tutti e cinque erano ustionate e piagate,
perché l’anello di ferro che le serrava era diventato rovente nell’attimo in
cui era stato ribattuto e saldato.
L’uno o l’altro dei carcerieri più giovani si sentiva in
dovere di tanto in tanto di rendere più pesante il lavoro dei “puniti”, e le
urla , i calci e gli urtoni delle guardie convincevano anche molti altri a
darsi maggiormente da fare sulle impalcature.
21 L' Amnistia OPTANTI IN
ATTESA (estratto da Pag.
231)
“L’amnistia è approvata”.
Quella frase – pronunciata l’ 8 aprile 1948 da
qualche compagno di cella nel penitenziario di Maribor – sembrò in un primo
momento una presa in giro.
Poi, quando riuscimmo ad avere il giornale comunista,
ottenemmo la conferma del tanto atteso provvedimento che però non riguardava i
compagni di prigionia croati e sloveni.
C’era stato un accordo tra i Governi di Roma e Belgrado,
e Belgrado prevedeva l’applicazione del provvedimento anche alle persone che
avevano diritto di optare per la cittadinanza italiana: agli amnistiati veniva
“assicurata l’uscita dalla Jugoslavia in Italia”.
Un paio di settimane più tardi fummo convocati – eravamo
un’ottantina - dalla Direzione per darci la possibilità di optare per la
cittadinanza italiana.
Una risposta arrivò dopo breve tempo ma soltanto per una
trentina di persone: fu una mazzata per quel gruppo di amici ai quali era stata
negata l’opzione perché mancava il presupposto della “lingua d’uso italiana”;
ad altri si comunicò che l’opzione non poteva essere accettata perché erano
cittadini del “territorio” di Trieste: non fu facile trovare una parola di
conforto per quegli amici.
22) I Monfalconesi EMIGRANTI DAL
MONFALCONESE (estratto da Pag.
237)
I provvedimenti amministrativi riguardanti Fiume e Sussak
venivano decisi ormai da un unico “Comitato Popolare cittadino”, formato da
cinque persone di nazionalità italiana e otto di nazionalità jugoslava. I
Deputati al “Sabor” erano Giuseppe Arrigoni e Franjo Kordic; all’Assemblea
Nazionale Pietro Klausberger.
Cinquemila sarebbero stati all’inizio dell’anno
scolastico 1947-48 gli allievi degli Istituti fiumani di istruzione con lingua
di insegnamento italiana. Nonostante i vuoti che si venivano creando giorno per
giorno con lo stillicidio delle partenze, si poteva pensare che le tradizioni
di un tempo sarebbero sopravvissute con l’apporto dei monfalconesi, cioè quelle
“centinaia“ di operai nativi di Monfalcone e del Basso Isontino.
Quegli operai dovevano offrire un’irrefutabile
testimonianza della difficile situazione delle masse lavoratrici italiane, che
sarebbero state costrette all’emigrazione “dallo sfruttamento delle classi
padronali e dalle persecuzioni organizzate da gruppi di malfattori al
soldo della reazione”.
La situazione degli emigrati mutò radicalmente
nell’estate del ’48, dopo la condanna del comunismo jugoslavo espressa dagli
Stati del blocco orientale.
(vedi Nota (*) in calce)
Molti “monfalconesi”, sospettati di aderire alle tesi del
Cominform, furono incarcerati: Ottavio Ferletich, Adriano Fontanot, Sergio
Mori, Valmaro Buttignon, Fiore Bersa, Ennio Brenci, Edoardo Marini, Romea
Bersa, Vittorio Cernigoi, Stettino Demarchi, Attilio Battilana, Pietro
Buttarelli, Silvano Ladich, Albano Olivieri, Tiziano Bergamasco, Nicola Plet,
Ernesto Pieri.
Furono trattenuti per brevi periodi periodi in carcere e
poi internati con le famiglie in Bosnia, a Zenica e Tuzla.
Non si ebbero invece notizie della sorte toccata al Prof.
Mario de Micheli, intellettuale di “sinistra” proveniente da Milano ed incluso
dalla polizia jugoslava nel primo gruppo di “cominformisti” fermati per
accertamenti.
Nel 1949 ripresero le retate della polizia e sarebbero
stati arrestati Guseppe Franti, Mario Fumis, Irene Riavec.
(*) Le
accuse del Cominform (estratto
da Pag. 233)
“ In Jugoslavia sarebbe stato instaurato un regime
ottomano e terrorista che non rispettava i principi “ della critica e
dell’autocritica, e che sottoponeva a “crudeli repressioni “ quanti si
opponevano al “ dominante “settarismo burocratico”.
“ Il partito comunista jugoslavo avrebbe continuato ad
operare praticamente nella clandestinità – a tre “ anni dalla fine della guerra – e si sarebbe illuso di poter
govermare attraverso un “Fronte
“Popolare”che accoglieva anche gruppi politici borghesi”, tutta la
propaganda jugoslava sarebbe stata “
impostata su schemi trotzkisti e controrivoluzionari, oppure opportunistici
secondo il modello dei “ menscevichi e dei seguaci di Bucharin.
“ Nella nuova Jugoslavia non sarebbe ancora stata
modificata la preesistente economia agricola
“ individuale e le condizioni per imporre la collettivizzazione della
terra; le recenti leggi jugoslave sulla “ nazionalizzazione delle piccole
imprese e sulle imposizioni fiscali sarebbero state improvvisate “mettendo così
in pericolo l’approvvigionamento del Paese”.
La risposta jugoslava - - - da questo punto
comincia la difesa jugoslava - - -
“ Nonostante la
gravità di accuse dal Cremlino, sembrava che i capi jugoslavi non avessero
intenzione “ di riconoscere i propri errori: erano prive di fondamento le
accuse di “regime ottomano”; il partito
“ comunista non sarebbe stato sul punto di dissolversi nel “Fronte
Popolare jugoslavo”, ma avrebbe “ invece “allevato nello spirito di una
politica marxista e leninista” le masse facenti parte del “Fronte”;
“ i Dirigenti jugoslavi non si sarebbero preparati
affatto a “far concessioni agli imperialisti o a vendere “ l’indipendenza del
proprio Paese”; le cause delle difficoltà che la Jugoslavia stava incontrando
in “ materia di rifornimenti, sarebbero derivate dal particolare “periodo di
transizione tra capitalismo e “ socialismo”.
23) In attesa della Libertà
BARACCHE A ZALOG (estratto da Pag.
235)
Ci trovammo a Zalog sin dall’ 11 settembre 1948; tre mesi
prima ci avevano fatti partire improvvisamente dal penitenziario di Maribor
trasferendoci nelle carceri giudiziarie di Lubiana.
Eravamo in novanta, tutti optanti per la cittadinanza
italiana, e i nuovi compagni erano validi testimoni degli ultimi avvenimenti
della nostra città.
L’ing. Giulio Duimich – notoriamente promotore di
inziative autonomiste nel primo dopoguerra – era stato incriminato e poi
condannato a cinque anni per presunti collegamenti con alcuni esuli fiumani di
Trieste.
Al Dott. Onorato Lenaz
- condannato a otto anni di “privazione della libertà personale con
lavoro obbligatorio” – era stata mossa l’accusa di aver diffuso “manifestini
ostili al potere popolare” e di aver inviato in Italia relazioni tendenti a
provocare “un intervento straniero”.
Il Parroco di Torretta Don Arsenio Russi – che per le
medesime accuse s’era visto infliggere una condanna a dieci anni – era stato
trattenuto in un penitenziario della Croazia assieme ad una trentina di altri
optanti giuliani.
Don Giacomo Cesare, già in cella con Padre Nestore ed un
gruppo di sacerdoti sloveni, s’era invece visto condonare un anno della pena ed
era stato liberato da alcuni mesi.
Era morto nelle carceri a Fiume - suicida secondo la versione della polizia – Gianni Marussi,
ch’era stato arrestato assieme ad un gruppo di amici verso la fine del 1947 sotto
l’accusa di attività politica clandestina.
In un fallito tentativo di espatrio pareva fosse stato
ucciso il figlio di un compagno di prigionia, Giuseppe Superina, ch’era stato
con noi a Maribor.
Anche a Zalog, dopo una certa tolleranza dimostrata dalle
guardie nelle prime settimane, si cominciava a sentire un brusco appesantimento
delle sanzioni disciplinari.
Alcuni si erano fatti portavoce di qualche protesta e
poco dopo otto dei nostri – scelti più o meno a casaccio – erano stati
ritrasferiti a Lubiana nelle celle di punizione.
Più tardi Antonio Leta – colpevole di aver borbottato in
italiano qualche battuta presumibilmente ironica ma incomprensibile per il
Comandante del campo – aveva dovuto farsi di corsa, nonostante la sua età
avanzata, una ventina di giri attorno alla nostra baracca a suon di cinghiate e
calci quando cadeva a terra sfinito.
Dopo aver alzato il gomito la notte di San Silvestro,
volle farsi notare anche uno dei due Vice Comandanti e cominciò a girare tra le baracche gridando confusamente di
voler uccidere un italiano per festeggiare il nuovo anno: sparò un colpo di
pistola ma un suo collega riuscì ad afferrargli in tempo il braccio ed a
deviare il tiro.
24) Ancora
contrattempi KRANJ, JESENICE, NOVA GORICA (estrato da Pag. 239)
Perché ci hanno riportato da Zalog a Lubiana? Forse è
venuto il momento del rimpatrio.
Viene letto un elenco nominativo ed i Frati arrestati nel
novembre 1947 in un Convento di Pola –
Roberto Bellato, Ernesto Benincà, Albino Gomiero, Giuseppe Matiello –
debbono lasciare il nostro gruppo.
Una quindicina di altri amici – Duimich, Lenaz,
Rivosecchi, due sacerdoti dalmati, alcuni laureati fatti prigionieri nel maggio
’45 in Istria – sono costretti a seguirli subito dopo.
Un ufficiale osserva le nostre scarpe e fa’ poi ritirare
quelle più malconce; anche gli abiti debbono essere consegnati a due detenuti
sloveni: più tardi ci restituiscono le scarpe risuolate ed i vestiti rammendati
e accuratamente stirati.
Si va alla stazione ferroviaria, pare che si dovrà viaggiare
tutto il giorno e ci fermeremo a Salcano, ribatezzata Nova Gorica a quanto
sembra: il nostro trasferimento a Gorizia pare rinviato a domani 10 gennaio
1949.
Arriva l’alba e si parte con due camion cantando l’inno
di Garibaldi: le guardie – che capiscono l’italiano – sopportano le strofe e il
ritornello, mentre qualche amico ci consiglia maggiore prudenza per il momento.
Ormai vediamo il castello di Gorizia con la bandiera
italiana che sventola sul bastione più alto e ad un centinaio di metri dalla
barra di confine dobbiamo ammassarci in una specie di rimessa, da dove vediamo
l’esigua “terra di nessuno” dove si incontrano i delegati delle due parti.
Ad un tratto i due gruppi si separano: i delegati
jugoslavi si dirigono verso di noi e – dopo aver affermato che i funzionari
italiani si disinteressano dei propri connazionali ed intralciano le trattative
– invitano un nostro “rappresentante” a seguirli per un nuovo tentativo di
accordo.
Dopo qualche tempo è di nuovo tra noi il compagno di
prigionia che è stato scelto come nostro rappresentante; egli dice di essere
intervenuto nella “trattativa” e di aver chiesto polemicamente cosa stavano
facendo il Governo e i funzionari mentre noi in carcere dovevamo sopportare il
freddo e la fame.
Intervengono poi i delegati jugoslavi ed affermano che il
Governo di Belgrado – non volendo trattarci come “merce di scambio” e non
accettando quindi una contrattazione su rapporti di uno a due oppure di uno a
tre – chiede l’immediata consegna di un numero di detenuti pari a quello dei
prigionieri italiani.
Il Governo di Roma non sarebbe disposto ad accettare il
criterio della “parità” per gli scambi degli “amnistiati” e giustificherebbe
tale decisione affermando che nelle carceri italiane vi è soltanto un modesto
numero di detenuti jugoslavi.
I delegati di Belgrado ci propongono di approvare una
“mozione” e ci consegnano un testo scritto.
Alcuni di noi cominciano a firmare in calce alla mozione
mentre secondo altri la la mozione farebbe il gioco del Governo di Belgrado
danneggiando così – dato che il numero dei prigionieri italiani è
presumibilmente più alto di quello dei prigionieri jugoslavi – i connazionali
che abbiamo lasciato in carcere a Lubiana, Maribor, Lepoglav, Stara Gradisca.
Sta’ quasi per scoppiare una una vivace polemica tra noi,
ma i più si intromettono e firmano.
25) Di nuovo carcere e lavoro SLOMSKOVA
E MIKLOSICEVA (estratto da Pag. 242)
Nel nuovo campo di lavoro, non molto distante da Lubiana,
ove ci trasferirono nella primavera del 1949,
noi “optanti” eravamo una cinquantina: avevamo fatto ritorno dal confine
di Gorizia alle carceri di Lubiana l’11 gennaio, dopo il mancato accordo tra i
funzionari governativi in merito al rapporto numerico da adottare nello scambio
dei prigionieri italiani e jugoslavi.
Pareva che in febbraio si fosse conclusa con successo una
nuova trattativa al confine, ma non si era riusciti sapere quanti detenuti
jugoslavi erano stati liberati in cambio dei trenta nostri ex compagni di
prigionia scarcerati in quella occasione.
Il luogo che ci ospitava conservava il nome di
“Marindom”, cioè la denominazione popolare di un istituto religioso che era
andato pressochè distrutto nei bombardamenti aerei nell’ultimo conflitto:
toccava a noi ricostruire quelle mura, destinate ora a diventare un “Dom
Milice”, cioè un Comando regionale della “milizia popolare”.
Protestammo per la pesantezza del lavoro e per le
condizioni di vita nel campo durante una delle visite del Direttore del
carcere, che respinse ogni nostro rilievo ed affermò che se eravamo incapaci di
sottostare alle regole e alla disciplina dei posti di lavoro, saremmo stati
ritrasferiti nelle carceri giudiziarie della via “Miklosiceva”, dove c’erano
razioni di fame rispetto a “Marindom”.
Verso la metà di maggio, furono presi di mira dalle
guardie due nostri connazionali malati e Massimo Fabris si assunse le difese
dei due amici; quando sapemmo che Fabris era stato aggregato alle celle di
rigore, concordammo un’azione dimostrativa a suo favore chiedendo il
trasferimento di tutti noi nelle carceri della via Miklosiceva.
Ci accusarono di insubordinazione e ci caricarono
pressochè di peso – a furia di spinte, urtoni, calci e manrovesci - su un
camion diretto ad un altro campo di lavoro; nel trambusto le guardie pensarono
anche di poter identificare una mezza dozzina di recalcitranti tra cui Carlo
Visinko, Romolo Rainò, Ferdinando Camellotti, Attilio Iacovino, Enzo Del Papa,
da aggregare a Fabris, ed uno alla volta noi prescelti fummo avviati in una
cella di rigore, dove in quei dodici metri quadrati si doveva dormire a turno.
Con i detenuti sloveni, trovati la’ dentro, si era in
ventidue a rubarci l’aria che filtrava dai tre fori aperti in un muro edificato
davanti alla finestra della cella.
Nella cella accanto c’era un gruppo di “cominformisti”
sloveni, tra cui tali Weiss, Colnar, Bohinc, Malensek, Comor coi quali
riuscimmo a scambiare qualche parola: tra loro erano un ex Direttore del nuovo
quotidiano di Lubiana, un ex “Sindaco” comunista della città di Kranj, altri ex
combattenti antifranchisti della guerra civile spagnola o ex deportati del
campo nazista di Dachau.
Essi ci chiesero notizie di un leader comunista triestino
Vittorio Vidali, che avrebbe preso posizione contro il regime di Tito.
26) Finalmente Liberi OLTRE LA
SBARRA (estratto da Pag.
246)
Ci parve di sognare quando il 6 giugno 1949 ritornammo al
“Marindom” dopo i venti giorni trascorsi nelle celle di rigore della via
Miklosiceva.
L’8 giugno, un mercoledi, nelle prime ore del pomeriggio
un paio di sottufficiali della milizia popolare venne a cercarci un’altra
volta: avevano con sé un lungo elenco di nomi di prigionieri italiani, e quanti
venivano chiamati dovevano schierarsi davanti alla baracca della Direzione.
Il giorno dopo cominciò il rituale della stiratura degli
abiti e della risuolatura delle scarpe: credemmo allora di poter sperare nella
partenza verso il confine.
Venerdi sera una guardia ci disse che “probabilmente”
saremmo partiti un paio d’ore più tardi.
Partimmo prima di mezzanotte e la mattina dopo, verso le sette,
eravamo ammassati in sala d’attesa dell’ex stazione ferroviaria “Gorizia
Montesanto”, in zona jugoslava ma ad una ventina di metri dal confine con
l’Italia.
L’ordine di uscire arrivò soltanto poco dopo le dieci e
mezzo, e davanti alla stazione ritrovammo i camion che dovevano portarci fino
al valico di frontiera, già intravisto cinque mesi prima.
Ci fecero allineare a pochi passi dalla sbarra di confine
ed oltre un cavalcavia ferroviario riuscimmo a scorgere una pattuglia di
carabinieri, ma senza vedere i prigionieri jugoslavi destinati ad essere
scambiati con noi, che però arrivarono in venti alcuni minuti più tardi.
Un funzionario jugoslavo cominciò a leggere a voce alta i
nostri nomi in ordine alfabetico; di tanto in tanto si fermava e dall’altra parte
venivano letti i nomi di alcuni prigionieri sloveni.
Coloro che venivano chiamati potevano superare la
“striscia della terra di nessuno”.
Si gridò assieme “Viva l’Italia” quando anche l’ultimo
del nostro gruppo non fu più in territorio jugoslavo:
Massimo Fabris strappò la rammendatura di una sua coperta
e ne estrasse un rettangolo di stoffa bianco-rossa e verde, che sventolò di
fronte ai nostri ex carcerieri.
Ci avviarono verso un edificio a pochi passi dal confine
e alcune signore di un’organizzazione assistenziale offersero bibite, biscotti
e tartine.
Qualche agente in borghese – e più tardi qualche signora
– ci fece vedere le fotografie di diverse persone, scomparse nel 1945,
chiedendoci inutilmente se avevamo mai visto quei volti durante la nostra prigionia.
Chiedemmo se si sapeva qualcosa di imminenti scambi di
prigionieri, ma ci parve di capire che ormai erano ben pochi i detenuti sloveni
in Italia da offrire in cambio all’altra parte.
Fornimmo altre informazioni sugli amici rimasti in
carcere in Jugoslavia: il funzionario confermò che aveva preso nota di tutte le
nostre dichiarazioni.
I verbali – volle rassicurarci – sarebbero stati
trasmessi senza indugio agli uffici centrali.
Annotazione di
Rudi Decleva:
Caro Furio,
sono stato suo compagno di banco nella IV Liceo
Scientifico “Antonio Grossich” e tuttora mi considero suo grande estimatore ed
amico.
Dassovich è nato a Fiume nel 1928.
Dopo il rientro in Italia nel 1949, egli riprese
gli studi che aveva dovuto interrompere tre anni prima, laureandosi nel 1956 .
Frequentò negli USA la Columbia University di New
York, dove ottenne il “Master of Arts” della Facoltà di Economia.
E’ stato Assessore al Bilancio nell’
Amministrazione Provinciale di Trieste ed Assistente di Economia politica e
Politica economica nell’Università di Trieste.
La sua obiettività nella descrizione delle vicende
giuliane, triestine e fiumane del dopoguerra – riportate in un’ampia collana di
opere che spero abbiano ancora ad incrementarsi – lo pone tra i vertici storici
contemporanei delle vicissitudini del nostro travagliato confine orientale.
Rudi Decleva